Amitav Ghosh, “Mare di papaveri”, Neri Pozza 2009
Traduzione a cura di Anna Nadotti e Norman Gobetti
Riprendo da dove avevo lasciato, preannunciando questo romanzo nel post precedente, e scrivendo che, ‘si leggono romanzi, si seguono appassionatamente le storie dei personaggi, mentre si immagazzina altro e, senza farci caso, si organizzano dentro di noi saperi, idee, punti di vista sul mondo’.
Particolarmente vero nel caso di questo bellissimo libro, che trattiene il lettore incollato alla pagina e ai molti personaggi che vi si muovono: vite che si intrecciano, per confluire in un destino comune; ogni storia un percorso a sé, carico di altre storie al proprio interno, capace di evocare mondi, facendo convivere le piccole cose di ogni giorno con i grandi eventi che decidono i destini, non dei popoli, no, non di un’astrazione, ma delle piccole singole vite di ognuno.
Il lettore è catturato dalla Storia – è il 1838, o giù di lì, un tempo immediatamente precedente la prima guerra dell’oppio, che scoppierà nel 1839 tra l’Impero Britannico e l’Impero cinese – mentre è avvinto da una vicenda, da un’altra, e da un’altra ancora, che si intrecciano – e sempre più la pagina non si fa lasciare: il libro, lungo, denso, scorre veloce, e non se ne attende la fine. Ci si vive dentro.
Nel fondersi delle storie, ognuna delle quali conserva la propria centralità, ci si trova all’interno di un disegno complesso, che lentamente si apre alla vista del lettore, come un’alba: poi è piena luce; la visione si svela nel tempo in cui viene compresa e accolta dal personaggio che la vive sulla pagina.
Un mondo raggiunge la piccola casa di Deeti, la giovane sposa, di Hukam Singh, la madre di Kabutri, sei anni, che nel pensiero della madre, entro tre o quattro anni sarebbe andata sposa, avrebbe dovuto chiudere la propria infanzia, accompagnata alla casa del marito su di un baldacchino, per entrare in un destino dovuto e come tale accolto.
Il racconto inizia con una visione, che Deeti sperimenta mentre, con la piccola figlia, si bagna nel fiume per la preghiera di mezzogiorno.
“Fu in un giorno per il resto normale che Deeti ebbe la visione di una nave dall’alta alberatura in navigazione sull’oceano, e comprese immediatamente che quell’apparizione era un segno del destino perché mai prima aveva visto un’imbarcazione simile, neppure in sogno (…). Il suo villaggio si trovava così all’interno che il mare sembrava distante quanto l’aldilà: era l’abisso di tenebre dove il sacro Gange spariva nel Kala-Pani, “il Nero Oceano”.
Accadde alla fine dell’inverno, in un anno in cui i papaveri furono stranamente lenti nello spargere i petali (…)”.
Entra da subito nel racconto la prima protagonista, la nave Ibis, ancora sconosciuta; conosceremo poco dopo il secondo protagonista, un luogo e il suo tempo, del tutto diversi: il piccolo tempio che Deeti cura, nella sua casa, in cui sono raccolte per essere onorate, celebrate, rese oggetto di culto le “statue di Shiva e Ganesh e immagini incorniciate di Krishna e Durga”, ma anche i piccoli ricordi che Deeti conserva della propria famiglia di bambina, oggetti appartenuti al padre, alla madre; e disegni, che con poche essenziali linee Deeti compone per rendere presenti affetti, avvenimenti, chi non c’è più e chi è lontano.
Nel tempio di Deeti avrebbe trovato posto anche il disegno della nave; e in seguito, nello svolgersi degli avvenimenti che stravolgeranno la sua vita, si aggiungeranno i ritratti delle persone che avrebbero inverato la visione, che avrebbe condotto ognuno, per una sua strada, ad essere imbarcato, con diverso destino, sulla Ibis.
I disegni, il loro trovare posto in un tempio della mente, costituiranno, con la nave, con la sua storia, con il suo particolare equipaggio, la linea-guida che accompagnerà il lettore, mentre i personaggi della storia entrano in scena, uno dopo l’altro.
Zachary Reid, “(…) americano, figlio di una schiava liberata, meticcio, “con una carnagione color avorio antico e una massa di capelli nerissimi e ricciuti che gli ricadevano sulla fronte e sugli occhi. Le pupille, scure come i capelli, erano però screziate di nocciola (…) che, da semplice marinaio, giungerà ad essere il primo ufficiale della nave, rispettato ed amato dai lascari che formavano l’equipaggio. Erano, questi marinai, una particolare comunità, caratterizzata da forte solidarietà che si esprimeva anche tramite un proprio linguaggio, capace di renderli riconoscibili all’esterno e tra di loro. “Li accomunava la provenienza dal perimetro dell’Oceano Indiano: cinesi e africani della costa orientale, arabi e malesi, bengalesi e goani, tamil e arakanesi (…) andavano scalzi come quando erano nati e molti, a quanto pareva, non possedevano altro abito che una striscia di cambrì da avvolgere intorno ai fianchi. Alcuni si aggiravano in calzoncini legati in vita con una funicella, altri indossavano sarong che sbattevano sulle loro gambe scheletriche come sottogonne, così che il ponte pareva il vestibolo di un bordello”
Kalua, gigante buono, di grande forza. Appartenente alla casta dei lavoratori del pellame. “Di pelle scura. (…) anche i bambini si approfittavano di lui. Era così facile ingannarlo che, alla morte dei genitori, il fratelli e altri parenti non avevano avuto la minima difficoltà a togliergli quel poco che gli spettava, e lui non aveva sollevato obiezioni neppure quando lo avevano allontanato dalla casa di famiglia, costringendolo a sistemarsi in un recinto per il bestiame.”
Raja Neel Rattan, colto, esteta, totalmente incapace di comprendere il periodo storico in cui vive.
Jodu Naskar, il giovane barcaiolo, desideroso di prendere il mare; amico di miss Paulette Lambert, la giovane francese orfana, accolta nella casa del ricco commerciante Mr. Benjamin Burnham, la cui ricchezza derivava dal traffico di oppio, dall’India verso l’Impero del Sol Levante, attività economica fondamentale per l’economia inglese.
La storia si svolge al momento in cui l’Impero cinese decide di porre fuori legge il commercio dell’oppio, entrando in conflitto con gli interessi commerciali dell’Impero Britannico che riuscirà, con le armi, a imporre la prosecuzione di quel commercio ed a ulteriormente sviluppare la propria politica di colonizzazione dell’area. Ed è interessante il dialogo che, ad una cena, nella residenza del Raja, si svolge tra questi e Mr. Burnham:
“Mr. Burnham! Sta forse dicendo che l’impero britannico intende fare una guerra per introdurre l’oppio in Cina con la forza?”
“Evidentemente sono stato frainteso, Raja Neel Rattan. La guerra, quando verrà, non sarà per l’oppio. Sarà per un principio, per la libertà…libertà di commercio e libertà del popolo cinese. Il Libero Commercio è un diritto conferito all’Uomo da Dio, e i suoi principi valgono sia per l’oppio sia per qualunque altra merce. Tanto più che, mancando l’oppio, a milioni di nativi sarebbero negati i duraturi vantaggi dell’influenza inglese.
Al colloquio è presente Zachary Reid, che interviene: “Sarebbe a dire, Mr. Burnham?”
“Sarebbe a dire, Reid (…) che la dominazione inglese in India non potrebbe sostenersi senza l’oppio, tutto qui, e non fingiamo che le cose stiano altrimenti”.
Il Raja si ribella a tale discorso e obietta che, dopotutto, l’Inghilterra è una democrazia, c’è un Parlamento che non potrebbe mai accettare un’operazione di tal genere.
“Il Parlamento? – Burnham scoppiò a ridere – il Parlamento saprà della guerra solo a guerra finita. Stia pur certo, signore, che se simili questioni fossero lasciate al Parlamento non ci sarebbe nessun Impero”
Su tutto, e su altre storie di vita che confluiranno a bordo della ibis, ci sono la nave, i suoi traffici, il suo equipaggio. E il carico: le vite, le storie che in quel luogo, si incontrano.
“Ai bei tempi andati si diceva che a Calcutta c’erano solo due cose da esportare: delinquenti e stupefacenti…anche se qualcuno preferiva dire oppio e coolie”.
“(…) Come un immenso flusso di limo, migliaia di predoni, briganti, criminali, ribelli, cacciatori di teste e teppisti venivano trasportati verso la foce dalle acque fangose del fiume Hooghly e sparpagliati nell’oceano Indiano, sulle varie isole-prigione in cui gli inglesi tenevano in catene i loro nemici.”
Un romanzo corale; personaggi difficili da eludere nella loro verità – Il desiderio, il bisogno, di proseguire la lettura.
E la Storia. Di cui ognuno racconta la propria parte. Amitav Gosh con pacatezza, con amore per tutti (quasi) i suoi personaggi, comunque sempre vivi, e dunque giustificati dal vivere il proprio tempo.
Solo poi, non necessariamente, sarà il tempo del giudizio. Se il lettore lo vorrà, dopo aver letto il secondo libro della trilogia, “Il fiume dell’oppio” e in attesa del terzo.