Auður Ava Ólafsdóttir, “Hotel Silence”, Einaudi 2018. Traduzione di Stefano Rosatti.
In questi giorni mi ero prefissa di non acquistare nuovi libri; ho già un impegno importante con letture che attendono sul mio tavolo e che desidero leggere; con attenzione, con tranquillità. MI sono addirittura presa una consistente fetta di tempo-vacanza, anche per questo. E tuttavia, lo sappiamo tutti come va, due passi in centro, l’amica entra alla libreria Einaudi, un saluto al libraio, due chiacchiere mentre io gironzolo, guardo libri, accarezzo copertine, sfoglio qualche pagina ed esco con un libro in mano – l’autrice islandese dal nome impronunciabile e conosciuto, di cui qualcosa avevo annusato – sì, sono certa di aver letto di lei e di aver preso tra le mani un suo precedente libro, per poi riporlo dopo una veloce scorsa alla quarta di copertina, all’incipit e no, non faceva per me, non in quel momento.
Ora, di questo suo ultimo libro, l’incipit è stato l’amo al quale sono rimasta impigliata.
“Jonas ha quarantanove anni e un talento speciale per riparare le cose.”
La quarta chiude affermando trattarsi del libro più bello di Auður Ava Ólafsdóttir. Non posso dire degli altri suoi libri; eppure, sono a tal punto certa che non possono essere più belli di questo da non desiderare di leggere altro, non subito, di questa autrice; al punto da non voler rischiare, in un confronto immediato, una anche piccola delusione.
Ed eccomi qua, a rompere, solo per un pomeriggio, le mie vacanze. È un bisogno di comunicare, subito, una grande emozione per un piccolo grande libro. Ho tra le mani centottanta pagine di poesia, di gesti della quotidianità totalmente altri; gesti di ogni giorno – chiedere qualcosa di molto particolare in prestito a Svanur, il vicino; far visita alla vecchia madre ormai consunta, ospite della Casa di Riposo, e anche, perché no, farsi fare un tatuaggio, una ninfea sul cuore – a scandire e mutare il senso di una vita che si è rotta, che il protagonista non ritiene di poter ricomporre: non ne ha il desiderio, non è attrezzato per farlo, lui che è così bravo ad aggiustare le cose.
Si procede attraverso riflessioni sparse, come accade mentre nel corso del giorno si declinano compiti, si avvia la realizzazione di propositi da concretare, che chiedono un progetto, che contengono una domanda su di sé, la messa a punto di un obiettivo.
“…mi chiedo come ci si dovrebbe comportare quando si prende in prestito dal vicino un fucile da caccia”.
“E poi in maggio uno a chi può sparare se non a se stesso. O a una altro homo sapiens. Svanur saprebbe fare due più due. Però è anche uno che in genere non sta troppo lì a rimuginare sulla psiche umana.”
“Mia madre è seduta su una sedia a dondolo Lazy Boy, i piedi non le arrivano neanche a toccare il pavimento; dalle pantofole, diventate troppo grandi, spuntano due gambette nude, sottili, ossute; si è rimpicciolita, ormai sta per scomparire, ha cessato d’esser carne, è diventata lieve come uno spiritello, tenuta insieme da qualche tendine e da ossa di polistirolo.”
“Un barlume improvviso mi attraversa la coscienza: io sono stato dentro di lei. Io, che sono alto centottantacinque centimetri (…)”
Jònas non pensa di poter aggiustare la propria vita, non più di quanto si possa aggiustare qualcosa che non esiste, che ora pare non aver mai avuto luogo. Il suo matrimonio con Guðrun è finito. Lo ha chiuso lei, così, senza tragedie; ritenendo giusto, ora, alla fine di tutto, dirgli che la sua amatissima figlia, Vatnalilja, il cui nome significa ninfea, non è sua, non è carne della sua carne.
Sua madre, ospite della casa di riposo, mantiene, nel suo obnubilamento, alcuni punti fermi – la nascita, da raccontare all’infermiera, di suo figlio Jònas; il come del suo stare al mondo, bambino (e poi uomo) vittima di un sensibilità esasperata – che sono ancora un punto di contatto con la vita.
“Poi, è come se tentasse di rievocare qualcosa ma non ricordasse più quello che stava per dire, e allora si affievolisce, una ricetrasmittente che ha perduto il contatto.”
Per il figlio “parlare con lei è come parlare con nessuno, ma la cosa non mi dispiace affatto. Solo sentire il calore di un corpo vivente per me va più che bene. Stabilito che mi capisce, vado dritto al punto:
Sono infelice, – dico.
Lei mi dà un colpetto sul dorso della mano:
Tutti dobbiamo combattere la nostra guerra. E aggiunge: Napoleone era in esilio da se stesso. E Giuseppina era sola, come me.”
Un libro in due parti: una prima parte, dal titolo: “Carne”
Un pensiero sulla pelle, sulla carne di cui siamo fatti; sulle cicatrici che portiamo, a partire dalla prima, quell’ombelico che documenta la relazione alla madre.
“La pelle è l’organo più grande del corpo umano. In un adulto la pelle occupa una superficie di due metri quadrati e pesa circa cinque chili. Per altri esseri viventi si parla piuttosto di manto, o di pelame. In antico islandese la parola <pelle> aveva anche il significato di carne.”
Una barriera, un punto di contatto, che permette l’osmosi, la relazione al mondo; che può rompersi, che porta i segni di ciò che diveniamo.
Una seconda parte, dal titolo: “Cicatrici”.
A iniziare dall’ombelico, dalla cicatrice cosignificante della madre, “Il tempo di formazione delle cicatrici varia a seconda dei casi, così come varia è la loro profondità. Alcune cicatrici sono più profonde di altre.”
In esergo al libro, c’erano state le parole di Julia Kristeva
“Il corpo è uno spazio aperto, un campo di battaglia dei conflitti.”
Non è facile progettare un suicidio, e attuarlo per bene. Jònas deve evitare che sia la figlia a trovare il suo corpo straziato. Il fucile non va bene. Meglio è andare lontano, in un luogo improbabile; ci sono molti luoghi dove la guerra è passata, dove forse non è ancora finita, dove la morte non è difficile, ed è anonima.
“Alla fine scelgo un paese di cui si è parlato a lungo nei notiziari per la particolare virulenza del conflitto in corso, ma che alcuni mesi fa, dopo la ratifica di una tregua, è scomparso dai riflettori e l’attenzione si è spostata da qualche altra parte.”
Jònas parte, quasi senza bagaglio, portando con sé una piccola cassetta degli attrezzi: il trapano, dello scotch nero. È un uomo pratico, attento ai bisogni del fare. Potrebbe averne bisogno.
Giunto a destinazione, le informazioni sull’Hotel Silence appena riaperto risulteranno ottimistiche; così come, agli occhi del tassista che lo accompagna dall’aeroporto, risulterà improbabile il suo essere un turista in quel luogo; così come agli occhi di Maì, la giovane donna che con il fratello sta tentando di rimettere l’Hotel in funzione.
C’è Adam, il bambino di Maì, che non parla, ci vorrà del tempo dopo lo sconvolgimento della guerra civile che ha distrutto il paese e gli ha tolto la parola.
Jònas, che ha con sé un solo abito e quasi niente bagaglio, sarà “L’uomo con la cassetta degli attrezzi”, che saprà far funzionare le tubature e scorrere l’acqua. Che aggiusterà le cose.
Jònas, che possiede un trapano, e dello scotch nero, cui si aggiungeranno altri utensili, entrerà – è la sua attitudine – nel rapporto con ciò che si è rotto, che si è deteriorato, che non funziona come dovrebbe: un tubo dell’acqua incrostato; la costruzione di una porta che consenta di entrare e uscire a piacimento, dentro/fuori, come nei saloon dei vecchi western; il recupero di un antico mosaico.
La relazione con Maì, con Adam, con gli altri che cercano, abitando un mondo distrutto, di aggiustarlo, porta Jònas al contatto con altre vite, altre cicatrici.
Il piccolo Adam farà un disegno: “Ha creato due persone, un piccolo uomo e una grande donna e le ha collocate sotto un cielo verde. È il primo giorno del mondo.
E vede quanto ha appena fatto, ed è cosa molto buona.”
Poco dopo il suo arrivo nel paese della guerra, Jònas aveva sognato la madre che gli diceva “Anziché smettere di esistere, non puoi smettere di essere tu, e diventare un altro?”
C’è anche la via che prevede di essere se stessi, con le proprie cicatrici che smettono di far male, e invece solo testimoniano, sono un segno.
C’erano state, prima della sua partenza, le parole di Svanur, il vicino:
“Lo sapevi (…) che in certi posti le cicatrici sono simbolo di valore? Se ne porti una notevole, sconvolgente, vuol dire che hai guardato la bestia dritto negli occhi, senza farti sopraffare dalla paura. E sei sopravvissuto.”
Pagine di dolore che non fanno male; che leniscono il male di vivere. Pagine che non sviliscono un lieto fine che apre sulla vita e sulle cicatrici che la vita produce; sulla necessità e sulla bellezza, faticosa e vivificante, di saper aggiustare le cose e le relazioni; di dar loro valore.