Questa non è una favola per bambini.

L'oceano in fondo al sentieroNeil Gaiman, “L’oceano in fondo al sentiero”, Traduzione di Carlo Prosperi, Mondadori

Ho un ricordo estremamente vivido della mia infanzia…Sapevo cose terribili. E sapevo che non dovevo far sapere agli adulti che sapevo. Si sarebbero spaventati.” (Maurice Sendak, in conversazione con Arthur Spiegelman, The New Yorker, 27 settembre 1993)

E’ l’esergo che Neil Gaiman pone al suo romanzo, o racconto lungo. Per poi tradurlo in realtà, dicendo le cose che i bambini conoscono, vivono, da cui gli adulti restano, o si tengono, lontani.

Il fatto è che questo lungo racconto – autobiografia dei propri sogni infantili, fantasticheria del proprio sé bambino, un po’ horror e tuttavia vincente, come avviene quando, nelle favole, i piccoli fronteggiano grandi paure alla loro maniera – mi affascina, senza che io riesca ad entrarci per bene, a non difendermi, senza che io riesca, del tutto, a non ragionarci inutilmente sopra.

In prima lettura, ho provato un bisogno improprio di contenere in una categoria ciò che stavo leggendo (è un fantasy? Certo che sì, è un racconto, mah, su un trauma infantile? Beh, anche, ma no, eppure, ecco, deve entrarci Freud, certo, c’entra sempre, ma no, che vuol dire…). Ero preda del bisogno di negare un disagio, di sfuggire l’imposizione a far di conto con paure antiche, che faticosamente ricacciamo nel fondo, cui si richiede di stare in silenzio, di non farsi sentire.

Credo che dovrei dire qualcosa sulla trama, anche se non sono la storia e il suo contenuto fantastico a interrogarmi ma la particolare forma di realtà che intride il tutto, depista il lettore e lo disorienta.

Il narratore, un cinquantenne, è tornato al paese di origine per un funerale. Non viene detto chi sia il morto. Il funerale, la sua tristezza, gli atti dovuti, sono conclusi. Rimangono ancora saluti da rendere, condoglianze da ricevere. Nel mezzo, il narratore ci dice di aver deviato, girovagando, verso il luogo della sua vecchia casa, demolita e ricostruita tanti anni prima. Ora abitata da altri. Forse desidera ritrovare un ricordo, fare la conta dei cambiamenti. La strada lo porta a “un tracciato angusto e pieno di buche”, che diviene un percorso della memoria, “a ritroso nel tempo”. Incontra una fattoria. La riconosce.

Mi tornò in mente che avevo appena compiuto sedici anni e baciato Callie Anders dalle gote rosse e i capelli biondi, che abitava lì e che si sarebbe poco dopo trasferita nelle Shetland con la famiglia, ragion per cui non l’avrei più baciata né vista”.

Al termine del sentiero, più oltre non si va, gli appare “in tutta la sua fatiscente gloria di mattoni rossi, il casale della fattoria Hempstock” dove viveva una sua amica, più grande di lui, Lettie Hempstock, con la madre, Mrs. Hempstock e la nonna, Mrs. Hempstock Vecchia. E c’era uno stagno.

Sei venuto a trovare Lettie?” Nel momento in cui, giunto alla fattoria, la porta gli fu aperta da una vecchia, che lo riconobbe, ecco il ricordo.

 È il suo settimo compleanno, sua mamma aveva preparato una bella festa, tanti dolci, per tanti bambini, e non era venuto nessuno.

“Non ricordo di aver mai chiesto a nessuno degli altri bambini della mia classe come mai non fossero venuti. Non avevo bisogno di chiederglielo. Mica erano miei amici. Erano soltanto quelli con cui andavo a scuola.”

Poi, lui aveva i libri, dentro i quali rifugiarsi e in cui vivere tutte le storie, le amicizie e le relazioni che poteva desiderare. Non gli occorreva altro.

“Non ero felice, da bambino, anche se ogni tanto mi sentivo contento. Vivevo nei libri più di quanto vivessi in qualsiasi altro luogo.

C’è il dolore per la morte del suo gatto, Fluffy, regalo del padre, investito dalla macchina di un signore, “il cercatore di opali”, che sia era presentato a casa sua per risiedervi come pensionante. L’uomo gli aveva portato un altro gatto, rosso e selvatico, a compensazione di quello incidentalmente ucciso. Un nuovo gatto, di nome Monster, che soffiò al primo tentativo di accarezzarlo.

Ecco. Gatto per gatto”.

Il cercatore di opali, il giorno seguente, era stato ritrovato, morto, suicida, nella loro vecchia auto di cui il padre aveva denunciato la sparizione. Era nel bosco, vicino alla fattoria Hempstock. E lui lo aveva visto. Fu allora che conobbe Lettie, la bambina che aveva offerto di portarlo via da quel luogo, a casa sua, dove viveva con la madre e la nonna.

C’era uno stagno, dietro la fattoria Hempstock, cui si giungeva da un viottolo; c’era una vecchia panchina.

“Lettie Hempstock diceva che era un oceano, ma io lo sapevo che non poteva essere. Diceva che attraversando l’oceano erano arrivati qui dalla loro vecchia terra.”

La terra veramente vecchia era saltata in aria, diceva.

Il mondo del lettore esplode, precipitandolo dentro fantasie, che non sono tali. Qui si parla di ricordi, questa è una storia “vera” – che parola difficile! – dove si incontrano personaggi mostruosi, quelli che popolano la nostra vita di bambini, pure se ci restano le favole e la possibilità che offrono di trasfigurare il mondo, e far rinsavire un padre molto arrabbiato, vittima di un maleficio, che vuole uccidere il figlio; e ci sono una vecchia donna, e una più giovane, che ci possono aiutare; c’è anche una bambina che ha undici anni, ma li ha da tanto tanto tempo.

Mrs. Hemstock Vecchia offre latte appena munto, e favi di miele con panna e marmellata. Quando le cose si fanno tremende, tenere stretta la mano di Lettie sconfigge l’essere mostruoso che vuol fare di lui la sua preda. E Mrs. Hempstock Vecchia sa sempre cosa fare.

Probabilmente… – disse come se parlasse da sola – la cosa migliore sarebbe che tuo padre accettasse di farti dormire qui da noi. Ma perché questo succeda non devono essere arrabbiati con te, e nemmeno preoccupati…”

Mrs. Hempstock Vecchia può tagliare, con le forbici, nei nostri abiti, le nostre storie, e il tempo in cui sono avvenute, con dentro le cose che sono avvenute, e le cose che abbiamo fatto, e zac zac, far tornare tutto a posto, far tornare il papà che amiamo e non quello, arrabbiato e minaccioso, che ci terrorizza.

La voce del bambino racconta i suoi incubi, racconta la storia – vera! – di cose straordinarie e orrifiche, di esseri che si mostrano e ci aggrediscono quando trovano una porta per entrare, quando non c’è una Mrs. Hempstock Vecchia a controllarli: cose accadute e dimenticate, relegate là dove gli adulti chiudono il proprio bambino, nella stanza segreta, perché taccia.

Il tempo torna, un uomo, senza nome, incontra i suoi ricordi, Mrs. Hempstock Vecchia offre ancora la merenda, lì, sulla panchina, al bordo dello stagno che non può essere un oceano. Dentro quel tempo ci stanno altri tempi, ma è ora di tornare. Non c’è fretta per accogliere i ricordi. Mrs. Hempstock Vecchia è sempre lì.

Ecco, c’è una cosa, una frase, alla chiusura del racconto, che alla prima lettura mi era sfuggita, sempre bene rileggere, e che ora mi interroga. E non ve la posso dire. Posso solo dire che potrebbe, dovrebbe, essere tutto vero.

E ci sono le frasi brevi, essenziali, con  cui Gaiman racconta; ogni frase, ogni fatto, situazione e descrizione contiene tutta una storia, condensata in poche righe – del genere: non occorre dire di più – e una serie infinita di possibili sviluppi. Il resto è lasciato al lettore. Immagino che, in una traduzione visiva, in un film, molto potrebbe essere condensato in un movimento, uno sguardo. Veloce e, dentro quella velocità, lentissimo.

Leggendo, ci si ferma sulla frase, il tempo necessario a considerare il non detto, che ci consente di ricreare il libro, per noi stessi, di ricordare.

Sarebbe davvero bello se qualcuno leggesse questo lungo racconto e fosse tanto cortese da dirmi se ho capito. Io, sicuramente, lo rileggerò ancora.