
Si tratta di un riflessione che vorrei continuare. (da qui)
Difficile orientarsi, difficile non smarrirsi, tra le voci che si rincorrono sul tema della crisi in cui versano le librerie: si tratta di voci sparse; tra intimi; molte, e tuttavia disconnesse, che non riescono, temo, ad interessare il <grande pubblico>.
Si chiedono interventi governativi e si ottengono: di breve respiro; come di breve respiro appaiono i commenti, tra plausi e critiche, espressi da rappresentanti dell’una o dell’altra categoria interessata. Non ho trovato voci di lettori.
Tutto pare ridursi, nella sostanza, a sconti si/sconti no. Sostanzialmente, il tema affrontato è economico: che non è poco, ma non è centrale. Diciamolo pure: se le librerie avessero una clientela, il problema non si porrebbe; se la clientela manca, la libreria chiuderà. Fine.
Le librerie chiudono, dunque: e non solo le librerie indipendenti; e nonostante il grande amore, la resistenza, di coloro che svolgono un’attività che, come negarlo, difficilmente può esser considerata una qualunque attività commerciale.
Sfido chiunque: se nella vita scegli di commerciare al dettaglio, aprirai una salumeria; una jeanseria, una pulloveria; aprirai un bar, o ti dedicherai ai latticini. Non aprirai una libreria. Pure se, oggi, qualsiasi commercio al dettaglio, qualsiasi attività commerciale di vicinato, costituisce molto più che un rischio: ed è strano che la crisi delle librerie non venga trattata <anche> nello stesso contesto.
Non potrebbe essere diversamente. È sparito, se non il vicinato in senso proprio, il concetto, con la realtà stessa di (relazioni di) vicinato. E dunque? Possiamo piangere, ma non è la soluzione. Diciamolo meglio: i negozianti piangono la chiusura dei loro negozi; il cliente, a dire il vero, non sembra lo faccia: tant’è vero che sceglie di non frequentarli.
Dispiace? A me sì. Anche per il fruttivendolo.
È un problema? Sì, e più serio di quanto si pensi. Non si tratta solo (si fa per dire) di posti di lavoro.
Temo tuttavia che la soluzione non sia accessibile, se non cambiando un intero modello di sviluppo delle nostre società – e se è vero che una Rivoluzione ci starebbe tutta, è altrettanto vero che, forse fortunatamente, non si farà.
Siamo di fronte ad un effetto-caduta generalizzato delle attività commerciali identitarie, di piccole-medie dimensioni, legate a un micro- territorio e alla relazione interpersonale con la propria clientela.
I piccoli negozi chiudono perché i clienti così hanno decretato. Perché le librerie dovrebbero costituire un’eccezione?
Perché sì: la risposta esce, irriflessa. Perché “il maneggio” del libro è altro dal commerciare in una qualunque altra area merceologica; perché per tale maneggio transita una relazione fondante la cultura di una comunità, perché la libreria è uno dei luoghi deputati a dar forma alla nostra relazione con il mondo e il suo pensiero.
La libreria è uno dei luoghi deputati al <fare cultura>, vale a dire al “fare” la specie umana, la cui natura è, per l’appunto, culturale.
I libri, gli oggetti-libro, si trovano, si possono leggere, anche senza le librerie. Ma non basta. Il libro è per eccellenza il luogo della relazione, dello scambio. Necessita di dialogo, per vivere e figliare.
Il percorso per entrare in possesso di un libro si costituisce anche come rito; e il libraio è (o dovremmo dire ne è stato?) il sacerdote che lo officia.
Eccessivo? No.
Eppure: vogliamo metterci una bestemmia? Facciamolo attraverso una domanda.
Quanto detto per le librerie, vale anche per i formaggi e i salumi?
Pur non disposta a trovare comparabili i due ambiti lo devo ammettere: la risposta è sì. Si tratta sempre del fatto che una transazione tra persone non è mai, e mai potrà essere, deprivata di un contenuto di relazione.
Aprire una libreria. In luogo di aprire un negozio di intimo. O il piccolo negozietto di frutta e verdura. C’è chi lo fa. Buttando il cuore oltre l’ostacolo. C’è anche chi “ce la fa”: va detto. Interessante. Da studiare.

Vediamo: siamo una nazione di vecchi – pensionati, dunque; che hanno il tempo (e i soldini) per andare in libreria (o dal salumaio). Anche i giovani disoccupati ne hanno il tempo, temo: ma non il contante. I libri costano e se l’andare in libreria non corrisponderà al compiere acquisti, oltre che a dialogare con il libraio, leggiucchiando qui e là e limitandosi a desiderare, quella piccola chiesa morirà.
A meno che. Si aprono praterie sconfinate, la cui geografia non conosco, ma che mi piacerebbe studiare.
Avevo scritto: Non so se potremo salvare le librerie. È indispensabile salvare i librai. I bibliotecari. E la lettura. Ne sono convinta: di questo si tratta.
È importante salvare, nella transazione, il contenuto di relazione. È forse giunto il tempo, per i librai, di operare specialmente nelle biblioteche (da costituire, incrementare, espandere); è giunto il tempo, per molti insegnanti, di leggere; è giunto il tempo che le scuole siano uno dei luoghi specialmente dedicati alla biblioteca e alle sue attività, dove dovrebbe esserci anche il bibliotecario/la bibliotecaria. Da ascoltare con attenzione in collegio docenti.
E le librerie? Si salveranno: quelle che il mercato richiede e la cui attività farà premio sulla domanda.
Il pensiero va alle librerie della mia vita. Alle librerie della mia giovinezza, della mia età di giovane adulta.
Erano poche; ed erano luoghi “severi” (almeno fintantoché il libraio non ti aveva inquadrato e presa in carico. Come un professore di scuola ma molto meglio: il libraio, te lo eri scelto tu; e lui pareva felice di prendersi cura di te. A quel tempo, la libreria era davvero il luogo di una élite: non di censo, pure se, diciamolo, un po’ anche sì. Non di principio ma nei fatti. E salvo eccezioni.
Ed era il solo, unico tramite, per raggiungere il libro. Il suo monopolio era assoluto – si salvava solo una piccola ma importante realtà: le edicole.
Un giorno – ed è stato un bel giorno – nelle edicole sono comparsi, a cadenza addirittura settimanale, o quindicinale, non ricordo, i preziosissimi Oscar Mondadori: prezzi da rivista settimanale, buoni autori, capolavori della letteratura internazionale.
Era una via già tracciata per una importante Casa Editrice: c’erano già (dal 1929!) i Gialli Mondadori; i primi anni cinquanta hanno visto, nelle edicole, apparire gli URANIA[i] . Sono seguiti Garzanti, Longanesi.
C’è sempre stata una comunità di lettori, forti, appassionati, che ha raggiunto il libro al di fuori delle librerie. Che non è mai stata a proprio agio in libreria. C’è sempre stato un pubblico, esteso, di lettori, i cui destini erano affidati alla distribuzione alternativa, alla passione con cui editori consapevoli e capaci curavano un pubblico da avvicinare e da legare a filo doppio alla lettura, facendosi carico di dar loro <buone> letture; popolari, avanguardie escluse, se vogliamo dire così, ma buone. Ottime.
Le librerie hanno infine accolto anche queste pubblicazioni, con una qualche degnazione. Solitamente, erano libri esposti all’esterno, o appena dentro la porta del negozio, nei nuovi contenitori girevoli dove si potevano prendere senza doversi rivolgere al libraio (che ancora incuteva un timore reverenziale).
Un bel giorno, si è avuta la rivoluzione delle Librerie Feltrinelli. C’è un libro, cui ho anche accennato in un vecchio post su questo tema (qui):
Romano Montroni, “Libraio per caso. Una vita tra autori e lettori”, Prefazione di Michele Serra, Marsilio 2009
Vi si racconta la nascita delle librerie Feltrinelli nel modello che conosciamo: libri esposti su banchi, lettore autorizzato a prenderli in mano, scegliere, guardare, riporre. Oggi pare normale.
Un successo, cui ogni libreria si è dovuta adeguare. Finiti i tempi in cui si entrava in un luogo sacro dalle pareti cariche di libri; dove ci si rivolgeva al libraio che, a nostra richiesta, prendeva religiosamente tra le mani un libro, di cui lui e solo lui conosceva la collocazione sugli scaffali; si chiedeva quel libro o, se si era un cliente accreditato, perché no, un consiglio. Ci si informava sulle novità: di valore, naturalmente.
È stato anche il tempo in cui i clienti, divenuti, si fa per dire, massa autorizzata al “fai da te” in chiesa (non più identificati, noti, conosciutissimi) hanno cominciato a rubacchiare libri – difficile non ricordare Terry Pratchett che si vantava di essere l‘autore i cui libri erano maggiormente rubati nelle biblioteche.
La libreria è diventata – è stato bello, davvero bello – un luogo “democratico”, cui chiunque, finalmente, poteva accedere. Le vendite, al tempo, si sono impennate. È stato l’inizio, incompreso, della crisi?
La libreria – oggi mi pare, non so – ha intrapreso allora un percorso che avrebbe dovuto, forse, portarla a completare un cambiamento: che non so immaginare. Dopotutto appartengo a quel tempo.
La libreria è rimasta un luogo, più anonimo (diciamo democratico) ma, comunque, di élite – non mi vergogno di farne parte, si tratta di una buona, sana, élite – e la “rivoluzione Feltrinelli”, forse, non si è completata.
Per altro verso, mentre stanno chiudendo (e dico ancora mi dispiace, moltissimo: sono il mio ultimo, vero, negozio di vicinato), le edicole, la narrativa “di loro competenza” è scaduta a livelli infimi – a parte qualche libro che rimane, solo, sbandato, incerto su cosa fare in quel luogo, a disposizione di un target di lettori indefinito.
Qualcosa di buono viene allegato ai giornali: ma chi li compera più i quotidiani? E l’edicolante stesso, molto spesso, ti dice: guardi che non è obbligata a comperare anche il libro; oppure ti dice: guardi che non è obbligata a comperare anche il giornale, posso darle solo il libro dato che la maggioranza dei clienti non lo vuole.
Io non so, salvo sapere bene che voglio, vive e vitali, le librerie (e pure le edicole), cosa dovrebbero fare per vivere. Non lo so proprio.
So che, forse, solo forse, dovrebbero smetterla di dare la colpa a un destino cinico e baro, ai poteri forti e quant’altro.
Le librerie hanno sempre respinto “il lettore non accreditato” (che, tra l’altro, non sempre è il migliore). Sono sempre state “una chiesa”, la sola di cui mi riconosco fedele ma, come accade, sempre meno frequentante.
Chissà se anche i sacerdoti danno la colpa ad Amazon per le chiese vuote.
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[i] Se interessa, qui c’è un buon articolo che ne fa la storia.