Mediterraneo, e altri non luoghi

Jorge L. Borges, “Rimorso per qualsiasi morte” e “Assenza”.

In: “Fervore di Buenos Aires”, Adelphi 2010

Traduzione di Tommaso Scarano

 

La poesia parla di ciò che non dice. È monca, come il dolore dell’ignominia.

Questo fa, sempre, la poesia. Evoca, tace, dice, chiede silenzio.

Ogni volta, un seme metterà radici nel tempo di ognuno.

Ogni volta, ci ritroveremo a tendere l’orecchio, ad ascoltare l’immenso non detto.

 

Occorre che il pensiero, un sussurro, superi il rumore dell’oggi.

A tutte le ore, il telegiornale. I social, parole si rovesciano su di noi; immagini, talora coperte talora no, mostrano la grande distesa blu azzurra e macchie nere, corpi, macchie arancione. Ecco la tolda di un’imbarcazione, corpi sfiniti, riversi, poche, rare, le parole.

Foto: salvatore più bambino, molto piccolo. Ottiene la maggiore audience – vale a dire cuori, lacrime e insulti, all’ammucchiata.

Che faccio. Colpevole indifferenza negare l’emoticon, colpevole ipocrisia mettercelo. Unica soluzione cancellare le pagine social. La TV si può evitare. Spegnere. Cedere al desiderio di non sapere?

Colpa, in tutti i casi. Impotenza. Odio. Paura: una oscillazione indegna tra la paura di noi e la paura per noi. Va a capire.

Il libro-rifugio (ma il libro non è questo! Non è riducibile a questo!).

L’incontro casuale, una citazione – un libro dimenticato viene riaperto, alla ricerca di un sentiero. A seguito di un pensiero sconnesso.

 

Rimorso per qualsiasi morte

Libero dalla memoria e dalla speranza,

Illimitato, astratto, quasi futuro,

il morto non è un morto: è la morte.

Come il Dio dei mistici,

al Quale si devono rifiutare tutti i predicati,

il morto ubiquamente estraneo

non è che la perdizione e assenza del mondo.

Tutto gli abbiamo rubato,

non gli abbiamo lasciato né un colore né una sillaba:

qui è il patio che non condividono più i suoi occhi,

là è il marciapiede dove fu in agguato la sua speranza.

Perfino ciò che pensiamo

potrebbe stare pensandolo anche lui;

ci siamo spartiti come ladri

il flusso delle notti e dei giorni.

                          Jorge L. Borges[i]

 

Una poesia, questa, in me sempre accolta dal disagio, imbibita di non detto – ad ogni lettura, non molte, diverso.

Ma che altro può fare la poesia? Questa che oggi, rincontrata per caso, non so ricacciare; che mi infuria, che si impone – oscena, svergognata –  come parola che dice, di ogni morte: questo è un omicidio! Che scopre, in ogni morte, esservi una mano assassina.

L’autore, ogni autore, non ha più ruolo alcuno nelle parole che ha trasmesso. Di chi è dunque la mano assassina che mi si rivela. Di me che leggo?

Colui che ci lascia non è La Morte. Il Dio dei mistici non è il Dio della vita, non è il Dio dei credenti (in cui non credo ma che c’è, in quanto creduto; in quanto relazione, senza di che nulla è, per la specie umana). Perché niente è in assenza di predicato.

Il “ragionare” su di una poesia equivale a volerla cancellare, mentre lei, indifferente, non lo permette e ti invade.

Ho sempre amato con disagio questi versi. Vorrei dire di aver sempre amato con disagio adorante il loro autore, e tutta la sua opera contro cui, da sempre, combatto.

Le ho sempre opposto una riluttanza, mai tuttavia potendone silenziare la voce; la duttilità che ci consegna infinite possibilità di senso, tanto più reali quanto più respinte. L’ho amata profondamente, dunque, dell’amore irredimibile dell’odio.

Mi affatico ora nel tenere il punto: lasciar andare chi amiamo, raccoglierne l’eredità, non equivale a cancellare, a dimenticare; meno che mai a perdere, dopo aver cacciato via.

Chi ci lascia, mai darà luogo a un’assenza.

E va tutto bene. Sta nel privilegio di ogni lettore, quando fronteggia parole a lui consegnate, il dar loro nuova vita, rendendole evocative per sé, con facoltà di condividerne un loro diverso essere-nel-mondo.

Mi ritrovo a ripensare queste parole; echeggiano troppo forti perché mi sia possibile non dire “le ho ascoltate, e accolte in me”: mentre non so, non posso, e non voglio – equivarrebbe a far tacere una voce – riportare queste parole al loro autore; al momento in cui sono state scritte. Non so dirne; non so dire di Borges, in relazione a loro. Ma anche questo, va bene: sono in corso gli esami di maturità, e mi risuonano (antichi ricordi) quesiti balordi del genere “Cosa vuole dirci l’autore nella sua lirica tal dei tali?”. Come avesse una qualche importanza.

Mi trovo a riscrivere quelle parole, per me, come ogni poesia richiede al suo lettore nel momento in cui entra nel suo giorno. Sempre destinata ad essere riscritta e riscritta.

Le rileggo – oggi, tempi bui (ma quando mai i tempi non lo sono stati) – e chiamano un senso nuovo; il senso, mai dato, dell’assassinio, della morte da cancellare perché mai, mai, potrà essere accolta: impossibile lasciar andare, tenendo dunque presso di sé, annientando la lontananza, e persino le stessa assenza, una morte cui non sia stato riconosciuto un nome.

Ma questa poesia mente, comunque, suggerendo la possibilità di accogliere il dolore, mostrando l’insostenibile sofferenza di quella menzogna.

Davanti agli occhi l’azzurra, o cupa, color del piombo, distesa del Mediterraneo.

Dieci morti, cento morti, mille morti. Una sola, vita cancellata. L’acqua torna al suo movimento regolare. Neppure s’è accorta del disturbo. L’acqua non è un luogo. Non ammette croci. Davanti agli occhi il nostro mare e il morto ubiquamente estraneo ci dice la nostra perdizione, la <nostra> assenza <dal> mondo.

Meglio accogliere un’identità omicida quando il non-essere sta per invadere noi, e la finzione, che dice di noi vivi, è insostenibile e oscena.

C’è un luogo, per ognuno di quei volti che l’acqua ha ignorato; un luogo dove ognuno ha un nome, una storia, una strada percorsa, con padri, madri, figli, altri. Un luogo dove ognuna di quelle dieci, cento, mille assenze viene pianta. Ognuna indelebilmente Una.

È sempre, ognuna, una vita che dovrà venir lasciata andare; di cui chi l’ha amata si spartirà il flusso delle notti e dei giorni, tenendola con sé.

Quel luogo cancella noi, annienta le nostre notti e i nostri giorni.

Forse, solo forse, potrà regalarci il nome di assassini.

Nel caso, occorrerà ringraziare per la sola identità che ci resta.

Jorge L. Borges
Jorge L. Borges

Scorro altre pagine. Mi arresto.

Una poesia d’amore. Per chi? Uomo che ha perduto una compagna, madre che ha perduto un figlio; l’amico, l’amica che ci hanno lasciati. Tutti quelli che non ci lasciano mai.

Qui è la poesia; e qui l’autore. E non è vero, lo so, quanto ho scritto, sbeffeggiandoli un po’, sui quesiti propinati agli studenti nei temi d’esame. C’è, eccome, nella poesia, l’intenzione dell’autore, ed è fondante. Ma non basta, no.

Nulla mi impedirà di riportare quelle parole al mio bisogno; alla mia emozione.

E allora ecco. Poesia d’amore.

Il poeta è ben certo dei suoi versi che dunque non tiene per sé; pensa di poter dar voce a un universale, di dar voce al proprio e all’altrui bisogno. Che non conosce. Scrive al proprio tempo. Lo supera. Che altro dire.

Forzare un significato? Perché mai. Tanti i modi dell’amore. Tanti i modi dell’assenza, e quale più definitivo, per chi?

Tanti i modi di evocare il mare come chiusura di una storia – siamo tutti storie. Non siamo altro.

Assenza

Dovrò rialzare la vasta vita

che ancora adesso è il tuo specchio:

ogni mattina dovrò ricostruirla.

Da quando ti allontanasti,

quanti luoghi sono diventati vani

e senza senso, uguali

a lumi nel giorno.


Sere che furono nicchia della tua immagine,

musiche in cui sempre mi attendevi,

parole di quel tempo,

io dovrò frantumarle con le mie mani.

In quale profondità nasconderò la mia anima

perché non veda la tua assenza

che come un sole terribile, senza occaso,

brilla definitiva e spietata?

La tua assenza mi circonda

come la corda la gola

il mare chi sprofonda.

                                   Jorge Luis Borges[ii]

 

 

 

[i] In: “Fervore di Buenos Aires”, Adelphi 2010

[ii] In: “Fervore di Buenos Aires“, Adelphi 2010