Senza titolo

Un Nuovo Anno è iniziato: momento di bilanci e nuovi progetti; di lettura, beninteso, ma non solo.

I libri stanno nel mondo, interagiscono con il mondo; producono, modificano, pensieri e azioni. I libri parlano con noi e costruiscono percorsi, strade da percorrere per il nostro tempo. Sono, dunque, futuro – contengono ricerca e, con essa, speranza, progetto; un domani da vivere, non foss’altro per finir di leggere una storia.

Senza un futuro non c’è lettura: si è mai sentito di qualcuno che abbia atteso la propria morte leggendo? Che abbia detto aspetta un momento, fammi finire il capitolo?

I libri consentono tuttavia anche la fuga: dal pensiero, dall’azione che ne consegue; consentono la sosta. Si dice. Poi non è così. Non sai mai dove, quando, una pagina conterrà quelle poche parole, una frase, quel qualcosa che richiamerà, solo per chi legge, un ricordo, un desiderio, una riflessione. Avviene con il più improbabile dei romanzi da intrattenimento.

Dovrei ripercorrere il percorso di lettura dell’anno trascorso; quantomeno la parte che ha trovato una eco qui. A quest’ora, dodici mesi fa, stavo rileggendo “La montagna incantata”.

Un libro che, pubblicato nel 1924, Thomas Mann aveva iniziato a scrivere nel 1912 – i venti di guerra erano tutti presenti, ma era ancora possibile, o quantomeno la gente lo faceva,  illudersi e, con qualche sforzo, distogliere lo sguardo dal futuro imminente; così come fu possibile ai libri di storia sui cui i nostri ragazzi avrebbero studiato attribuire “le cause dello scoppio del primo conflitto mondiale” all’assassinio del granduca Francesco Ferdinando d’Asburgo – era il 28 giugno 1914 – per mano dell’anarchico Gavrilo Princip: sempre utile, per qualsiasi governo,  avere un anarchico in campo.

Un mese esatto dopo quel 28 giugno, il grande Impero austroungarico dichiarò guerra al piccolo Regno di Serbia, terreno di scontro tra interessi diversi, afflitto da sudditanze inconciliabili, strattonato tra Vienna e San Pietroburgo: un alibi utile per non rendersi responsabili, almeno inizialmente, di uno scontro diretto tra i due grandi imperi e i loro alleati.

La scrittura di quello che doveva essere un racconto e sarebbe diventato “La montagna incantata” fu interrotta dallo scoppio della guerra. Divenuto il capolavoro che conosciamo, fu pubblicato, nel 1924, in un tempo in cui la pace non aveva impedito, anzi, che la terra continuasse a tremare, mentre nuove faglie si aprivano e si sovrapponevano a vecchie faglie.

Oggi, a distanza di settantacinque anni dalla seconda catastrofe del secolo scorso, la terra trema ancora, le linee di faglia non si sono mai assestate; e se nel nostro mondo occidentale una intera generazione ha potuto nascere ed è vicina a morire in pace, lo ha fatto sulla pelle di guerre e orrori e fame e povertà e ingiustizia agite a proprio vantaggio a casa d’altri.

Oggi, sotto i nostri piedi la terra continua a tremare, altre faglie si aprono, e neppure occorre più un anarchico per accendere il cerino: basta il Capo di Stato di una nazione, vedi un po’ che strano, democratica.

Il rimorso di Oreste, di W. A Bouguereau, 1862. In: Wikipedia

Dodici mesi fa stavo dunque leggendo “La montagna incantata di Thomas Mann. Oggi, sto concludendo, spero, la lettura di “Le Benevole” di tale Jonathan Littell. Mi ero assunta un qualche impegno, in questo senso (qui).

Si tratta di due libri diversi, di autori non comparabili. Pure se, lentamente, una correlazione si fa strada. Mi pare di riconoscere delle linee, dei percorsi. Ripetizioni della stessa storia.

Mi colpisce un legame, quasi un memento per il nuovo anno. Pur se c’è molta nebbia nei miei pensieri, e la nebbia distorce ogni immagine.

I giornali, per quel che oggi valgono, scrivono, osando l’allarme con toni che, ormai, paiono non allarmare nessuno. Da troppo tempo i superlativi si sprecano, e hanno perso il proprio significato: chiaro, se tutto è superlativo, niente più lo è.

Chi abbia letto “Le Benevole” conosce il percorso per mezzo del quale l’orrore, insostenibile, della seconda parte diventa insensibilità, assuefazione: è l’Operazione Barbarossa, l’attacco all’Unione sovietica nel corso del quale il protagonista, il giovane ufficiale Maximilien Aue, verrà impegnato nell’organizzare lo sterminio della popolazione ebraica (e comunista) dei territori occupati, avendo quale mano d’opera d’appoggio, non renitente al compito, i fascisti ucraini.

Non è facile trovare collocazione a intere popolazioni di cadaveri come non lo è, per la truppa tedesca, obbedire trovando giustificazione al proprio agire. Il compito richiede che si entri nel mondo della follia; e l’attenzione del lettore è chiamata a rivolgersi al carnefice, oh dio quanta sofferenza, poveri ragazzi nazisti inconsapevoli; e il nostro Maximilien Aue somatizza e caga e caga, feci liquide, spasmi intestinali.

Maximilien Aue non fuggirà. Non in tempo utile.

La storia prosegue, e non è ancora il tempo di narrarla – di riprenderne i fili sparsi. Ma c’è questa cosa, in questo inizio d’anno, questo tempo di un’attesa sempre più difficile da ignorare. Un tempo che si ripete, all’infinito, nella storia dell’uomo; un tempo che accelera, e si avvita, senza che, dentro ognuno di noi, si spenga non tanto o non solo la speranza, ma soprattutto una a-razionale convinzione che dice no, non è scritto. Abbiamo sempre una scelta.

Si scrive #WWIII (o #WW3), si legge terza guerra mondiale. Prima ancora che i media mainstream cominciassero ad analizzare le conseguenze di quanto accaduto nella notte a Bagdad, l’opinione pubblica connessa in rete ai quattro angoli del pianeta aveva già deciso quale fosse l’hashtag da usare sui social, la parola chiave da digitare sui motori di ricerca, il codice attraverso il quale veicolare l’informazione dal basso. World War Three: trending topic mondiale su Twitter, (…)

(…) World War Three è diventata in breve anche una delle frasi più ricercate su Google, insieme a “Iran” e “Soleimani”. Curiosamente però sono salite anche le ricerche per Franz Ferdinand e non era un rigurgito nostalgico di rockettari interessati al destino della band scozzese: #franzferdinand come l’arciduca d’Austria ucciso a Sarajevo nel 1914, casus belli per antonomasia.

(…) Ora le diplomazie delle grandi potenze saranno impegnate nel lavoro di de-escalation, per disinnescare la bomba lanciata da Donald Trump sul Medio Oriente. E, si spera, ancora una volta ci riusciranno. Ma quell’hashtag, che letto ad alta voce sembra quasi un grido di allarme, sta a dirci quanto il mondo oggi abbia paura.

 (Andrea Iannuzzi,anteprima di Repubblica, 3 gennaio 2020 )

Ogni pensiero, ogni confronto, tutto, pare lasciato ai social, cui i quotidiani hanno ormai affidato una stenta sopravvivenza: adeguando i commenti, ognuno per una propria parte ma insomma, più o meno, senza che più ad alcuno sia assegnato, o senza che qualcuno più assuma, un compito di sintesi, di Voce capace di coagulare un’idea, qualcosa che non si sfarini in sterili proteste, per un pianeta che, se per una parte consistente vede i suoi abitanti impegnati nella lotta alla fame e per la sopravvivenza – sempre di guerra si tratta – per l’altra parte, diciamo pure per <noi>, per la parte che <conta>  – sta a guardare il proprio ombelico.

“Ora le diplomazie delle grandi potenze saranno impegnate nel lavoro di de-escalation?” Certo.

Lo confesso: comincio a non poterne più di libri – dev’essere quel fatto cui accennavo: leggere è qualcosa che riguarda il vivere, i progetti, e dunque il domani, la speranza – anche a suon di rabbia, di lotta, ma comunque.

Nel frattempo leggo come una forsennata, leggo che più non si può: trascorse le cosiddette feste, la giornata non è più carica di attività e il tempo per farlo si dilata – gli occhi bruciano, il sonno notturno non viene – e come potrebbe dopo un’intera giornata trascorsa distesa sul divano a leggere sonnecchiare leggere sonnecchiare leggere.

Leggere cosa? Lettura come fuga: da un sentimento di disfatta – e, incredibilmente, Le Benevoleoccupa ore notturne, ore in cui non vi è rischio di telefono, di parole che ti raggiungano, di quotidianità che ti richiedano. Di rumori. Di notizie.

È tempo di bilanci e di progetti: dovrei raccogliere pezzi sparsi, pagine lasciate al vento, libri dimenticati. Per farla breve: dovrei riordinare: libri, pensieri, progetti, vaghi ma insomma. Non sarà possibile iniziare un anno ragionato, un anno proficuo, nell’attuale confusione.

Sono giorni in cui ho addirittura pensato che dovrei cominciare a svuotare la mia biblioteca: non è cosa da lasciare ad altri, ecco tutto.

Facciamo che sono solo piccoli momenti-no. Chi mai ne è immune.

Questa libreria virtuale, con le sue chiacchiere, anche fuori di senno (ci può stare) continuerà la sua attività ma, ecco, anche il virtuale sta nel mondo e vi ha a che fare e non può, non deve, prescinderne.

È un impegno: domani (ma mi occorrerà, temo, qualche giorno, sono lenta nel fare le cose, mi lascio richiamare da troppi sentieri laterali nel percorso, da chiacchiere sparse, da pagine inattese che riemergono come fantasmi) rientrerò in carreggiata – la vita continua.

Solo un ricordo, per chiudere: una canzone, ormai dimenticata. Che fa bene a me, e magari a qualcun altro. Una canzone, su di un come eravamo, per mescolare il fallimento con la speranza e l’allegria.

Oggi, occorre registrare una devastante sconfitta di quel pensiero che Giorgio Gaber metteva alla berlina: con grande affetto, con qualche nostalgia, il suo sorriso lo dice; e come potrebbe essere diversamente, non c’è generazione che non sia stata (anche) fiduciosamente sciocca a vent’anni.

Pure, se una giovane generazione sarà altrettanto sciocca potrebbe fare, a sua volta, qualche utile cavolata e riprendersi il mondo per i capelli.

Poi, non per dire, ma Gaber parla dei <maschietti> del tempo. Dei ventenni aspiranti maschi alfa. Al Bar Casablanca non pare ci fossero ragazze: a quel tempo i ragazzi, per lo più, se la giocavano tra di loro. O così credevano.

Poniamo la possibilità che vi sia ancora tempo, e speranza.

Buon Anno!