Ormai quasi due anni fa, avevo scritto qualcosa sull’andare in libreria, provando a riflettere sulla quantità e qualità del lettori italiani, sul diffondersi degli e-book e degli acquisti online dei libri, anche cartacei (che sono e restano “I LIBRI” ma che non necessariamente costituiranno, in futuro, lo strumento per fruirne). È bene, è male, possiamo discuterne ma è così.
Le caratteristiche della nostra editoria, il costo unitario dei libri, le vendite scarse, la distribuzione malfunzionante, la presenza maldistribuita di librerie: sono tutte variabili che concorrono a fare del libro quello strano bene di prima necessità che si comporta come un bene di lusso, superfluo al di fuori di confini molto precisi: la scuola, gli studi in genere, la documentazione di lavoro per chi ne dipende e, all’altro estremo, un oggetto da diporto per occupare un qualche tipo di tempo libero. Il che va benissimo. Ma non basta.
Troppi temi, lo so, e tuttavia talmente legati tra loro da costituire un groviglio inestricabile, come avviene quando un gomitolo ti si ingarbuglia e tu sai che non è ciò che sembra, sai che il gomitolo ha una sua natura lineare e che solo ritrovando il bandolo potrai trasformarlo in un bel maglioncino, mentre tutto fa sembrare che la natura del gomitolo sia quella di non avere né capo né coda, e finisci per strappare il filo, pur sapendo che, così, non ne uscirai mai.
Ogni volta che vado in libreria, ne esco sempre più avvilita, con poco, quasi nulla, tra le mani. Sempre più posso solo ordinare i libri che mi interessano e che la libreria non tiene (hanno più di due anni! dicono) – e perché mai dovrei accettare l’offerta della libreria di ordinarli per me, quando è più agile farlo dal mio computer, risparmiandoci pure e facendomeli portare comodamente a casa?
Non trovo il bandolo, non trovo cosa c’era di diverso, ormai tanto tempo fa, che mi faceva trascorrere il tempo libero in libreria, un tempo da vivere come una festa, dove toccare, odorare, leggiucchiare, conversare, scegliere, rinunciare, riporre e riprendere. Dove mi sentivo accolta e al sicuro, dove neppure era necessario parlare per essere a casa e dove c’erano tesori nascosti da stanare.
Da tempo, entro in libreria, ho un moto di piacere, eccomi qui, nella grotta di Ali Baba, cui subentra, quasi immediatamente, il disorientamento. E forse è colpa mia. Non so come sia avvenuto, non ho più una libreria di riferimento, non ho una “mia” libreria, dove essere di casa.
Eppure: certo che lo so. Ma si tratta del bandolo del gomitolo, appunto. Prima, ha chiuso una libreria dov’ero di casa; per la verità, avevo già cominciato a non esserlo più, in quel luogo, c’era stata una ristrutturazione, nuove scaffalature, resa più funzionale la disposizione dei libri, diceva il librario; no, dicevo io, sono diminuiti i libri; no, diceva lui, pare a lei, le assicuro; poi la libreria si è trasferita, ha resistito un certo numero di anni ma era cambiata, poi ha chiuso.
Poi, un’altra libreria chiusa, poi un’altra e, in effetti, erano bei luoghi, di nascita recente, esperimenti, speranze che non hanno retto. Poi ha chiuso una libreria storica; non era fornitissima, forse, ma aveva un libraio competente e accogliente. Chiuso.
Nel frattempo sono nate le grandi librerie megagalattiche. Interessanti, fornite, fanno anche lo sconto (certo, meno di quello che si ottiene online, ma in cambio c’è che si va in libreria, vuoi mettere).
Splendida. Avevo trovato casa. Ora non so, hanno semplicemente cambiato – ancora! – l’organizzazione degli scaffali, c’è troppa roba tutta ammucchiata, i commessi non hanno tempo, se ce l’hanno, non è previsto che lo usino per occuparsi del cliente, salvo l’informazione breve, la ricerca di un libro al computer; non a scambiare informazioni, consigli, pareri. Perché no, due chiacchiere sui libri.
Sapete che c‘è, lo so che è una cosa sciocca, so che posso far da sola; ma mi piaceva quando, chiedendo al libraio un certo libro, mi rispondeva sì, certo, oppure no, mi spiace, arriverà il tal giorno, ma se ti interessa ho quest’altro libro che devi proprio leggere. Lui/lei ti conosceva, avevi la sua attenzione, sapeva i tuoi bisogni; sapeva anche sconsigliarti un libro, dirti no, non fa per te.
Cerco il bandolo. Mi torna alla mente lo stupore con cui, trovandomi a Sirmione ho scoperto che non esisteva, in quel luogo, alcuna libreria. Il paese, pur bellissimo, è piccolo: ho comunque chiesto ad un vigile. La può trovare a Desenzano, mi è stato risposto gentilmente.
Allibita, mi rendo conto che, in effetti, come potevo pensare che un paese di qualche migliaio di abitanti potesse avere un libreria? Poi penso, ma vedi, in Italia ci sono un po’ più di ottomila comuni, la maggioranza dei quali è piccola o piccolissima.
«Su 8025 comuni (…), ben 7362 (il 92%) sono inferiori ai 15.000 abitanti» (ISTAT 2011): ergo, quasi nessuna libreria.

Ci sono le biblioteche. Mi dico.
Su 13.457 biblioteche censite in Italia nel 2014, solo 6.310 sono biblioteche comunali, da cui, a spanne, si può dedurre che siano biblioteche di facile accesso e che abbiano quale funzione prevalente il favorire la lettura, il prestito[i].
Senza voler dedicarci alla statistica, tenendo presente come le grandi città facciano la parte del leone – Milano, da sola, e limitatamente alle biblioteche comunali di quartiere, ne conta 25 (poche!) più un servizio di bibliobus – il quadro è chiaro. (E naturalmente, qui si parla di libri; evitiamo anche solo di pensare a cose tipo sale cinematografiche, non sia mai teatri e auditorium).
Mi trovavo a Mantova e ho acquistato qualche libro, tra cui «Libraio per caso», di Romano Montroni, con introduzione di Michele Serra, editore Marsilio 2009. Non lo conoscevo, mi ha incuriosito in quanto, per chi non ne conoscesse il nome, Romano Montroni, bolognese, classe 1939, è stato lo storico direttore della Libreria Feltrinelli di Bologna, dal 1963 al 2005; colui che ha accompagnato quella che è stata – e chi ha una certa età lo sa bene – la creazione di un modello di libreria che in seguito è divenuto lo standard ma che ha visto passare, e per alcuni versi ha fatto, tra gli scaffali, la storia di uno dei momenti più alti per la lettura in Italia.

Oggi, Romano Montroni insegna ancora alla Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri di Milano e al Master di Editoria di Umberto Eco a Bologna. Grandi scuole, che fanno un lavoro prezioso, mentre i librai che ne escono si troveranno costretti, in seguito, o a chiudere la propria attività indipendente o a lavorare come commessi impossibilitati ad esercitare, sul luogo di lavoro, la propria competenza. Perché è così, i «commessi delle librerie» – e il virgolettato vuole essere un indicatore di assurdo – sono in realtà quasi sempre o almeno molto spesso ottimi librai che amerebbero, immagino, potersi impegnare nel loro lavoro ma che non possono farlo. Spero sia solo una mia idea, un pessimismo improprio, e se qualcuno mi mostrerà che mi sbaglio, essendo astemia, mi darò a brindare.
Vogliamo parlare, ancora, dell’editoria italiana? Brevissimo, un dato: la tiratura media di un libro pubblicato in Italia è di «1.691 copie per i piccoli editori, 4.373 copie per i grandi editori» e solo il 3,8% delle opere italiane hanno venduto diritti all’estero[i]. Ma gli editori danno la colpa alla scuola, ignorando che il picco di lettori si ha nei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni.
Ultimo dato. Cito ancora dal blog nuovoeutile.it: «Le opere, prevalentemente di narrativa moderna, di cui gli editori italiani hanno acquistato i diritti all’estero nel 2011 hanno venduto 50 milioni di copie. Le politiche editoriali sembrano continuare a puntare sulle novità, (si pensi agli instant book), sulla ricerca più del best seller che del long seller e sul serrato turnover dei libri nelle librerie. (…) perché si cerca sempre il colpaccio, magari col titolo straniero modaiolo, e non si lavora di più sui longseller? Quella attuale non è per caso una strategia di breve respiro?»
[i] Vedi: http://anagrafe.iccu.sbn.it/opencms/opencms/statistiche/
[i] Vedi: http://nuovoeutile.it/domande-agli-editori-italiani/