Marco Presta, “Un calcio in bocca fa miracoli”, Einaudi 2011
“Sono un vecchiaccio.
Dovrei dire che sono una persona anziana, come mi hanno insegnato i miei genitori per i quali chiunque, anche un infanticida antropofago, arrivato a una certa età meritava rispetto.
La verità è che sono un vecchiaccio.
Mi lavo poco, mi rado una volta la settimana e giro per il quartiere indossando un cappotto che, dopo la mia prostata, è la cosa più malridotta che mi porto dietro.”
Un libro datato; per i canoni attuali otto anni di permanenza sul mercato sono davvero molti; un libro che mi era sfuggito e in cui sono ora felicemente incappata; un libro che molti sicuramente hanno letto ma che forse, dopo otto anni dalla sua pubblicazione, potrebbe interessare una nuova pattuglia di lettori.
Un “libro per l’estate”, anche: ma non solo.
In queste pagine si troveranno una storia e una scrittura, una narrazione in prima persona, come si vede dall’incipit, segnate da un qualcosa di più: accattivanti ambedue, dovrei dire e sì, anche un po’ “ruffiane” – e ahi! le parole! Il termine può condurre all’equivoco, ma può pure mascherare la cosa bonariamente fingendola, in modo inversamente antifrastico. Perché, ebbene sì, di vera e propria ruffianaggine si tratta: di un genere raro, intelligente e molto molto intrigante.
Racconta, il vecchiaccio; pensa, commenta, riflette: su di sé, sul mondo in generale e sul mondo delle sue relazioni in particolare.
Racconta di sé, ma narra in effetti due storie di vita e di amicizia. Ci presenta, per l‘appunto, due personaggi – se stesso, vecchiaccio non casualmente senza nome e “l’altro da sé”: Armando, l’amico di una vita.
Ma chi è davvero Armando?
Nello scorrere della storia, o forse al concludersi della storia, sorgerà nel lettore il sospetto che si tratti di una sola persona: il vecchiaccio e la sua apparente antitesi; il vecchiaccio e la sua controfigura, colui che gli consente di non mostrare il suo lato di brava persona, i suoi sentimenti e le sue emozioni. Molto ben difesi.
“Purtroppo mi è sempre mancato il coraggio di apparire ridicolo, la sola vera forma di coraggio” arriverà a concludere il Nostro, mentre racconta e riflette sul suo essere stato lasciato da sua moglie; un abbandono che avrebbe potuto, ritiene, evitare.
“Avrei potuto chiamarla, pregarla, promettere cambiamenti, insomma, incartargliela in qualche modo per cercare di riprendermela…” non fosse stato per quella sua scontrosa difficoltà a, vogliamo dire essere Armando?
Il vecchiaccio lo sa, lo sa bene. È cristallino con se stesso, e un po’, e pure più di un po’, si piace così. Ci marcia, sulla propria intrattabilità, sul proprio disprezzo per gli altri; sulla propria immagine, per l’appunto, di vecchio odioso.
“Non mi piacciono gli extracomunitari. (…) Non bisogna essere razzisti, questi uomini sono come noi. Cioè, degli stronzi.”
E, brontolando su tutto e su tutti, stabilisce relazioni accettabili e finanche buone con il suo prossimo – un prossimo selezionato, naturalmente – assegnando ad Armando la responsabilità di aver dovuto cedere.
Il fatto è che, con queste pagine, si ride, come avverrebbe potendo, dal buco di una serratura, spiare davvero la vecchiaia e i suoi trucchi, attraverso il racconto di un vecchio che parla di sé con se stesso, ignaro di venir ascoltato, smascherando quella cosa che i vecchi, su di sé, tacciono sempre: la grande furbizia, bagaglio di una esperienza di vita che gli altri, i non-vecchi, non colgono, fuorviati nel loro giudizio da settoriali fragilità che avanzano, dalle manchevolezze che nel tempo il corpo patisce.
Gli altri: colpevoli, tutti, incontrando la vecchiaia altrui, di sineddoche esistenziale.
Perché è così: il vecchio finge, sempre, come se settanta, ottant’anni di vita, potessero essere trascorsi senza aver accumulato esperienza, conoscenza, di sé e del mondo; soprattutto dei propri simili.
Ogni vecchio nasconde – talvolta anche a se stesso, certo; è questione di carattere – il fatto di essere, e di muoversi nel mondo, come uno specialista tra dilettanti. E non c’è gara.
Qualcuno, ed è il caso del nostro, possiede, in proposito, una grande, ilare, lucidità; ed utilizza tutto ciò che gli consente di fronteggiare la difficoltà del vivere regalandosi fantasiosi, istrionici, spettacolari dispetti al proprio prossimo; a chi lo merita, e anche random, a chi capita. Dopotutto, è davvero vecchio e solo; la sua unica figlia, Anna, vive lontano e lui con lei sa solo parlare del tempo.
Il Vecchiaccio è vittima di una grande tenerezza segnata dal rimpianto per un mestiere di marito e di padre svolti, vogliamo dire in modo reticente?
“Quando Orietta andò via fui solidale con lei. C’era una parte di me che non voleva aver niente a che fare con me e si schierava al fianco di mia moglie.”
“Mi lasciava per la mia incapacità di prendermi cura di altri esseri umani”.
Ha problemi di prostata che lo impensieriscono: li teme, e si rifugia nel non voler ascoltare il medico mentre non depone le armi con l’altro sesso e coltiva una vera passione per la portinaia del suo condominio, una sessantenne vedova di bella presenza: a patto di non venir richiesto di impegnarsi in attività di corteggiamento.
“Vorrei trombare la portinaia, …”
“È una bella rosa di tre giorni, un po’ spampanata ma non del tutto sfiorita”
“L’altro giorno ho chiesto a un medico che abita nel mio palazzo se mi firmava l’esenzione dal corteggiamento, vista la mia carta d’identità e lo stato generale di salute. L’avrei presentata alla portinaia, per poi abbracciarla con tutta la sfrontatezza di un invalido.”
Dopotutto, impossibile per lui rinunciare al personaggio che ha faticosamente costruito nel corso di una vita, a costo di grandi dispiaceri dati agli altri ma soprattutto a se stesso. Non è poco, poter contare su di una rappresentazione di sé consolidata e ben recitata.
Per fortuna, o per calcolo, c’è Armando, il suo alter ego, un anziano dolce, buono e sorridente che, assumendo su di sé tutti, ma proprio tutti, gli obblighi di bontà, gentilezza, comprensione verso il mondo, gli consente di mostrare interamente il suo lato perfido, cinico, brontolone e indisponente, senza pagarne il fio, o quantomeno potendone trattare un prezzo di favore.
Armando, il vecchio pizzicagnolo del quartiere, sorrideva sempre. La sua bottega aveva resistito per la buona qualità della merce ma soprattutto per l’ottima qualità della relazione con lui; era il luogo dove molti entravano solo per parlare, senza acquistare nulla; per scambiare una parola, ricevere un buon consiglio.
“Sorridere era la sua reazione istintiva di fronte alla realtà…si trattava di un sorriso sincero, quello di un santo o di un idiota…
Vecchiaccio sente di dover giustificare questa strana amicizia, nata da ragazzi e durata per la vita.
“Inavvertitamente, gli ho voluto bene. Certe volte basta distrarsi un attimo e il cuore prende decisioni autonome, senza consultare le tue intenzioni. Ecco perché lo chiamano <muscolo involontario>.”
Armando, a sua volta, vuole molto bene a Vecchiaccio; non trova nulla da ridire sui suoi quotidiani sberleffi al mondo e alla buona creanza.
La storia
Armando, nella sua grande capacità di prendersi cura degli altri, coinvolgerà il nostro in un progetto teso a favorire l’incontro e l‘amore tra due ragazzi del quartiere.
Che dire: c’è poi questa grande differenza tra la figura del ruffiano, che procura protegge e favorisce amori illeciti, e l’immagine bella di un Cupido che, in questo caso, sceglie con divina saggezza le proprie vittime?
“Tutti vogliono lasciare qualcosa dopo la loro morte. Chi una tabaccheria avviata, chi un grande romanzo, qualcun altro una fama da don Giovanni o una collezione di lattine di birra.
Armando voleva lasciare un amore.”
La storia racconterà dunque un progetto, un vero gioco d’azzardo, cui i due si dedicheranno – il Nostro fintamente reticente – organizzando cose turche per favorire l’incontro tra Chiara e Giacomo: l’uno con il sorriso, l’altro con sprezzante ironia, ugualmente tesi al risultato.
Intorno, scoppietta la quotidianità, la vita degli incontri; e le relazioni (si fa per dire) di vicinato.
Cani che abbaiano, voci indistinte, musica improvvisa, martellate, mobili trascinati, odore di cavolo, tonfi, urla, corse di bambini, festicciole, orgasmi soffocati, risa, porte sbattute, sciacquoni, colpi di tosse, passi pesanti, pianti di neonati, grida di esultanza, applausi, bestemmie, squilli di telefono, pianoforti e chitarre, grida per le scale.
Un condominio, insomma.”
Nel quale c’è, per l’appunto, la portinaia; e c’è Gastone, il suo pretendente-rivale, un barista dai denti rifatti, impegnato in un fitto corteggiamento; c’è il condomino medico che gli prescrive inutilmente esami per i suoi disturbi alla prostata.
Il quadro si amplia di relazioni che il nostro, brontolando, e attivando scherzi e vendette terribili, in realtà coltiva senza parere.
Ci sono i negozianti cui rubare le penne biro alla cassa – ne ha una grande collezione; c’è il bambinetto in passeggino, ai giardinetti, di cui osservare la crescita con grande empatia e senza alcuna confessata simpatia.
“… mi guardava dal suo passeggino, mentre la madre parlava con un’amica.
Il piccolo bastardo sbavava che era una bellezza e arricciava il naso perché mi interessassi a lui, ci giocassi, lo coccolassi.
Non l’ho fatto, naturalmente.”
Alla fine, agli occhi del lettore frastornato dalle invenzioni del Vecchiaccio, dalle sue lucide bugie figlie di scoppiettanti verità (del genere che, di regola, non è bene dire) non è chiaro se ci sarà stata un’evoluzione del Nostro o non invece una ricomposizione dell’unica figura protagonista.
Si ride, tanto, su queste pagine; le si lascia con affetto, e con una qualche malinconia.