Cerco di proseguire quel pensiero sulla “lettura” che, accennato nella prima parte dell’ultima chiacchierata (qui): ) fatico a mettere a fuoco; che preme senza prendere forma. Ne va del fatto di comprendere il senso che, nel tempo, queste pagine hanno assunto e che si è formato, a partire, certo, dal mio progetto iniziale e, a seguire, modificandosi attraverso le interazioni con gli interlocutori, con altri blogger e lettori; ma anche con il “mondo” in cui vivo; con la mia storia di vita, con “tutto ciò che è accaduto”, a me e intorno a me.
Mi ripeto: ce lo diciamo spesso, tra lettori, come i libri che tanto amiamo non siano una forma di fuga dal quotidiano, dal mondo in cui viviamo e da ciò che in questo mondo, nella società cui apparteniamo, accade. Dopodiché, riprendiamo a parlare, e a scrivere, dei nostri libri, delle nostre letture, come se, a mondo totalmente cambiato – in un mondo in cui anche l’uso delle parole “leggere”, “scrivere”, è necessariamente cambiato – vi fosse, là, un’area protetta, la nostra casa, immutabile e certa, solida e indistruttibile, al cui interno è davvero possibile lasciare al di fuori “tutto ciò che accade”.*
Leggere libri, dedicarsi a buone letture; leggere altro; scrivere, vale a dire entrare (ma così avviene anche con la lettura) in un dialogo, in un contesto di relazione attraverso un mezzo dai molteplici usi.
Fatto si è che queste parole – leggere, scrivere – mantenendo nel tempo la loro forma, hanno mutato l’uso che ne facciamo nella proposizione.
Il significato che assegniamo loro e che dall’uso possiamo derivare, si è modificato fino ad assumere, in alcuni importanti ambiti, un significato totalmente diverso da quello che avevano: da quello che, per una forma di automatismo, ancora assegniamo loro.
Scrivere: Un certo tipo di uso della scrittura è sparito; una scrittura che, nel privato come nell’opera destinata alla pubblicazione, condivideva delle regole: di correttezza formale dovuta, di cura, di revisione di un testo che, a differenza del parlato, doveva assumere una sua forma dotata di finitezza e irrevocabilità. È la scrittura che ancora alcuni di noi, di una certa età, ricordano di aver utilizzato nelle relazioni a due, quando la distanza da chi si amava, o da una relazione significativa, poteva venir superata solo da una lettera. Ci voleva del tempo per scriverla; c’era la preoccupazione, la cura, dell’ortografia, della grammatica e della sintassi possibili per le capacità di ognuno.
Tutti facevamo la “brutta copia” della nostra lettera, per poi ricopiare in bella calligrafia onde evitare che chi riceveva faticasse a leggere e ciò che ci premeva dire perdesse forza. La cura di questa forma di comunicazione era la comunicazione stessa: scrivere era un’attività che esprimeva e rappresentava la cultura di un mondo di cui resta a stento un piccolo ricordo; di cui si tace: fingendone la persistenza? Fingendo che non sia mai esistito?
Rimangono ancora, nelle case, gli ultimi preziosi epistolari privati; permangono dei libri, che li documentano: pochi, importanti. Uno solo? “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. 8 settembre 1943-25 aprile 1945”.
C’era un intenso via vai di postini nelle nostre strade, consapevoli dell’importanza, orgogliosa, del loro lavoro; erano persone che riuscivano a portare proprio a te anche la lettera dall’indirizzo incompleto, o errato. Il postino era un amico di famiglia, un custode di segreti doverosamente taciuti. Si scriveva; tutti scrivevano.
Anche oggi si scrive: quasi nulla e troppo. E non penso, qui, ora, alla cosiddetta scrittura creativa. Penso allo strumento scrittura nel suo uso sociale. Penso in particolare ai social media.
È avvenuta una cosa strana: nell’espandersi delle possibilità, che la rete ha fornito, di relazione con tutti, in un tempo annullato, l’essere in relazione pare stia mutando natura e perdendo una sua sacralità, sostituito da una strana impossibilità a “disconnettersi” da un <altro da sé> generico e irrelato.
Alla scrittura di un tempo non molto lontano, che veniva curata da ognuno al massimo delle proprie possibilità, all’interno di un tempo dedicato, si è sostituita una scrittura caratterizzata da immediatezza e programmaticamente sciatta, in grado di raggiungere più o meno grandi masse anonime e non parlare a nessuno.
I social media veicolano una scrittura molto frequentata – comunque impensabile un suo evitamento – dove il pensiero di chi scrive pare rivolgersi prioritariamente al proprio apparire e non a un destinatario, dotato di identità, personale o sociale che sia.
Viene prodotta per questa via, e si diffonde, una scrittura il cui obiettivo parrebbe, incredibile ossimoro, un modo di apparire nascondendosi, finalizzato al poter esprimere contenuti che, nella vita sociale e nelle relazioni quotidiane, non sono, non erano, ritenuti esprimibili: non casualmente chi scrive in questi contesti spesso si protegge (o ritiene di poterlo fare) attraverso un nick name.
E la scrittura si trova, così, sulla via di divenire mezzo per l’espressione non di un pensiero, o di un sentimento, bensì di una urgenza emotiva; di qualcosa che sta dentro e fa male: rabbia, senso di impotenza, bisogno di un “nemico” cui assegnare la colpa di una vita percepita all’insegna del fallimento.
Un tempo esistevano le sputacchiere, che avevano una loro funzione. Sputare in pubblico era accreditato di una relativa legittimità e l’attrezzo consentiva un non addebito all’autore, per un comportamento disdicevole, attraverso un’invisibilità convenzionale, socialmente prevista: il massimo dell’anonimato, dunque; quello che ti viene assegnato da chi ti conosce, sa bene chi sei, e condivide i tuoi comportamenti quantomeno per convenzione socialmente obbligata.
La scrittura, di suo, e nel suo uso sociale, sta forse trascorrendo, in società sottoposte a rapida obsolescenza dei dispositivi culturali dati, da mezzo per esprimere il meglio di sé e della cultura di appartenenza a mezzo per esprimere, impuniti, il peggio di sé? Sarà questa mutazione un effetto perverso della raggiunta alfabetizzazione universale?
È impossibile non vedere ciò che accade: la scrittura, oggi, dopo e con il linguaggio parlato (che, qui, non ha un accreditamento: lasciamolo, sottaciuto e fortemente presente per il tema), pare venga sempre più utilizzata come una sorta di sputacchiera emozionale, socialmente accolta e convenzionalmente scotomizzata dallo sguardo della comunità.
Gli usi della scrittura sono molti, e diversi. Non tutti sono dialogici pur se, tutti, sempre, costituiscono una comunicazione, da parte di qualcuno ad altri. Campo di enorme ampiezza e complessità in cui non mi avventuro, ovviamente: è tuttavia inevitabile, e doveroso, chiedersi, come lettori, come, quando, dove, questa evoluzione del significato della scrittura sia avvenuto: in risposta a quali bisogni, a quali richieste sociali? Dove quando e perché la moneta cattiva abbia sopravanzato e cacciato quella buona?
E la lettura? Quella, socialmente utilizzata, dal post in facebook al giornale quotidiano, e quella del “libro”: sarà immune da tutto questo?
E la produzione di libri, di <scrittura da leggere>, strumento di comunicazione e di condivisione del pensiero, di conoscenze, di formazione del linguaggio; la lettura, che arricchisce la disponibilità di parole, e dunque di pensiero e di capacità critica? Cosa ne stiamo facendo?
Sento, temo di sentire, scricchiolare le mura della mia casa di libri e di scrittura. Forse è ora di cambiare verso a qualcosa. Come?

Leggere, scrivere. Nel mondo di oggi. Nel mondo delle rete e dei social media; mentre ci raggiungono, confuse e confusamente comunicate, le notizie dal mondo, sul mondo, su, appunto “tutto ciò che accade”: ed ecco che questa celebre frase d’improvviso mi si rivela priva di senso.
Chiedo venia. Non ci si spiega mai come si vorrebbe; c’è sempre quello iato, talvolta profondo, tra ciò che uno scrive (crede di scrivere) e ciò che gli altri leggono; niente di male, è il fondamento del sorgere di altri pensieri.
C’è sempre Humpty Dumpty:
“Quando <io> uso una parola, disse Humpty Dumpty con un certo sdegno, quella significa ciò che io voglio che significhi – né più né meno.”
“La questione è, disse Alice, se lei <può> costringere le parole a significare così tante cose diverse”.
“La questione è, replicò Humpty Dumpty, chi è che comanda – ecco tutto”**
Mi torna alla mente – in che modo c’entri non lo so – la bellissima risposta data da Valentino Bompiani a un giornalista che gli chiedeva se il motivo per cui il Italia si legge poco non potesse risiedere nel fatto che i libri sono (erano) molto cari. L’editore replicò – cito a memoria – che sì, i libri erano davvero molto cari a chi li possedeva.
Faccio un sogno: che i libri tornino a venir stampati con i caratteri mobili, in edizioni preziose e costosissime. Provo a tradurre il sogno in realtà, ovviamente solo pensata e a immaginare di eliminare tutti i miei libri che, nel mio sogno, mai sceglierei di acquistare nell’edizione accuratamente preparata da un compositore tipografo.
Dopodiché – inevitabile, nella veglia – mi accingerò a scaricare da Amazon la copia e-book di un buon libro.
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*”Il mondo è tutto ciò che accade“: Preposizione 1 del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein
**Lewis Carroll, “Alice attraverso lo specchio“