Hic manebimus optime, ma cosa ci sarà di là?

Amitav Gosh
Amitav Gosh

Ho terminato in questi giorni la lettura di “Mare di papaveri”, di Amitav Ghosh, Neri Pozza 2008. Primo libro di quella che viene denominata “Trilogia dell’Ibis”, di cui quest’anno dovrebbe (avrebbe dovuto) uscire il terzo volume, a quanto ne so non ancora presente in libreria. Un libro di cui leggerò sicuramente, e vorrei farlo a breve, il secondo volume, “Il fiume dell’oppio”, anche se, per la verità, preferirei attendere l’uscita del terzo per non rimanere poi delusa da un’attesa che si protrae.

L’Ibis, la vera protagonista del romanzo, è una nave, dedita al traffico dell’oppio e di esseri umani; al tempo in cui si svolge il racconto, nella prima metà dell’800, naviga i mari tra India e Cina, dalla foce del Gange a Canton, e costituisce il contenitore dove si intrecceranno le storie di personaggi diversi, raccontando, sullo sfondo, il formarsi dei contrasti commerciali che porteranno alla guerra dell’oppio tra Regno Unito e Impero del Sol Levante: con tale guerra (due, in realtà, ambedue vinte dal Regno Unito: prima metà dell’800) con il soccombere dell’Impero cinese alla potenza e agli interessi commerciali dell’Inghilterra, ha avuto inizio il colonialismo occidentale in quell’area del mondo. E quel che ne è seguito.

Come sempre avviene, si leggono romanzi, si seguono appassionatamente le storie dei personaggi, mentre si immagazzina altro e, senza farci caso, si organizzano dentro di noi saperi, idee, punti di vista sul mondo. Piace a tutti, a tanti, il romanzo, ma anche il film, ambientato in epoche storiche, e il perché va forse ricercato nel desiderio di fuga dall’oggi, ma anche nel piacere che si trae da una storia che, per quanto coinvolgente, ci permette di non implicarci a fondo. Dopotutto, si tratta di cose, persone, fatti, lontani da noi; soprattutto, seguiamo le storie dei personaggi, storie individuali, per lo più storie d’amore e il contesto diventa un semplice contenitore per farle funzionare, non ci riguarda in modo diretto. Ci pare, in effetti, di poterne star fuori, salvo che l’autore, malignamente, non usi il romanzo per veicolare anche un’altra storia di cui sarà difficile non cogliere implicazioni che hanno a che fare con il nostro oggi, con la storia che ne è seguita e non si è mai veramente conclusa.

Notoriamente, la storia può essere raccontata in tanti modi ma, quando narrata nei libri ufficiali, richiede pezze d’appoggio, più o meno verificate, testimonianze, documenti e quant’altro, necessita di confronto, di valutazione critica. Veicolata da un romanzo, trascorre facilmente, senza filtro, nelle nostre menti. Vi si deposita.

Un pensiero al volo: siamo sicuri che i più grandi film fantasy non siano gli western degli anni ’50? Vedi un po’, devo pensarci. No, dico, perché, dopo una serie di film, o di libri, di un certo tipo, chiaramente classificati ‘opera di fantasia’, si rischia di non chiedere più come sono andate davvero le cose.

Ecco, questo è un libro che suggerisce, senza veramente dirlo, come sono andate le cose e, anche da questo punto di vista, è un libro prezioso, che suscita curiosità utili senza richiederle. E, volendo, le fa pure utilmente passare.

Una storia avvincente. Sarà la prossima recensione.

Mentre finivo di leggere, riflettevo anche sul fatto che, ancora una volta, le letture, le più diverse, sembrano possedere una loro serendipità per cui avviene che si presenti, mentre stai leggendo altro, in modo felice e senza che tu lo abbia cercato, un tema che ti sta attraendo: il tema della traduzione, di cui abbiamo recentemente parlato e che, nel caso di questo libro, presenta un particolare spessore.

Si tratta infatti di un romanzo che, tra i molti aspetti interessanti – primo tra tutti una storia ricca, avvincente, corale, con personaggi di grande spessore umano – presenta un particolare interesse sul piano della ricchezza lessicale, sul piano dei prestiti che le diverse lingue scambiano quando i popoli che le parlano sperimentano legami, buoni o cattivi fa lo stesso; quando una particolare sottocultura, ad esempio legata ad una professione quale quella del marinaio, porta allo sviluppo di termini che, con diverse provenienze linguistiche, formano un gergo tale da consentire ai parlanti il reciproco riconoscimento.

Quando ciò avviene, e quando un autore riesce a restituire, in un’opera narrativa, tutta la vitalità che caratterizza ogni lingua parlata, il risultato arricchisce il lettore molto oltre il piacere della storia. Perché la lingua è, per l’appunto ed essenzialmente, lingua parlata e solo secondariamente, scritta. La lingua formalizzata, con le sue regole certe (più o meno) ha la funzione di permetterne un massimo di condivisione; ha la funzione di consentire la nascita e lo sviluppo di una letteratura attraverso la quale ampliare scambi di pensiero, conoscenze, relazioni, condivisioni; tutto, in ogni modo, finalizzato ad un ritorno alla lingua parlata, motore di sviluppo che solo può promuovere la vitalità della lingua stessa, la sua evoluzione e le sue articolazioni interne.

E quando la lingua scritta è usata per scambiare racconti, per scambiare conoscenza reciproca attraverso le storie, attraverso il piacere che si prova nell’ascoltarle e nel raccontarle, e fa ciò riuscendo a restituire al lettore la ricchezza dei diversi gerghi dentro una scrittura che scorre, ricca di tutta la sua formalità: quando tutto questo avviene si ha il massimo.

Ne parleremo, di questo romanzo, in attesa del completamento della trilogia. Per ora, val la pena di dire che si tratta di un romanzo molto godibile, di quelli che non si fanno lasciare, mentre si seguono le vicende dei diversi personaggi. E potremo fin da ora dire che è un’opera la cui godibilità è il risultato anche di un lavoro di traduzione di grande interesse, che ha usufruito della collaborazione di due traduttori: Anna Nadotti e Norman Gobetti, citati nel titolo interno sotto la voce “traduzione e cura”, in luogo del semplice: “traduzione”. Perché qui, in particolar modo, la ‘traduzione’ non bastava.

Neil Gaiman
Neil Gaiman

Nel frattempo, terminata questa lettura, sto leggendo, con piacere misto a una leggera forma di disagio, “L’oceano in fondo al sentiero” di un autore che non avevo mai letto: Neil Gaiman, le cui opere vengono collocate dalla critica nell’ambito del Fantasy – e non posso trattenermi dall’aggiungere “qualsiasi cosa ciò significhi”.

Perché è così. La designazione di un libro come appartenente al genere ‘fantasy’, con tutte le sue declinazioni (horror, distopie, mitologie, ambientazioni gotiche, a carattere favolistico, tecnologico, e chi più ne ha più ne metta) consente l’assegnazione di un libro al genere in un modo che non consente al lettore di orientarsi. Alla fine, è probabile che un orientamento possa venire dalla Casa Editrice, solitamente piccola, che, spesso, si caratterizza per una specializzazione nel genere.

Il metodo tuttavia non è sempre valido; non lo è neppure la considerazione che, se un romanzo appartenente al genere viene editato da una ‘grande’ casa editrice, in una sua collana, il lettore può considerare questo fatto una consacrazione del libro da parte della critica, e sentirsi rassicurato: perché è vero, il genere è occupato da un eccesso di pubblicazioni di bassa qualità, destinate a un pubblico di adolescenti e giovani, che combinano queste letture con l’interesse per il mondo del fumetto, per videogiochi, giochi di ruolo, un’intera area della realtà che il mondo, vecchio, dei lettori forti, non vede, da cui tutto lo separa. Così il danno è per tutti: per i ragazzi che si trovano tra le mani opere di scarsa qualità e per i pochi (ma resta da vedere) ottimi libri che spariscono nel mucchio e che è difficile individuare, complici, anche, terrificanti copertine.

Il libro di Neil Gaiman, autore ben noto, mi par di capire, ai giovani lettori, ed editato da Mondadori, Collana Strade Blu, è sicuramente un libro che mi interroga, quantomeno per una domanda su dove stia andando la narrativa, rappresentata, piaccia o meno, dai suoi lettori più giovani, mentre un io-noi (mi permettete?) se ne sta abbarbicato sul suo albero con i suoi libri che – è un’ipotesi – parlano di un mondo che non c’è. Che sia, il nostro mondo di lettori, il vero fantasy? Dove io, peraltro, mi trovo benissimo. E resterò.

Pure, finito questo libro, lo rileggerò con più attenzione, per ascoltarlo bene; magari leggerò qualcos’altro di questo autore. O di altri di quest’area. Così, perché vorrei almeno sbirciare là dove la narrativa sta andando.