“Avere una sorella, o un’amica, è come sedere di sera in una casa illuminata”

Marylinne Robinson, “Le cure domestiche”, Einaudi 2016

Preannunciando la lettura in corso di questo romanzo, pubblicato da Einaudi a grande distanza dalla sua uscita negli U.S.A., e giustamente acclamato dalla critica, avevo scritto “Una scrittura pregevole. Una storia affascinante. Non so ancora se manterrà le promesse.”

A lettura in corso non avevo alcun dubbio sul fatto che si trattava, in effetti, di un libro che non si lascia, che trattiene il lettore nel piacere di una scrittura magistrale e dentro una storia e un ambiente insieme segnati dalla matericità della natura e dalla concretezza della vita che, dentro di essa, si svolge. Perché, dunque, mi ponevo un non giustificato interrogativo? Mentre gustavo ogni riga e ogni parola, perché è un libro che si legge con voluta lentezza, e tuttavia senza sosta che non sia obbligata.

In una casa al limitare del paese di Fingerbone, tra le montagne, abitano Ruth, la voce narrante e Lucille, due ragazzine, sorelle, orfane di madre. Del padre non si sa nulla. Niente uomini, in questa storia. Se non trascorsi, andati. O di passaggio.

“Mi chiamo Ruth. Sono stata allevata, insieme a mia sorella più piccola Lucille, da mia nonna, Mrs. Sylvia Foster, e quando lei morì, dalle sue cognate, Miss Lily e Miss Nona Foster, e quando loro scapparono via, da sua figlia, Mrs. Silvia Fisher. Siamo passate da una generazione all’altra ma abbiamo sempre vissuto nella stessa casa, la casa della nonna, costruita per lei da suo marito, Edmund Foster, un impiegato delle ferrovie che lasciò questo mondo molti anni prima che io ci entrassi.”

Fa da sfondo alla storia la vita – solo accennata, in momenti corali, quando la comunità si esprime in occasione di grandi o piccoli eventi che la riguardano – di una cittadina americana che abita un confine; una comunità, isolata tra le montagne e i boschi, che cocciutamente occupa un territorio infido, a suo modo onirico: tra le montagne, a bordo di un lago, e tuttavia in piano, avendo il paese occupato uno spazio che, un tempo, “apparteneva al lago.”

“Sembra ci sia stata un’epoca in cui le dimensioni delle cose si modificavano, creando delle differenze sorprendenti (…). Certe primavere capita che il vecchio lago ritorni. Si apre la porta della cantina e ci si trova di fronte a stivali galleggianti dalle unte suole capovolte, a assi e secchi che sbattono contro la soglia, (…) .”

Ruth racconta: e da subito il tema dell’acqua entra da protagonista. Con il tema della maternità. Il tema di ciò che è, anche, luogo acquatico – un luogo buio da cui la vita nasce e che ne assicura la prosecuzione attraverso il mutamento, la putrefazione, il farsi e il disfarsi di tutto ciò che vive. Una continuità tra vita e morte che occupa la realtà e l’immaginario.

Fuori del paese c’è un Ponte della Ferrovia, che sovrasta il lago, scosso dal vento, a rappresentare il pericolo del passaggio.

Vi è la casa, costruita dal nonno che, sognando i viaggi e l’andarsene, aveva scelto di lasciare il nativo Midwest per la montagna, dove aveva iniziato a lavorare in ferrovia e si era costruito quella casa con le sue mani. Finché morì, in un incidente ferroviario, lasciando la moglie e tre figlie, Helen, Molly e Sylvie, adolescenti.

Da lì, dal ritratto di una maternità – una vedova e tre figlie che vivono abbarbicate a lei, in un silenzio tranquillo, superato il trauma del lutto (sullo sfondo della storia rimane il ponte, luogo di vento e di pericolo, passaggio su cui era deragliato il treno, precipitato nel lago con tutti i suoi passeggeri e mai più riemerso) si snodano alcuni anni di tranquillità.

Era da quando erano piccolissime che non le stavano tanto addosso, e da allora non le era più capitato di accorgersi dell’odore dei loro capelli, della loro morbidezza, del loro respiro, della loro spontaneità. Questo la riempiva di una strana euforia, le dava lo stesso piacere che aveva provato quando ciascuna di loro, da poppante, le aveva piantato gli occhi in faccia allungando una manina verso l’altro seno, verso i suoi capelli, le sue labbra, ansiosa di toccare, impaziente di essere nutrita per poi dormire.

Le figlie se ne andranno. Lontano, a una loro vita, senza più tornare. Tornerà Helen, senza il marito, portando con sé le figlie, Ruth e Lucille, per poi – lasciate le bambine sull’atrio di casa della nonna, – andarsene a morire suicida nell’acqua del lago.

La storia ricomincia; la nonna si occuperà, per cinque anni, fino alla morte, delle nipoti, “con un’attenzione intensificata e allo stesso tempo confusa da una consapevolezza che quel presente era già passato.

Sarà alla fine zia Sylvie a tornare nella vecchia casa – e al lago, al bosco, e al ponte – per prendersi cura delle nipoti. Una zia vagabonda; sempre in atteggiamento di chi non ha luogo. Sempre vestita leggera e con il cappotto, pronta a partire.

La vita delle ragazzine assumerà i colori della precarietà estrema e della scoperta. E le cure domestiche di zia Sylvie una coloritura strana, che affascina Ruth, che Lucille respinge.

Quando Lucille se ne andrà, Ruth seguirà la zia, osando con lei l’attraversamento a piedi del ponte, verso una nuova, altra, irregolare storia di vita. Che non cambierà i legami; non porterà, in effetti, a un reale altrove e invece, sempre, nel luogo dove c’è la famiglia, dove vivono gli affetti, nei diversi modi che il possesso e l’appartenere possono assumere.

Un libro i cui livelli di lettura sono infiniti, enormi. Un libro che ha dovuto lasciare un lungo tempo di silenzio all’autrice per produrre altre narrazioni – i tre seguenti romanzi di Marylinne Robinson, “Gilead”, seguito da “Casa”, e da “Lila”; legati tra loro, mi pare, nel perdurare di un tema – che dovrò leggere? Per la verità non lo so ancora. Mi ci vorrà un tempo, forse lungo, per assorbire la ricchezza e le domande di questo.

Pure, confesso: mi sono trovata, lungo tutta la seconda parte del libro, a chiedermi cosa, in quella prosa bellissima e in quella storia, di pochi fatti, in effetti, ma di grande forza evocativa, mi abbia disturbato. Qualcosa ha frenato la mia adesione a questo libro.

Ora credo di saperlo (mentre mi chiedo se io non sia alla ricerca di un qualcosa, di un qualche difetto fondamentale, pur faticoso da sostenere, che limiti il mio grande coinvolgimento in questa lettura), ed è questo: la voce narrante è sbagliata.

Ruth, una Ruth adulta, narra avvenimenti trascorsi; narra la storia della sua famiglia e la relazione che la lega agli affetti, per i vivi e per i morti, che fondano e compongono la sostanza della sua vita. La narrazione è tuttavia costruita sui suoi pensieri di bambina, di ragazzina, e giovane ragazza.

Un ordito, il pensiero, incrocia la trama di echi biblici, di riflessioni complesse, che non possono appartenere alla Ruth bambina cui il racconto li assegna – l’emozione sì, il pensiero no.  Mentre il libro trae tuttavia, proprio dalla scelta della prima persona, della voce narrante, una grande forza.

Credo tuttavia di essere ingiusta. Pure, racconto un’esperienza di lettura, e mi pare di dover condividere questo mio disagio, in un libro la cui lettura non può essere tralasciata; tanto potente, in effetti, da costringere, forse, a una ricerca acrimoniosa del difetto per difendersene – e poterne accogliere tutta l’emozione.

La ragazzina Ruth vaga, con la zia, tra i boschi, un giorno e una notte di freddo, disorientamento e pericolo.

L’erba brillava di colori pastello, e goccioline d’acqua punteggiavano tutti gli alberi, numerose come petali. – Te l’avevo detto che era bello – disse Sylvie.”

Immaginiamo una Cartagine seminata a sale, e tutti i seminatori scomparsi, mentre i semi giacciono in fondo alla terra, finché un giorno, in vegetale profusione, non crescono foglie e alberi di brina salmastra. Che fioriture potrebbero esserci in un giardino così? La luce costringerebbe ogni calice di sale ad aprirsi in prismi, e a fruttificare in luminosi globi d’acqua; le pesche e l’uva sono poco più di questo, e in un mondo fatto di sale ci sarebbe molto più bisogno di estinguere la sete. Il bisogno infatti può sbocciare in tutte le compensazioni che richiede. Desiderare ardentemente e avere sono simili tra loro quanto un oggetto e la sua ombra. Perché quando mai un frutto di bosco si rompe sulla lingua con più dolcezza di quando si muore dalla voglia di assaggiarlo?”

(…)

“E quando i nostri sensi conoscono qualcosa più a fondo di quando quella cosa ci manca? Ed ecco un altro presagio: il mondo diverrà un tutto unico. Poiché desiderare una mano sui capelli è quasi come sentirla davvero. E così qualsiasi cosa possiamo perdere, un desiderio disperato ce la restituisce di nuovo. Benché sogniamo senza neppure saperlo, il desiderio intenso, come un angelo, ci rifocilla, ci liscia i capelli, e ci porta fragole selvatiche.”