
Un vita e una storia di scrittura interessanti, quelli di Charlotte Perkins Gilman, nei quali il luogo di nascita, le appartenenze familiari allargate, il tempo di vita, sembrano aver collaborato nel costruire una particolare figura di studiosa, di scrittrice, di attivista.
Charlotte Perkins Gillman è nata il 3 luglio 1860 ad Hartford, città capitale del Connecticut, figlia di Mary e Frederick Beecher Perkins. [i]
Hartford, in quegli anni, era la città statunitense in cui maggiormente era attivo il movimento abolizionista; e la famiglia paterna di Charlotte era molto nota in quell’ambito. Il nonno paterno, reverendo Lyman Beecher, era uno dei maggiori sostenitori dell’abolizione della schiavitù.
Una delle zie, sorella del padre, fu Harriet Beecher Stowe, che scrisse “La capanna dello zio Tom”, mentre un’altra zia, Isabella Beecher Hooker, fu la fondatrice del movimento per il voto femminile negli USA.
In questo ambiente aperto e progressista, il padre abbandonò la famiglia, lasciando la moglie e due figli (un terzo era morto) nell’indigenza.
Charlotte visse dunque tra donne – la madre non poté che appoggiarsi spesso per aiuto alle cognate, attive nella rivisitazione del ruolo femminile, in famiglia e nella società, ma visse in ogni modo dibattendosi nelle difficoltà economiche – mentre il padre manteneva un rapporto di presenza affettiva ed educativa con la figlia.
Emerge, nella sua storia, uno strano quadro familiare dato da una madre dal carattere duro, che non mostra ai figli il proprio affetto, temendo di non renderli abbastanza forti, indipendenti, e si dà da fare per provvedere ai loro bisogni; e da un padre che non provvede ai loro bisogni ma è una presenza significativa per la formazione intellettuale della figlia. Di professione bibliotecario, lui consiglia libri e indirizza le letture, mentre la madre, con Charlotte e un altro figlio a carico, si trasferisce di casa in casa, senza mai riuscire a far quadrare pranzo e cena.
In questo contrasto educativo e di opportunità, Charlotte fu una studentessa deludente, che frequentò pochissimo e saltuariamente la scuola, abbandonando gli studi all’età di quindici anni. Con l’aiuto del padre si iscrisse infine ad una scuola di disegno e iniziò poi, molto giovane, a provvedere a se stessa lavorando.
Contro ogni sua idea, si sposò all’età di venticinque anni, ed ebbe una figlia, Katharine – e uno dei suoi libri di narrativa, il racconto “La carta da parati gialla”, narra l’esperienza di una depressione post partum, esperienza che incontra/si scontra con la diagnostica del tempo.
Da questo racconto è stata tratta anche una rappresentazione teatrale, di cui riferisce Il Manifesto del 14 gennaio 2017, messa in scena dal Teatro Studio Uno di Torpignattara, a cura di Paolo Biribò e Marco Toloni in cui viene rappresentato, certo, un vissuto autobiografico, ma – credo – nella forma di un tema per la vita di tutte le donne che soffrono questa esperienza, per il cui insorgere è primario il contesto ambientale, il supporto e l’immagine di sé che la donna si trova a fronteggiare.
Come si sarebbe potuto dirlo meglio se non narrando, come viene fatto nella trasposizione teatrale, del marito che, “per curarla da una depressione post partum, la segrega «amorevolmente» in una stanza, vietandole di leggere e scrivere, rimpinzandola di alimenti altamente proteici e chiamandola «stupida oca benedetta».” (qui)
Charlotte lascerà il marito, se ne andrà con la figlia, e vivrà del suo lavoro, reinterpretando la propria storia, con il volgerla dalla passività alla scelta attiva: non più il marito che se ne va, lasciando alla moglie l’indigenza e i figli, ma la moglie che se ne va, portando con sé la figlia e impegnandosi ad assicurare la vita per ambedue. L’indigenza, o una sua buona imitazione, pare tuttavia essere rimasta la variabile indipendente della sua vita.
Chiaro, sto per così dire spettegolando sulla vita di questa donna, ma mi pare difficile non ipotizzarne una lettura quantomeno anche in questa chiave.
Con il divorzio, e il trasferimento a Pasadena in California, iniziò la sua vera carriera di scrittrice – con una figlia, con le ovvie difficoltà economiche, e tuttavia con un’attività di scrittura intensa unita ad una presenza nella vita dei movimenti sociali che la rese ben presto nota internazionalmente per i suoi scritti e le sue idee caratterizzate dall’impegno contro le ingiustizie sociali, in favore di una società “socialista” democratica, ripudiando il marxismo e invece aderendo ad un’ottica cristiano sociale. Divenne attiva, anche con cicli di conferenze, nei movimenti femministi, collaborando con diverse associazioni, fino ad assumere ruoli dirigenziali.
E tuttavia, la situazione economica, e una figlia, non facilitavano le cose e Charlotte scelse di mandare Katharine a vivere con il padre che, nel frattempo, si era risposato.
Da Wikipedia: “Nelle sue memorie, Charlotte riportò che era felice per la coppia: “la seconda mamma di Katharine” andava bene quanto quella biologica, e forse era anche migliore, dal momento che la prima non aveva un compagno, era una gran lavoratrice ed era sempre sotto pressione. Charlotte aveva idee progressiste in quanto ai diritti paterni e riconosceva che il suo ex marito sentisse la mancanza di Katharine ed avesse il diritto di stare in compagnia della figlia; Katharine stessa, d’altro canto, aveva il diritto di conoscere ed amare suo padre. Nonostante sentisse di aver preso la decisione giusta, la lontananza dalla figlia le provocò un’enorme sofferenza.”
Non sembra che questa scelta le abbia peraltro alienato il rapporto con la figlia. Ancora una volta, la sua storia di vita le ha proposto soluzioni e aperture inconsuete, mentre la sua attività a favore dei diritti delle donne non le ha impedito una altrettanto positiva considerazione dell’uomo, a sua volta non valutato solo quale fonte di sicurezza economica per la famiglia ma anche per le sue capacità e la sua funzione affettiva. Interessante, vero?
Nel 1900 Charlotte si risposò, con un cugino, Houghton Gilman, più giovane di lei. Fu un matrimonio riuscito, che durò fino alla morte di lui, nel 1934, in seguito alla quale Charlotte andò a vivere con la figlia.
Fu per poco. Da due anni le era stato diagnosticato un cancro al seno. Fautrice dell’eutanasia, affermando che “preferiva il cloroformio al cancro”, Charlotte si suicidò, il 17 agosto del 1935. Aveva settantacinque anni, aveva vissuto una vita piena, trasformando le difficoltà in testimonianza e proposta sociale.
Poetessa, narratrice, scrittrice molto prolifica, le sue opere principali sono state tuttavia di saggistica. Della più importante, “A Women and economics“, del 1898, Treccani segnala una traduzione italiana del 1902. Poi basta. In Italia, oggi, di questo libro pare non esservi traccia.
Per il suo pensiero, cito da Enciclopedia Treccani:
“Il suo femminismo s’integra all’idea socialista e insieme s’inserisce in una prospettiva evoluzionistica. Il patriarcato rappresenterebbe soltanto uno stadio nell’evoluzione della specie umana, necessario per la sua conservazione, ma ormai obsoleto. La limitazione della donna entro la sfera domestica, la conseguente relazione di dipendenza sessuo-economica dal maschio ne hanno fatto un essere i cui attributi sessuali soprasviluppati e gli attributi umani insufficientemente sviluppati impediscono l’evoluzione della specie intera. La liberazione della donna è dunque anche mezzo per la più ampia liberazione dell’essere umano. Nella mappa di proposte per raggiungere questo scopo, strategie ripetutamente enfatizzate appaiono l’uscita della donna dalla sfera domestica, con conseguente acquisizione dell’indipendenza economica, e la contemporanea trasformazione dello spazio domestico con lo slittamento delle funzioni a esso legate (cura della casa, cucina, educazione dei bambini) da privato a pubblico-comunitario.”
C’è un’altra area di interesse da esplorare su questa autrice: la sua storia nell’editoria italiana.
Una storia interessante al negativo, per una assenza di edizioni e diffusione delle sue opere in Italia da parte della grande editoria che si scontra con una massiccia presenza – tutte le sue opere sono oggi reperibili in lingua originale – nel mercato online, sia in cartaceo sia in e-book, e in edizioni plurime (tanto per dire, Amazon elenca undici pagine di titoli, che anche si ripetono per la presenza di diverse edizioni della stessa opera; e che comprendono opere critiche sull’autrice.)
Nel contempo, piccole case editrici, che meritano molto apprezzamento, ne stano pubblicando, in edizioni ben curate, alcune opere di narrativa (La Vita Felice, Astoria (con: “La governante e altri problemi domestici”, 2010) Donzelli, Kurumuny, Quattrosoli (con: “Racconti di silenzi e di anarchie”, 2008). In precedenza, nel 1976 e nel 1980, La Tartaruga aveva editato “Terradilei” (qui) e “La carta da parati gialla”.
Certo, si tratta di una scrittrice che potemmo dire di nicchia, che tuttavia riveste una qualche importanza, se vogliamo prendere atto della diffusione delle sue opere in lingua originale.
Spero molto nella pubblicazione prossima ventura quantomeno delle sue opere maggiori; vorrei tanto, almeno, “A Women and economics”, e l’autobiografia. Così, tanto per dire. Male non fa.
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[i] Fonti: Enciclopedia Treccani; Wikipedia, alla voce; Il manifesto: (qui)