Qualcosa su una fiaba, molto molto speciale

J.R.R. Tolkien, “Il cacciatore di draghi”, Bompiani 2015, VI edizione

Illustrato da Pauline Baynes – curato da Cristina Scull e Wayne G. Hammond

Traduzione di Isabella Murro

 

Non è possibile, o quantomeno non lo è per me, parlare di una favola. È necessario, al meglio, ascoltarla; quantomeno leggerla, specialmente quando è scritta da un vero grande cantastorie.

Un piacere senza tempo. Una delle grandi forme attraverso cui, da sempre, gli umani hanno appreso ciò che è necessario per affrontare bene la vita. Nei secoli, la favola è stata uno dei modi di trasmissione delle culture più efficaci, alla portata di tutti, un modo senza tempo.

Oggi sono spariti i cantastorie Ci sarebbe, c’è, il teatro: divenuto difficile da raggiungere, non più piacere di massa, di piazza.

Restano i libri, quali voci narranti di quei santi che hanno dedicato la vita a raccogliere, trascrivere, reinterpretare, le favole; di coloro che, ancora e sempre, inventano, ripetendole come nuove, vecchissime favole.

Di questa, posso solo raccontare, un po’ a casaccio, la sua nascita, la sua storia. Chiacchierarci un po’ sopra.

Era il 1938. Il professor Tolkien insegnava filologia anglosassone all’Università di Oxford. E si dedicava, corpo e anima, alla sua grande passione: le leggende e le mitologie del mondo anglosassone, un corpus poco studiato in quanto, in certo modo, inesistente se non per derivazione norrena e germanica.

Il professor Tolkien studiava, e nel contempo, alla ricerca di qualcosa di simile a un mito fondativo dei popoli che avevano abitato il mondo anglosassone, creava miti, leggende, inventava linguaggi: era anche, a partire dalla sua competenza di filologo, un appassionato glottoteta, un “creatore di lingue”; uno che, nella sua ricerca e attraverso la sua produzione letteraria, sviluppò una intera e coerente mitologia, a tutti gli effetti scarsamente distinguibile dalle mitologie proprie di altri popoli.

Tutto inventato? Solo fantasie? Non del tutto. E poi perché no? Funziona benissimo.

Quarantacinquenne al tempo in cui pubblicò “Lo hobbit”, era anche stato un giovane papà che, per i suoi quattro figli, aveva inventato e narrato favole, per poi dar loro una forma scritta, modificarla, derivarne altre storie, in una costante mescolanza di fantasia, piacere del narrare, impegno e competenza di studioso.

Sarebbe stato impossibile predire allora come tutti questi aspetti sarebbero confluiti in un’opera che, nelle sue diverse declinazioni, avrebbe costituito quel corpus, unitario e insieme un po’ caotico, composto da diverse versioni della stessa storia, intessuto di riferimenti, originati, come vere mitologie, da fonti diverse, e tuttavia interamente frutto della sua fantasia.

Ugualmente, nessuno riuscirebbe, credo, oggi, a operare precise e chirurgiche distinzioni tra lo studioso professor Tolkien, papà Tolkien, quel signore un po’ goliardico che si ritrovava, con il suo amico C. S. Lewis, l’autore di “Le cronache di Narnia, all’interno di un informale circolo letterario – “gli Inklings” – dove gli uni leggevano agli altri i propri scritti sottoponendoli alla critica degli amici.

Forse non sarebbe stato possibile predirlo, forse sì. Per Tolkien, tutto pare sia iniziato da una frase, da uno di quegli incipit-momento di grazia da cui tutto può seguire.

«In un buco nel terreno viveva uno hobbit».

 “Lo hobbit” fu pubblicato nel settembre del 1937 e fu un grande successo editoriale; e l’editore ne chiese un seguito.

Tolkien diede così inizio a quello che sarebbe divenuto “Il signore degli anelli”, che l’editore sperò di poter pubblicare per il Natale del 1938: povero lui, non conosceva a sufficienza la pignoleria, unita alla passione per dar seguito alla sua fantasia e ai suoi studi, del professor Tolkien; sicuramente non immaginava, non ancora, in quale costruzione il suo autore fosse ormai coinvolto.

La risposta di Tolkien alla dead-line richiesta parve, in effetti, molto riduttiva, per un verso; molto interessante, sotto un altro punto di vista.

 “L’unica storia che ho è quella su Farmer Giles e il Piccolo Regno (con la sua capitale Thame). L’ho riscritta allungandola di un buon 50% e l’ho letta alla Lovelace Society al posto di un saggio <sulle> fiabe. Sono rimasto molto sorpreso del risultato. Per leggerla a voce alta c’è voluto quasi il doppio del tempo, rispetto ad un saggio normale, ma il pubblico non sembrava annoiato, anzi, in generale, si sbellicava dalle risate. Temo però che questo significhi che la storia ha preso un sapore più adulto, più satirico. (…)”.[i]

Quella su Farmer Giles e il Piccolo Regno, divenuta “Il cacciatore di draghi” era una, la prima, delle fiabe che papà Tolkien aveva creato per i suoi bambini; che poi aveva scritto, aveva modificato, cui aveva dato la nuova forma “ampliata”: per adulti? Mai più. Per tutti: lui, e a quanto pare il suo pubblico di studiosi e cultori di letteratura e, sì, di fiabe, non se lo sono certo domandato. Ed oggi: non so perché, ma non credo che “Il cacciatore di draghi” venga letto ai bambini. Gli ipocriti adulti se lo tengono bellamente per sé.

Il segreto delle favole sta tutto qui: una volta stabilito che si è andati ad ascoltare una cosa seria, quale può essere una conferenza <sulla> fiaba, se avverrà, invece, di poterne ascoltare una, il divertimento sarà massimo, riuscendo a combinare il piacere infantile (non negate!) per l’ascolto di una storia fantastica con il piacere tutto adulto per l’ironia, i sottintesi di tipo sociale e politico, i secondi sensi e tutto quel genere di cose che le fiabe contengono, sottilmente intessute alla trama, come ogni buon lettore sa.

Un bambino non coglierà con consapevolezza questi aspetti della narrazione ma imparerà, al tempo giusto suo, a decodificarli, impadronendosi, in un mondo di fantasia, di quei saperi sul mondo reale – narrati unicamente, anche tra adulti, per indizi, allusioni, sottintesi, varie specie di ironia e quant’altro del genere – sommamente necessari per la conquista di una visione realistica della società in cui dovrà vivere e agire.

Vediamo bene cosa è accaduto al povero Niccolò Machiavelli che ha pensato di poter parlare “in chiaro” del Potere del Principe, ottenendo di vedersi attribuito come suo un discorso tutto alla rovescia. Vuoi mettere, se avesse scelto di narrare quanto aveva da dire per mezzo di una bella favola?

C’è poco da fare: questa cosiddetta fiaba in particolare risulterà, al lettore adulto, un piccolo piacevolissimo manuale di scienza della politica. E quando Tolkien dirà del suo timore di avervi impresso, ampliandola, un sapore “più adulto, più satirico” mentirà: in buona fede? Non lo credo.

In tutto questo, gioca sicuramente una parte importante l’elemento dell’oralità, la forma di un testo costruito per essere parlato. La cui lettura produce, tuttavia, un grande piacere.

In attesa di leggere, qui, ora, potremo unicamente dare un rapido sguardo ai personaggi principali, e ad alcune loro caratteristiche.

Avremo il nostro eroe, tale Giles, di professione Fattore, un uomo di buon senso; a fargli da spalla ci sarà Garm, il suo cane, informatore del padrone su ciò che accade nel circondario, tipo l’arrivo di un simpatico Gigante, a ben vedere né buono né cattivo: un gigante, dopotutto, potrà solo comportarsi come tale.

Verso le due il gigante arrivò sui campi del Fattore Giles, calpestò i raccolti, e spianò il foraggio. Aveva fatto più danni lui in cinque minuti di quanti ne avrebbe fatti in cinque giorni la battuta reale di caccia alla volpe.”

Ma ecco arrivare Il Drago: Chrysophylax Dives, “di antico lignaggio imperiale, e molto ricco. Era astuto, infido, avido, ben corazzato ma non troppo coraggioso.” Cattivo, dunque, ma non nel senso di inutilmente feroce e irragionevole, proprio no. Chrysophylax si rivelerà una personcina dotata di una sua intelligenza, di grande sagacia e persino di qualche sua buona ragione.

Avremo un po’ di popolani: un fabbro, un mugnaio. Un Parroco.

Avremo, soprattutto, un Re; avremo i suoi Cavalieri, da cui il popolo si aspettava difesa e che invece “non facevano nulla”.

“(…) sapevano del drago solamente in via ancora non ufficiale. Così il Re li portò a conoscenza del fatto, per esteso e formalmente, chiedendo loro di prendere al più presto le misure necessarie, non appena avesse fatto loro comodo. Fu molto contrariato quando scoprì che il loro comodo non era affatto urgente, ma anzi veniva rimandato di giorno in giorno”.

“Pure, le giustificazioni dei cavalieri erano indubbiamente legittime. (…)”

Val la pena di leggere questa storia, che l’edizione Bompiani presenta nelle due versioni: quella “estesa”, e quella originale, per i bimbi Tolkien, con un breve seguito.

Il tutto è integrato da un interessante e accurato apparato di Note (siamo adulti, dopotutto; nessuno ci potrà rifilare una fiaba e basta lì: ne andrebbe della nostra dignità.

Una bella edizione.

 

 

 

 

[i] In Introduzione, di Christina Scull e Wayne G. Hammond a “Il cacciatore di draghi”,