Biörn Larsson, “La lettera di Gertrud”, Iperborea, 2018
Traduzione di Katia De Marco
Avevo apprezzato, quasi un anno fa, la recensione di Pina Bertoli su questo libro, annotandomelo per leggerlo nel momento in cui il mio interesse per un tema che mi coinvolge profondamente avesse trovato il suo giusto tempo.
Ripropongo il libro, dunque, invitando anche a leggere la recensione che me lo ha indicato e che segnalo: qui
La storia: Martin Brenner, uno scienziato, genetista, sposato ad una ginecologa e padre di una bambina adorata, ha una vita serena e, a dirla con un termine d’uso, riuscita.
Figlio di Maria, una donna che lo ha cresciuto da sola, al funerale della madre si interrogherà sul rapporto che lo legava a lei, segnato da una forma di distanza.
Ne scoprirà il motivo quando un avvocato gli trasmetterà una lettera della madre, in cui lei gli rivelerà di essere ebrea, di chiamarsi Gertrud e di essere la sola sopravvissuta della propria famiglia ai campi di sterminio.
Gertrud aveva scelto, per paura, nella convinzione che mai gli ebrei avrebbero potuto vivere sicuri, di tenergli nascosta la propria appartenenza al popolo ebraico e di crescerlo senza appartenenze religiose.
Gli consegnava ora questa informazione perché potesse liberamente riconoscere o respingere la propria appartenenza al popolo ebraico.
Tutto muta nella vita di Martin, e la storia, con la scrittura di Björn Larsson, è di quelle che non ti lasciano. Ma vorrei soffermarmi sulla struttura del romanzo, a sua volta molto particolare e tale da aprire domande fondamentali per la vita di tutti noi – umani, intendo.
Tema: come si definisce l’appartenenza al popolo ebraico; in cosa consiste l’antisemitismo; cosa lo differenzia dall’antisionismo – e non è banale la scoperta che il protagonista farà della valigia, che la madre teneva pronta per la fuga, così come della scorta di viveri sproporzionata per la vita di una donna sola.
Sono temi che, pur nella loro peculiarità, costituiscono il paradigma per indagare le forme e i modi universali del pregiudizio; e sono temi che pongono in campo la domanda sull’identità e sul suo aver a che fare con la discendenza, sul suo essere pensata come dato “genetico” dal quale, dunque, non sarà possibile prescindere.
Martin Brenner scoprirà di non poter “non essere ebreo”; scoprirà che tale appartenenza gli verrà imposta sia dagli antisemiti e dalle loro organizzazioni sia dagli ebrei, che condividono con i loro nemici la convinzione che essere tali costituisca, per l’appunto, un’appartenenza “genetica”.
Martin non aveva scelta: doveva riconoscere la propria appartenenza al “popolo” ebraico o avrebbe dovuto vivere nella menzogna, tacendo sulla storia di vita della madre, disconoscendola. Gli risulterà molto costoso, se non impossibile, dire mia madre era ebrea, io non lo sono.
Larsson struttura il libro come una biografia, scritta su proposta del protagonista, deciso a far sì che la sua vicenda apra la domanda fondamentale sul libero arbitrio e sulla libertà individuale, di ogni uomo, indipendentemente dalle appartenenze multiple nella quali ognuno vive, libero di sceglierle come di respingerle.
A sostegno della finzione, nella terza parte del libro, cui seguirà una Postfazione, l’autore passa alla prima persona e narra, dall’interno della storia, facendosi personaggio a sua volta, la “genesi” di questo suo romanzo.

“Scrivo queste pagine a quasi due anni dal mio primo incontro con Martin Brenner. Mi aveva mandato un’email dicendo di avere una storia che secondo lui poteva interessare uno scrittore come me”.
Il lettore faticherà a riconoscere la struttura di invenzione del romanzo, che utilizza in forma assolutamente originale il classico escamotage della “fonte“ da cui viene recuperata una “storia vera”, non inserendola nella storia, come inizio della narrazione bensì raccontando, a latere, un incontro “reale” e un personale confronto con il protagonista.
Di più: Larsson ci fornisce la bibliografia attraverso il cui studio il protagonista giustifica e documenta il proprio pensiero sul tema.
Di più, riferisce di aver dovuto a sua volta farsene carico e studiare a lungo.
“Mi parve chiaro che se Martin (…) si era avventurato su un terreno minato, lo stesso valeva per il mio romanzo su di lui. Non potevo permettermi di non conoscere l’identità, la religione, la cultura, la storia ebraica. Mi presi dunque una pausa dalla scrittura…”
E conclude: “Imparai molte cose ma, come lui, senza arrivare a identificare cosa facesse di un ebreo un ebreo.”
Larsson apre interrogativi, in alcuni casi del tutto retorici, nella maggior parte fondamentali, invitando a lasciarli aperti.
E tuttavia – e qui sta, a mio parere, la grande forza, e l’importanza di questo romanzo – nel racconto, e attraverso l’escamotage della doppia voce, la sua e quella del protagonista, consente al suo protagonista di porre un punto fermo, condividendolo, senza imporlo al lettore quando, nel corso di un dibattito, opponendosi ai membri di un partito antisemita ed esprimendo il suo disprezzo nei loro confronti, Martin darà voce anche al “suo profondo scetticismo nei confronti della discendenza come criterio di identità”.
“Ripeté quello che aveva detto più volte, ovvero che sostenere qualunque criterio biologico dell’identità equivaleva a dar ragione a Hitler e ai nazisti. (…). In fondo, gli antisemiti, gli xenofobi e i religiosi monoteisti erano d’accordo su una cosa: volevano il potere sulla riproduzione. Ma anche la sinistra era evasiva in materia. Da quando i sogni di uguaglianza, internazionalismo e universalità del comunismo erano morti, da quando l’umanismo era stato decostruito in lungo e in largo da intellettuali privi di valori e il capitalismo liberale aveva sostituito l’etica con il profitto, la sinistra portava avanti una politica dell’identità sempre più ristretta ed esclusiva. Con (…) le sue battaglie in favore delle minoranze, che fossero basate sull’etnicità, il genere o l’orientamento sessuale, senza nemmeno accorgersene la sinistra da internazionalista era diventata nazionalista, ritrovandosi spesso nello stesso scomparto ideologico del populismo di destra. Sulla linea di tiro finivano quelli che si ostinavano a difendere l’individuo, il singolo, con i suoi diritti universali. Quelli come Martin.”
Chiaro: le derive, che potremmo chiamare razziste – pure se, non lo so, sento il termine “razzismo” ormai, e da troppo tempo, rozzo, incapace di concettualizzare correttamente il problema, tanto più quando lo si affronta sotto la specificità dell’antisemitismo – non riguardano unicamente il popolo ebraico e tuttavia è indiscutibile come, nei confronti di questo popolo, tale specificità sia un assoluto.
A fronte dei genocidi che, nella storia, la specie umana ha compiuto nei confronti di genti le più diverse, la Shoah si pone come un unicum che necessita, in assoluto, di una memoria specifica, di una conoscenza senza sconti non tanto o solo nei riguardi di ciò che è stato operato dal popolo tedesco, non trascurando la complicità asservita italiana, quanto nei riguardi della specie umana tutta: occorre ricordare che la nostra specie – vale a dire ognuno di noi, ogni persona umana, ebrei, tibetani e rom compresi – PUÒ fare questo.
La distanza che, oggi, ci separa da quegli avvenimenti è un istante della Storia. La Shoah è una ferita aperta, sanguinante. Il desiderio di toglierci dalle spalle il peso di quella colpa lo è, di conseguenza, altrettanto: è la pulsione a non assumercela, tutti, in quanto appartenenti alla specie uomo, e tanto basti.
È un tema difficile, che tocca sensibilità giustamente sempre in stato di allerta, e che tocca persone tuttora e sempre a rischio; in difficoltà, dunque, nel farne una trattazione, come vogliamo chiamarla: accademica? In punta di teoria?
Parlarne, scriverne, porre una, tante domande, è un rischio che Biörn Larsson ha scelto di correre. Che ci chiede di correre – ed ecco l’importanza della voce dell’autore nella storia dove, entrando nelle vesti di se stesso, fornisce di realtà il suo interlocutore-alter ego.
Un romanzo. Una storia di vita. Un libro corposo da leggere d’un fiato, nonostante il bisogno, cogente, di fermarsi ad ogni domanda – e sono tante – che questa storia apre; e non per cercarne una risposta: per coglierne il senso, la legittimità; per decidere la titolarità stessa della domanda ad essere posta; e il giusto modo per porla, tale da non falsificarla.
Ci sono libri la cui lettura si sceglie di suggerire agli amici, di cui si desidera parlare; ci sono libri che si rileggono perché, dopo averti, o al di là del fatto di averti, trattenuto con una storia, interessante e ben scritta, lasciano domande del tutto particolari, di cui ci si chiede non tanto quale possa essere la risposta quanto se la domanda possa essere posta, quale sia il modo, eventualmente, giusto, di porla. Ci si chiede se la domanda abbia un senso o non sia la risultante di interrogativi diversi; se non sia frutto non tanto di pregiudizi quanto di un sapere erroneo (cosa che si differenza dal “pregiudizio”, anche se, forse, solo per una sfumatura, ma che contiene in sé una importante valenza morale e un atteggiamento, conseguente ad un proprio sistema di valori, capace di mutarne il senso: la ragione potrebbe trovarsi incapace a correggerla?)
In questo romanzo l’autore chiederà al narratore, per accogliere la proposta di scriverne, di consentirgli l’autonomia che gli spetta come romanziere. Rivendicherà il suo non essere, per così dire, né un cronista né uno storico: ancora un grande escamotage per porre il lettore nella condizione di dover accogliere una sospensione del giudizio, a partire da una domanda sulla domanda – non so esprimermi meglio.
Un punto, tuttavia, resta, fermo. Lo si trova dichiarato al penultimo capoverso della Postfazione
“Quando sia gli amici che i nemici vogliono che tu resti quello che sei e impongono sanzioni, dall’espulsione alla pena di morte, a seconda della cultura e della religione, per farti restare ciò che gli <altri> vogliono che tu sia, non è così facile continuare a lottare.”