“Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso di quelle che ho letto” (J. L. Borges)

Avevo variamente e vagamente riflettuto sul fatto che “la lettura non è separabile da un “dove”, da un luogo – e soprattutto non da quel “dove” assoluto che è il mio ubi consistam, che viene con me ovunque io vada e che non mi può lasciare, con i connessi legami alla mia terra, alle mie relazioni, alla mia lingua.” (qui, e scusate l’autocitazione)

Ora, credo di non essere sola nel sentire un pericolo, l’attesa di un disfacimento dei nostri giorni, intesi come storia, lingua, cultura, comunità che si riconosce e, a partire da questo, riconosce e incontra altri.

La domanda non ha a che fare con un qualsivoglia confronto di <realtà>. Ha a che fare con un <racconto> che solo, se condiviso, può dar luogo ad un Noi, ad una comunità in cui vi sia reciproco riconoscimento. Vale per il singolo e vale per il gruppo: ciò che importa è, sempre, il racconto condiviso da trasmettere quale immagine di sé e di noi. Scegliendo, in coerenza, comportamenti e obiettivi che lo confermino. Sta tutto qua, credo.

La tragicommedia in atto, già sul crinale del tramutarsi in tragedia con i caratteri del grottesco, sta proprio nei cattivi racconti; sta nel bisogno di costruire il nemico per saldare un Noi in via di sfarinarsi, a sostegno di una istanza identitaria inquinata dai germi della separazione. Ed ecco sorgere le fasulle piccole patrie al cui interno immaginare l’individualismo più sfrenato e mortifero.

Si ha un bel dire ma frasi imbecilli del tipo <padroni a casa nostra>, nel vero immaginario di ognuno, hanno esattamente il significato dell’isolamento di ognuno entro una claustrofobica residenza anagrafica. Al di fuori solo nemici; nessuna piccola patria, nessuna comunità, nessun incontro possibile.

Dove si trova, oggi, nella nostra casa-Italia, nella nostra lingua, il racconto condiviso in cui si concreta la costruzione di ogni cultura? Mentre non possiamo dimenticare che la nostra cultura madre, e chiamiamola pure la nostra <civiltà>, è fondata sul Libro: su un mito fondativo Scritto; su cui tuttora si regge – vuoi per adesione fideistica di tipo religioso, vuoi per riconoscimento dei corpus di leggi e norme di comportamento che, a partire da tale mito, sono state tramandate, riscritte, capitoli di un percorso lungo millenni, che ha inglobato altri miti e altre narrazioni, informando di sé la società civile e giuridica.

In un tempo anomico, e questo le è, mentre i libri, plurale, sono alla portata di tutti, e i lettori mai stati tanti, pare perduta la sacralità della scrittura; la sacralità della trasmissione di una narrazione (e dei saperi che la compongono) cui sovrintende, da sempre, ogni comunità: selezionando, separando il grano dal loglio, tracciando un percorso lungo il quale trasmettere il testimone alla generazione che segue.

Certo, in una società complessa, in cui usiamo lo stesso termine per i Libri e per tutto ciò che ho altre volte definito come “oggetti a stampa” (la narrativa “di consumo”, i giornali, le riviste, i manuali di istruzione, e chi più ne ha più ne metta) il rischio che il disvalore impregni il Libro, che svilisca, depotenzi lo strumento, è reale.

Sento, è una paura, il pericolo che brutti giorni infiltrino i miei libri; non solo le mie letture, proprio i libri, mai esenti dal dipendere dall’ascolto, dal momento di vita e dalle esperienze di chi li legge; dalla volontà e dalla possibilità di chi legge di entrare in relazione, nel proprio qui ed ora, con il mondo di chi scrive; riscrivendolo, per sé. Che altro mai è un libro se non questa relazione.

Anche i libri hanno una vita, pochi giorni, secoli o millenni; che tuttavia finirà, come ogni cosa finisce, con il mutare dell’interlocutore; con la perdita di senso della relazione.

Comunque la pensiamo, non possiamo non sentire, oggi, la nostra strada, la strada dei nostri figli, stringersi, farsi dura salita; e non possiamo non temere, – lo dico sottovoce; so bene che dare parola a qualcosa equivale a darle un piccolo, minuscolo, essere-nel-mondo. Posso farlo, la mia è una voce inudibile; se non per me, ovviamente – non posso non temere di venirne infiltrata io stessa: nel mio piacere della lettura; nella mia possibilità di trovarvi, cosa?

Di trovarvi domande giuste, indicazioni per la ricerca di percorsi possibili per il pensiero e per la prassi; speranza, condivisione, accoglienza; tutto ciò che il libro porta nella vita dei suoi lettori, dei suoi ascoltatori: per essere riscritto mille volte, con aggiustamenti, apertura a nuove domande, a nuovi sentieri, magari non risolutivi ma belli (utili, produttivi) da percorrere.

Occorrerà, per questo, frequentare quelli che mi è avvenuto di chiamare “libri assoluti” e, al loro fianco, buoni libri amici per un’happy hour, in senso proprio, da consumare con i salatini e una bibita; gli uni e gli altri forieri di buoni scambi, di relazione e pensiero.

Ma non si esce da un problema se non avendogli, prima, conferito realtà: vale a dire confini, che lo rendano, per quanto grande, dotato del proprio limite. Non è secondario pensare che tutto ciò che è reale lo sia – ma il tempo giusto sarebbe l’indicativo – in forza di un limite, che ne definisca lo spazio e il tempo occupati. Senza di che, potremmo dire: “Nessuno sa chi io sia”.

Poi, il mito dice: “Io sono colui che È. Ne deriva la domanda: dove, quando, cosa, per chi. La domanda circa il predicato si impone, per l’appunto. Chiede il limite che renda l’essere reale.

D’accordo. È il caldo. Ma è possibile, per una sera, giocare un po’, lasciarsi andare al pensiero laterale. Talvolta porta risultati.

Poi, occorre parlare, credo; dopo aver ascoltato: pagine, immagino, non solo ma sicuramente pagine, nel mio (nostro) caso. Pagine.

Vengono alla mente ancora parole di Jorge Luis Borges:

Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso di quelle che ho letto

Il pensiero di Borges, mentre scriveva questo, come definirlo, epigramma, aforisma, certo nulla aveva a che fare con l’uso che ora io ne sto facendo. Eppure: lui ha scritto, e le sue parole, da quel momento, sono nelle mani e nel bisogno di chi legge e assegna loro un senso, di volta in volta; da lì percorrendo un proprio sentiero che, se condiviso, solo se condiviso (anche, forse soprattutto, per essere confutato) ne aprirà altri.

Salto di palo in frasca, come suol dirsi; ma ecco uno dei punti che rendono i tempi che viviamo tempi davvero brutti: oggi, sembra che nulla, più, venga confutato. Solo squalificato, aggettivato come improponibile. Ricoperto di insulti.

Paul Nizan, (1905 – 1940)

Mentre non c’è vita possibile per la specie umana senza produzione e ascolto di storie, cosa che, nel nostro mondo, equivale a dire senza libri. E non si tratta della strumento in sé; potremmo persino tornare all’oralità della trasmissione culturale e nulla cambierebbe, nella sostanza; pure se il libro (lo scrivere e il leggere) parrebbe cosignificante della condizione umana: anche Dio, per chi lo voglia porre quale fonte delle culture, ha dovuto ricorrere alla dettatura di un Libro da cui far dipendere la nostra possibilità di sopravvivere come specie. Ha dovuto regalarci un Racconto.

Se lo preferiamo, possiamo dire che fin dall’inizio della sua storia di autocoscienza l’uomo ha dovuto, per ipostatizzare il concetto di Dio, prevederne la scrittura.

Non so dove, a cosa, radicare questo che scrivo: alla difficoltà, immagino, che incontro nel far convivere, in questi giorni, pagine e vita quotidiana; non potendo prescindere né dagli uni né dagli altri.

Tornerò a Borges, credo; quale modo per impregnarmi di narrazioni sulla realtà possibile, sul pensiero possibile.

Nel frattempo ho sul tavolo, in corso di lettura “Aden Arabia” di Paul Nizan:

Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”.

Lo affianca, in rilettura, “Il fascismo eterno” di Umberto Eco.

Ho appena terminato “Perle ai porci, o Dio la benedica, Mr. Rosewater” di Kurt Vonnegut. Ed è sempre sbalorditiva la capacità di Vonnegut di far trapelare una lieve sorgente di ottimismo anche dentro la storia più nera, pur se narrata con ironica grottesca e surreale levità.

Poi c’è – da rileggere? Magari da proporre? – “La folla solitaria”, di David Riesman: grande sociologo oggi forse dimenticato. Possibile trovare un percorso utile in un testo del 1950?

Contiene il riassunto di “Tootle il trenino” una fiaba-parabola, oggi credo dimenticata, su cui riflettere. Contiene una conclusione, che è stata per me, da sempre, una bussola:

“Ma mentre abbiamo detto, in questo libro, molte cose di cui non siamo certi, siamo invece certi di una cosa: l’enorme potenzialità di differenziazione, insita nella generosità della natura e nella possibilità degli uomini di differenziare le loro esperienze, può venir apprezzata dall’individuo stesso, in modo che non sia tentato e forzato all’adattamento o, se dovesse mancare l’adattamento, all’anomia. L’idea che l’uomo sia stato creato libero e uguale è vera e ingannevole allo stesso tempo. Gli uomini sono creati diversi fra loro ed essi perdono la libertà sociale e l’autonomia individuale, per cercare di rendersi simili l’uno all’altro”.

Chiaro: la sera, per dormire, un buon giallo continua a non far male.