I “Classici”, la Graphic Novel, il fantasy

Dino Buzzati
Dino Buzzati

Mi trovo reduce, dopo la rilettura di Calvino, da una lettura veloce, che ora dovrò ripetere, di un curioso fantasy italiano di Roberto Recchioni: «YA. La battaglia di Campocarne», Mondadori 2015. L’autore è un noto fumettista, disegnatore, sceneggiatore, autore di Graphic Novel, se non mi sbaglio al suo primo romanzo; e dunque al suo primo approccio ad una scrittura che, facendo tesoro, nel suo caso,  dei canoni della graphic novel, si sostiene tuttavia unicamente sul testo.

Il romanzo appartiene a un genere che si colloca quale trait d’union tra la narrativa tradizionale e quella che Umberto Eco ha chiamato narrazione verbo-visiva (definendo narratore verbo-visivo Hugo Pratt) e che Marcello Jori fa risalire, come genere, al «Poema a fumetti» di Dino Buzzati, il big Bang del romanzo verbo-visivo” la cui “scrittura disegnata richiede un nuovo lettore vedente[i].

È un genere di narrativa che risponde a canoni non tradizionali ma che possiede un sua storia importante, dotata dei suoi “classici”, seguito, nel mondo, e anche in Italia, da una fetta consistente di lettori che, collocati – dal dire ufficiale e da se stessi – all’interno della sottocultura “fandom”, si ritrovano sia a far parte di un dominio considerato separato sia protettori di quella separatezza, non-integrati per scelta, come tendono a fare gli appartenenti a ogni buona sottocultura in base al principio: voi escludete me e io escludo voi.

Hugo Pratt
Hugo Pratt

A parte il grande Buzzati, personalmente un po’ ho letto-guardato, nel tempo, Hugo Pratt, e oggi tento qualche approccio a Zerocalcare, con fatica, ma confesso il piacere, invece, di fronte alle “versioni scritte” di questo mondo, un genere fantasy che mi entusiasma e mi incuriosisce. Che, per farla breve, leggo di gusto, dopo un’accurata selezione, affiancata dall’esperto di famiglia che mi offre consulenza nella scelta – sulla base della qualità dell’opera e del fatto che la stessa sia, a suo parere, “usufruibile-da-me”.

E mi entusiasmo. Per il prodotto? Per la sua qualità? Per un’intuizione di qualcosa che fatico a mettere a fuoco ma in cui ritrovo il piacere della lettura.

Nel frattempo Vittorio Ducoli (qui), mi ha condotta, con un suo commento, a una riflessione sul significato dell’attributo “classico”, assegnato a un’opera letteraria; essendo “classico” un termine che si presta a un ampio ventaglio di significati, in relazione al contesto.

Così: ‘classico’ ha il senso, originario, di un riferimento a opere risalenti al mondo greco-romano, alle origini della nostra cultura.

Per estensione, si utilizza per classificare un’opera il cui valore sia stato confermato dal tempo e risponda a canoni condivisi e formalizzati dalla critica ufficiale quali costituenti un corpus in qualche modo coerente con una società, con la sua cultura, con i suoi sistemi di valori; possiamo dire in quanto imposti/proposti con autorevolezza (talvolta con autorità) dalla classe preminente/dominante riconosciuta. E, in conseguenza, inseriti nei programmi scolastici dei diversi livelli.

Ne consegue che tali canoni saranno riconosciuti fintantoché la loro imposizione/proposta sarà accolta dal gruppo sociale preminente.  E sancita dalla Scuola, in ogni società veicolo della trasmissione socio-culturale, prima che della trasmissione del sapere e dei suoi strumenti.

Ecco, a proposito di Scuola e della sua funzione, non rientra probabilmente nel concetto di ‘classico’ un libro come «Lettera a una professoressa» di don Lorenzo Milani (1967), un testo importante, al di là del suo relativo valore letterario, che tale avrebbe potuto diventare se, al tempo, gli estesi fermenti di cambiamento sociale in atto nel paese avessero portato a una reale transizione, con la conseguente evoluzione dei canoni.

Per rimanere nel campo, non rientra certamente nel concetto di ‘classico’ un libro oggi credo dimenticato, quale «Le vestali della classe media», ricerca sociologica sugli insegnanti, di Marzio Barbagli e Marcello Dei Il Mulino 1969. Al tempo, nel momento in cui la scuola italiana, con l’avvio della scuola media unica, iniziava un percorso di cambiamento del proprio paradigma, quel libro è stato importante; e oggi, mentre siamo in procinto di avere una “Buona Scuola” (sic!) potrebbe essere interessante rileggerlo per recuperare un come eravamo che ci mostri il percorso attraverso il quale siamo giunti dove stiamo. Se quel saggio non è divenuto un “classico” della pedagogia, ciò non è dipeso dalla qualità dell’opera ma dal fatto che i fermenti di cambiamento che l’hanno prodotta sono morti sul nascere. La cultura dominante, infine, non lo ha condiviso.

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

E mentre tutti consideriamo Italo Calvino un autore che fa ormai parte, occupando un posto preminente, dei classici della letteratura italiana del ‘900, mi chiedo se questo si possa dire, ad esempio, del suo coetaneo Pier Paolo Pasolini, le cui opere di narrativa, pur riconosciute dalla critica, sicuramente rispondevano a canoni, al tempo, non riconosciuti, sottoculturali e, oggi, forse, non riconoscibili (non per altro, solo perché le società, tutte, sono bravissime a esercitare la cecità).

Troppe parole per dire che un concetto di classicità richiede dei canoni, più o meno condivisi, all’interno di una cultura preminente sufficientemente stabile, coesa, non a rischio di esiti anomici, che oggi, nel nostro mondo, multiculturale, caratterizzato dalla presenza di sottoculture forti, non possiamo ritrovare se non nell’autoreferenzialità.

Nel mentre – torno al punto di partenza – assistiamo ad un interessante proliferare di esperienze, di avanguardie, che si esprimono in linguaggi diversi, come tali riconosciute e prese in considerazione dalla critica e dalla cultura ufficiali.

Per quanto riguarda invece lo specifico campo della letteratura, il mondo della scrittura, assistiamo, mi pare, ad un forte irrigidimento, supportato dalla Scuola, su canoni che non attengono più ad una società vitale, capace di parlare ad una nuova generazione.

Vediamo il numero dei lettori ridursi. Non vediamo, vediamo male, un magari ancora piccolo mondo di “lettori diversi”; di autori che si esprimono con linguaggi altri e tuttavia ormai “classici”, dentro una comunità che possiede canoni definiti. Difficile dire che questi “altri” linguaggi non abbiano dato, non stiano dando luogo a opere importanti se non si possiedono i codici di lettura che ne consentano la decriptazione – se la scuola non li incorpora, rimanendo fuori passo rispetto al mondo in cui deve preparare la nuova generazione a vivere.

Di tutto ciò che ho scritto fin qui non sono disposta a sottoscrivere, sotto giuramento, una sola riga. Mi colloco, perché è casa mia, tra quelli che indossano gli occhiali del proprio tempo. E resto abbarbicata ai “miei” classici. Ma una sbirciatina al di là della staccionata invoglia.

Salvo conservare la descrizione di Calvino, a proposito di cosa sia “un classico[ii], che inizia con la proposizione “I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo…» e mai «Sto leggendo…” e termina affermando “. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”.   Ci entra tutto.

Credo che la prossima recensione riguarderà «YA. La battaglia di Campocarne», Mondadori 2015, di Roberto Recchioni.

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[i] http://www.corriere.it/la-lettura/bookcity/notizie/graphicnovelletturamostratriennale-948b3c6c-78a0-11e5-95d8-a1e2a86e0e17.shtml

[ii] Edizioni di riferimento:

Italo Calvino, “Italiani, vi esorto ai classici”, «L’Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68.

Italo Calvino, Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano 1995