Astrid LIndgren, “Pippi Calzelunghe“, Salani Editore 1988
Traduzione di Donatella Ziliotto e Annuska Palme Sanavio
In questo agosto troppo caldo e, diciamolo, preoccupante su molti fronti, la ricerca di “cosa leggo stasera” è un tormentone.
Sono distratta, fa caldo, sono stanca; alle prese con una serie infinita di desideri incerti, con la voglia di recuperare “libri mattone” che il momento, la cronaca a rischio di farsi biecamente storia, chiama a rileggere, ripensare; desideri che il caldo e la stanchezza afflosciano.
Così, sul mio tavolo si accumulano vecchi libri, senza un loro vero richiamo. O meglio, senza l’energia, la fiducia necessaria ad affrontarli.
Ma qualcosa accade. Mi trovo tra le mani “Pippi Calzelunghe”: la mia proposta di lettura serale alla nipote maggiore, otto anni: età perfetta, giusto prima che cominci la danza di un tempo nuovo in cui è utile, necessario persino, rafforzare i fondamentali.
Che poi, mi è avvenuto altre volte di rileggere questo libro, che avevo letto per la prima e non unica volta da adulta; e posso solo immaginare cosa sarebbe stato l’averlo letto, o ascoltato, tra gli otto e i dieci anni, io bambina nell’Italia di allora.
Uscito in Svezia, credo, nel 1945, è stato meritoriamente pubblicato in Italia da Vallecchi nel 1958. Ha avuto, al tempo, critiche sgomente da pedagoghi e consimili, mentre il libro, di anno in anno, veniva tradotto fino a raggiungere cinquantaquattro lingue; ultima, leggo, lo zulù.
È un libro che parla alle donne, future ma non solo. Un libro che, senza parere, fa bene.
In Italia non è, e non è stato, un libro qualunque; quando crescere, affrontare il tirocinio familiare e sociale per diventare donna, significava smettere, ancora bambine, di giocare ed iniziare un severo apprendistato a futuri compiti (e all’obbligata inculcata aspirazione) di moglie e madre.
I libri per l’infanzia femminile non dovevano aver contenuti trasgressivi – o apparentemente tali – delle regole culturalmente sancite per l’essere donna.
Poche sere fa, con la mia aspirante ragazzina, abbiamo fatto tardi. C’è stato dunque solo il tempo per un assaggio del libro, per farglielo desiderare. Ne abbiamo letto i primi due capitoli, segnati da risate epiche della bambina che ancora non sa di aver iniziato a leggere quello che spero possa essere uno dei suoi libri importanti; di quelli che lasciano il segno.
Al mattino, ci siamo dovute lasciare, per una settimana; lei continuerà la lettura con la sua mamma; o da sé. Mentre io ho riletto il mio Pippi, a mia volta: per me. Per rinforzare i fondamentali dell’esser donna: forte, capace, come Pippi, di sollevare un cavallo e non solo; autonoma, capace di organizzare la propria vita e, va da sé, dare una forte mano a quella degli altri; capace di vedere la distinzione tra ciò che è importante e ciò che non lo è; buona, capace di perdonare senza confondere il perdono con la sudditanza e la remissività; fantasiosa, creativa, capace di inventare mondi, di reperire risorse, dentro e fuori di sé.
Tra una settimana io e la mia nipotina ci ritroveremo. Mi piacerebbe, lo confesso, continuare con lei una nostra lettura; o una rilettura, chi lo sa; condividere con lei le “certezze assolute” di Pippi: una delle migliori, è sicuramente quella in cui Pippi dice al padre, il pirata capitano Efraim Calzelunghe che si preparava a salpare sulla sua nave, la “Saltamatta” senza di lei., avendo ritenuto preferibile che Pippi rimanesse a Villa Villacolle dove aveva amici e una vita, in totale autonomia, meglio organizzata per la sua età:
“Proprio così (…) è assolutamente necessario, per i bambini piccoli, avere una vita organizzata; specialmente quando se la organizzano da soli!”
Ora, forse tutti avete già letto Pippi Calzelunghe. In caso contrario, credetemi, occorrerà provvedere ad almeno due letture: alla prima, da adulti ormai irrimediabilmente segnati dalla vita, non è detto che si riesca a ricavarne tutta l’utilità e il benessere che questa storia regala, ma la seconda sarà decisiva.
Non starò a raccontarne la storia, neppure per sommi capi. È una storia che va letta, inizialmente, due volte, a tamburo battente, per essere gustata bene. E va riletta, periodicamente, soprattutto dalle bambine e dalle donne, giovani e non: non fa male ricordare che è possibile essere forti; che è possibile non tenere in conto eccessivo le strade battute; che è bello giocare, sempre, cosa che, in versione adulta, significa trovar piacere in tutto ciò che si fa; che è possibile rispettare le proprie ragioni; che è bello far lavorare la fantasia, fare sempre nuove scoperte; ed essere, come dice Pippi, delle <cerca cose> di professione.
“Il mondo è pieno zeppo di cose, e ci vuole pure qualcuno che si occupi di trovarle. Questo è appunto il compito dei <cerca cose> (…) Cose di qualsiasi tipo: pepite d’oro, piume di struzzo, topi morti, minuscole viti, e così via.”
Poi, ricordare che è bello immaginare futuri. Che è possibile fare giustizia sui “cattivi” senza far loro del male; anzi, regalando loro, alla fine, pure un biscotto.
Nei momenti in cui la vita ci metterà alla prova è davvero importante, e Pippi lo sa bene, aver chiare le priorità: quali siano le cose necessarie, da portare con sé per ogni evenienza e le cose, o i comportamenti, che rivestono un’importanza secondaria o addirittura non ne hanno nessuna.
Che dire, ad esempio di qualcuno che, andando per mare e dovendo ben prevedere la possibilità di fare naufragio, si scordi di portare con sé una bottiglia vuota, trovandosi poi nell’impossibilità di chiedere soccorso?
“Mio padre me l’insegnava quand’ero ancora in culla. ‘Pippi’ diceva, ‘non importa se ti dimenticherai di lavarti i piedi quando sarai presentata a corte, ma se scorderai la bottiglia vuota quando farai naufragio, allora addio ritorno a casa!”
C’è di che rifletterci a lungo, specialmente se non si è più bambini.
E le bugie? Parliamoci chiaro: i bambini, poveretti, ne dicono davvero poche; e vengono pure redarguiti pesantemente quando colti a farlo.
Mi ha sempre incuriosito capire (e non l’ho mai capito) attraverso quale percorso insegniamo ai bambini a non dire bugie – da bambini, per l’appunto – ma a capir bene che, da adulti, quelle stesse bugie sono a fondamento non solo della buona educazione, ma addirittura di una vita buona: nella forma del tacere certe (molte) verità quando non ci torni utile dirle; nella forma del negare tutto negare l’evidenza allorché convenga; nella forma della vera e propria menzogna, quando ciò costituisca la via maestra per non pagare il fio delle nostre azioni.
Pippi è una meravigliosa bugiarda-confessa; e il padre, di ritorno da una lunga assenza, la interrogherà in merito per assicurarsi che impari sempre meglio ad esserlo.
“Dunque, Pippi, bambina mia – riprese – come stiamo a bugie?”
“Beh, quando ne ho tempo, me la cavo; ma non mi capita troppo spesso – disse Pippi con modestia. E tu, a proposito? Nemmeno tu te la passavi troppo male, come bugiardo.”
Ed ecco tutto. Papà Calzelunghe allena la figlia a raccontar bugie, di quelle buone e talmente belle da far sì che il nostro prossimo, se non ci crede, almeno desideri davvero poterlo fare.
Pippi racconta al suo papà, avvilita, che le sue bugie non riscuotono il successo che meriterebbero, e non ricevono ovazioni di apprezzamento e rulli di tamburo.
“Me ne vado in giro sola soletta a raccontar balle a me stessa, ma non c’è un cane che soffi sul pettine in mio onore. Qualche sera fa, a letto, inventai tutta una lunga storia su un vitello, che sapeva fare i merletti a uncinetto e arrampicarsi sugli alberi: tu non ci crederai, ma me la sono bevuta tutta.”

Ecco tutto. Così è ben chiaro. È bellissimo inventar storie; è bellissimo riuscire persino a farle credere, o quantomeno riuscire, con le nostre storie, ad intrattenere gli amici, che pur di godersele sono disposti persino a fingere di crederle; a <desiderare> di crederle. È bellissimo poter, addirittura, intrattenere se stessi con belle grosse <bugie>, fino al punto di <bersele>: con piena coscienza e deliberato consenso, come si diceva un tempo, cosa totalmente diversa dalla falsa coscienza di sé, dal mentire a se stessi. Anzi: un potente antidoto a tale grave malattia, tipica dei veri bugiardi: adulti, naturalmente.
C’è poi qualcosa in tutto questo che, nella sua ovvietà, non è davvero scontato: l’idea che giocare, lavorare, imparare, siano cose che si fanno con gli altri. Mai da soli.
C’è l’idea che chiacchierare e ascoltare buone chiacchiere, sia essenziale per una vita buona.
E Pippi, agli amici, silenziosi in un breve momento di tristezza, dirà preoccupata: “È pericoloso, sapete, starsene zitti troppo a lungo: la lingua si secca se non la si adopera. Ho conosciuto una volta un fabbricante di stufe, a Calcutta, che non faceva altro che starsene zitto. E finì come doveva finire: un giorno mi doveva dire ‘addio, cara Pippi, buon viaggio e grazie per il bel periodo trascorso insieme! ’ e sapete cosa successe? Prima torse la faccia in smorfie atroci, perché i cardini della bocca gli si erano talmente arrugginiti, che fu costretto a ungerli con un po’ di olio da macchina; poi quanto riuscì a dire fu ‘U bui uie mui!’ Gli scrutai allora ben bene in bocca e vidi, figuratevi, una lingua ormai ridotta a una fogliolina appassita!…”
So bene che non verrò ascoltata, ma, davvero, e di questi tempi poi, leggete, o rileggete, Pippi Calzelunghe. Vi sentirete meglio!
Siatene certi: ciò che va bene per i bambini va bene, anzi, meglio, per tutti.
Credetemi: concedetevelo!