
Neil Gaiman, “Coraline”, Mondadori 2004, Traduzione di Maurizio Bartocci. Illustrazioni di Dave McKean
Le fiabe dicono più che la verità. E non solo perché
raccontano che i draghi esistono, ma perché
affermano che si possono sconfiggere.
G. K. Chesterton
Facciamo che questa è una chiacchierata, per un pensiero sulla fiaba, su ‘questa’ fiaba, “Coraline”, e facciamo che l’occasione è bella per una riflessione (un po’ di getto, saprò alla fine dove sarà andata a parare) sulla fiaba in generale, sulla domanda a proposito del fatto che la fiaba, e questa fiaba, sia una lettura adatta ai bambini; e su di un interrogativo sottaciuto: quando una storia, sia essa fiaba, leggenda, narrazione comunque di fantasia, è interessante per un bambino, non lo è più per l’adulto? E facciamo che, quando diciamo ‘fiaba’, il pensiero vada, diretto, ai classici che hanno accompagnato le nostre infanzie: la fiaba è Perrault, è Grimm, è Andersen, è la storia di paura che, come viene detto nella frase di Chesterton posta in esergo di “Coraline”, insegna – segna dentro – al bambino che il drago esiste, e mostra come il drago verrà sconfitto – e sappiamo bene che mostrare vale più che insegnare, molto di più. Il bambino, infatti, chiede che la storia gli venga ripetuta e ripetuta e riascolta e riascolta e quale bambino mai si è fatto ripetere e ripetere un insegnamento?
La fiaba è la narrazione di quelle cose che, nella vita reale, fingiamo di nascondere ai piccoli. Nelle fiabe le mamme muoiono, i padri abbandonano, quando non programmano l’incesto come in “Pelle d’asino“, le bambine sono minacciate se attraversano il bosco e parlano con estranei, i figli maschi vengono cacciati lontano da casa, ad affrontare prove insostenibili.
In nessuna fiaba sembra si possa far conto sui genitori; ci si potrà solo augurare il soccorso di una fata madrina.
Dunque: la mamma è morta, il papà non è più tornato dal suo viaggio; se è rimasto a casa, si è fatto turlupinare e ha sposato una donna terribile, dopodiché, giustamente, se ne è comunque andato; oppure gli è venuta la bella idea di sposare la propria figlia: non so voi, ma quando io racconto una fiaba, capita che mi senta imbarazzata. Tento di mitigare e, subito, il bambino mi corregge.
Mentre narro turpitudini, vedo il bambino, la bambina, molto contenti: prima, per il fatto che venga data voce alle loro paure, attribuite (anche) a qualcun altro; poi, per la forza, il coraggio, l’intelligenza del loro alter ego, che esce alla grande dal problema e vince. Chiaro, dunque, che si desideri riascoltare e riascoltare all’infinito la fiaba: a tutti piace sentir parlar bene di sé. E mi accorgo anche che la mamma che muore, il papà che abbandona, non compaiono a causa della fiaba, erano già presenti nelle paure del bambino, cui mancava solo l’informazione sulla propria forza, sulle proprie risorse, sulle proprie capacità.
Il succo del discorso è tutto qua: i bambini sanno già tutto della paura, tanto è vero che la porteranno con sé nella vita adulta, quando, divenuti fragili, lotteranno per negare che i draghi esistono.
Mi trovo, a questo punto, di fronte alla domanda: e viceversa? Vale anche per gli adulti? Oppure per loro è troppo tardi?
Provo a costruire una risposta e vedo che, certo, gli adulti conoscono già tutte le paure reali ma pensano di essersi liberati di quelle che assegnano al mondo della fantasia e di possedere gli strumenti per fronteggiare le altre. La forza muscolare. La legge. Un’arma! La prudenza. Guida piano. I soldi. Di altre risorse è meglio tacere.
Pure, la paura adulta resta, con altri nomi; resta soprattutto la paura per i propri bambini: di doverli lasciare, di non saperli proteggere, di… di… di…proprio come nelle fiabe. È sempre la paura del drago, aumentata dal fatto di non ammetterne l‘esistenza.
Non so se a tutti gli adulti piaccia leggere o raccontare fiabe ai bambini; e recitarle con enfasi, mimarle, fare il possibile per accrescerne il potere evocativo. So che mentre raccontiamo, sentiamo la stessa tensione del bambino che si prepara alla soluzione, allo stesso modo in cui ci piace piangere al cinema quando, alla fine della storia, proviamo lo stesso senso di trionfo che prova il bambino.
Allora: è davvero necessario che ci sia un bambino per leggerle? Perché non ci autorizziamo a leggerle per noi stessi? Ci sarà poi possibile, se c’è, quando c’è, il bambino, leggerle con lui invece che a lui: piacere doppio. Anche per il bambino, che lo sentirà. In gruppo ancora meglio.
E “Coraline”? Non l’ho dimenticata.
“Coraline” è una fiaba, che si colloca nella tradizione classica delle fiabe, quelle dove c’è il drago, così come c’è nella vita, che dunque bisogna far conoscere ai bambini; dove ci sono tutte le paure che da bambini ci facevano contorcere dentro e restare ad occhi sbarrati nella notte; o fare i brutti sogni; e gridare di terrore.
Dentro ci sono le cose di noi stessi e del mondo che si debbono conoscere e affrontare, per essere attrezzati a vivere; hanno la forma di esseri fantastici, che non si incontrano nella vita di tutti i giorni ma non sono per questo meno reali dentro e fuori di noi.
“Coraline” è una fiaba che ci mostra le grandi risorse di una bambina (le ‘mie’ grandi risorse, io sono capace!), ci mostra l’adulto forte che sta dentro il bambino, che vince perché, oltre a conoscere il mostro, sperimenterà la propria capacità di fronteggiarlo.
La storia. “Coraline” mostra una delle paure più grandi. Mostra ‘l’altra mamma’ e ‘l’altro papà’, quelli che, da bambini, ci fanno paura, ad esempio quando sono arrabbiati, o li sentiamo lontani e disattenti; e mostra che siamo in grado di aiutarli a rimanere con noi come li conosciamo e li amiamo. E sulla storia, non è il caso di dire altro. Deve essere letta.
“Coraline” è scritta con un linguaggio dell’oggi, capace dunque di rinnovare, rendendola ancora vera, la forma-fiaba. L’incipit non è più il “C’era una volta”, che serviva a collocare fuori dal tempo, e dagli spazi di vita noti, ciò che veniva narrato, e che oggi, nel nostro mondo totalmente presentificato, non potrebbe, forse, ricoprire ancora la sua funzione di difesa dal riconoscimento di noi nella storia. Perché qui sta il bello: nella nostra cura ossessiva dell’infanzia, in realtà noi oggi forziamo la crescita dei bambini, lasciamo che il mondo adulto li travolga – di impegni, di apprendimenti – quasi avessimo paura di loro, e dunque fretta di farli crescere per timore che, attraverso loro, riemerga la nostra infanzia che, forse, non ha avuto abbastanza fiabe, non so.
Neil Gaiman ci offre dunque un nuovo linguaggio della fiaba; un linguaggio che, prendendo avvio da una situazione di realtà, lentamente ne fa emergere l’elemento magico, fiabesco, nei suoi aspetti angoscianti. Poi, porta il lettore fino alle alte vette della paura proprie della fiaba. Ci conduce per mano, in un labirinto di angoscia, a cercare e trovare la via d’uscita che ci riporterà alla luce del reale buono.
Ma ecco, a differenza da quanto avveniva nella fiaba classica, dove la chiusura felice veniva risolta attraverso una specie di interruzione – tipo: “E vissero felici e contenti” – qui il reale riapparirà trasfigurato, perché gli occhi si saranno aperti alla magia: alla forza alla bellezza e alla capacità di veder accadere le cose. E di goderne.
Leggendo “L’oceano in fondo al sentiero”, affascinata e disturbata, in un primo momento, da quella lettura, avevo faticato ad accogliere la magia nelle cose che Gaiman ci mostra. “Coraline” ha rappresentato – come solo la fiaba sa fare – il superamento di quella iniziale difficoltà. “Coraline” è stata scritta dall’autore per le proprie figlie bambine. Dice lui. Ma è pur sempre un adulto, e trova scuse.
Ecco, a differenza di qualsiasi altro libro di narrativa, in luogo dell’incipit, è possibile riportare la chiusura, la sera dell’ultimo giorno di vacanza dalla scuola:
“Quando spuntarono le prime stelle, finalmente lasciò che il sonno prendesse il sopravvento, mentre la dolce musica che proveniva dal circo dei topi del piano di sopra inondava la tiepida aria della sera, raccontando al mondo che l’estate era quasi finita.”
Curiosi, vero? Dai, andatela a leggere. È breve.