
È giunto il tempo, per me, quello giusto, spero, per vivere pagine lontane, lasciate molte vite fa, senza che mai mi avessero lasciato. Non so se ne sarò capace. Né se potrò, riuscirò a, condividerne qualcosa.
Jack Kerouac: Jean-Louis Kerouac, 1922 – 1969, considerato <il> fondatore del movimento beat (e verrebbe da aggiungere, al solito: “qualsiasi cosa ciò significhi”) è stato, in realtà, e a suo modo, un outsider nel <mondo> che ha creato – come avesse dato il via a qualcosa e, nello stesso tempo, se ne fosse distanziato; è stato seguito da un mondo che, anche sulle sue orme, si andava facendo, mentre è parso non aver mai chiesto ad alcuno di seguirlo.
Riprendo, qui, un tema di cui avevo già scritto (poco, qualcosa); e un autore solo sfiorato (qui e qui).
Vi è sempre stato uno scarto tra lui e i suoi compagni di strada. Battitore libero, a tratti si è trovato a lato, altrove, rispetto all’appartenenza che gli veniva assegnata, o meglio rispetto a compagni di strada che, con lui, hanno creato qualcosa di mai prima veduto: arduo dire cosa, e incasellare quel movimento, e la strada che ha aperto nel mondo delle arti – nella musica, nella pittura, in letteratura, nella poesia, così come nel costume, nella cultura – nella politica, nell’impegno per i diritti civili, nella concezione del vivere comune e delle sue regole – proponendo una pacifica rivoluzione: concettuale? Attraverso una nuova filosofia? Una fenomenologia e un’antropologia: un vivere, convivere, condividere e un metodo per farlo? In un presente perenne, non effimero e, insieme, inafferrabile.
Ha pensato quel mondo Jack Kerouac? Lo ha indirizzato? Non credo; se non per sé, trascinando chi entrava in relazione con lui e, quasi immediatamente, scartando: in avanti, di lato, per andarsene altrove.
E anche sì, lo ha fatto, nella sua ricerca sul buddismo, nel suo ricostruirne e adeguarne le indicazioni per la vita, e le norme, al proprio mondo, innanzitutto cristiano e cattolico. Sempre a suo modo; per sé.
Un anomalo <caposcuola>. Sto parlando del <mio> Kerouac, naturalmente; e non saprei davvero dire se ciò che sento, e tanto più ciò che scrivo, trovandomi a fronteggiare le sue pagine e la sua vita, possa essere condiviso. Se non per il solo fatto in sé, fattuale nel suo esserci, nella forma di un’emozione che dice questo.
Da una vita non rileggo “Sulla strada” e, per la verità, riproponendomi sempre di farlo, in memoria di un antico amore intenso e disturbante, oggi lo ripenso, talvolta, temendo il rinnovarne l’incontro.
Ho atteso il momento: e forse è questo, il tempo fermo di questi giorni, opposto, in effetti, a quel tempo quando un tempo fermo era l’eternità della prima giovinezza, quando ognuno è un dio, immortale: persino nella morte.
Difficile seguire la storia di vita dell’uomo Jack Kerouac, decrittare il legame tra questa e i suoi scritti nella loro assoluta, immediata caratterizzazione esperienziale. La sua opera contiene, senza infingimenti, e in senso fattuale, tutta la sua vita.
Non io ma un qualsivoglia suo biografo comporrebbe, temo, solo un’anamnesi (in senso medico, non platonico) – di profondo interesse, se vogliamo, unicamente per mostrare come ogni <ricostruzione> di una vita e di una storia personale attraverso i <fatti>, e le esperienze, che l’hanno caratterizzata costituisca una distorsione, frutto di una ricercata <normalizzazione> di sé su di sé (autobiografia) o di sé attraverso una vita altrui (biografia).
Finiremmo, nel caso di Kerouac (ma non solo) per porre a cardine ad esempio la diagnosi, di area psichiatrica, che giustificò il suo congedo dalla leva militare in marina, nel 1943, con un valutazione che, senza arrivare ad attribuirgli una condizione conclamata di malattia mentale, ne ritenne tuttavia la personalità, cui fu appicciata l’etichetta di “schizoide”, quantomeno inadatta al compito della guerra: non male!
Kerouac, almeno questo gli deve venir riconosciuto, ha ottenuto l’evitamento di questa fallacia interpretativa; ha ottenuto che le sue pagine e la sua vita debbano venir riconosciute come consustanziali: come una sola, unica, opera d’arte.
Abbiamo suoi diari: “Un mondo battuto dal vento: I diari di Jack Kerouac 1947-1954”. Mondadori 2007. Traduzione di Sara Villa. Non ho ancora osato leggerlo. Non riesco a liberarmi (non desiderabile!) da una sensazione di !PERICOLO! nell’aprire le pagine di quest’uomo; dalla sensazione che, dopo averlo fatto, e al di là di quanto di noi può apparire, non saremo più gli stessi.
Potrebbe essere questo il tempo giusto: come dire, il tempo mio e quello in cui stiamo vivendo.
Cattolico-buddista, alcolista, dedito all’uso di droghe, hobo la cui unica forma è stata la scrittura, a lungo senza editore, fu uomo incredibilmente incapace di reggere una qualsivoglia relazione stabile, potremmo dire con gli altri e con se stesso – banale dirlo ma come si sposano la sua vita, le sue scelte di libertà, la sua filosofia, con l’adesione al partito Repubblicano e l’approvazione della guerra del Vietnam? Come si sposano con il fatto che fosse capace di grande amicizia di breve momento ricevendone in cambio amicizia e aiuto perenni, tali per cui mai fu abbandonato dagli amici che abbandonava, e a cui ritornava, per poi ri-andarsene a sperimentare altre relazioni senza una meta che non fosse del momento: tenendo sempre la barra dritta a quella meta; senza soldi, chino comunque sui propri taccuini, sul conteggio delle parole scritte, ogni giorno, e sul proprio pensiero. Sempre, senza cedimenti, senza tentennamenti.
La pubblicazione di “Sulla strada” ne consacrò la scrittura – era il 1957. Da allora seguirono le pubblicazioni – romanzi, poesie, racconti – che tuttavia, a esclusione del suo <capolavoro> (quasi la sua sola opera a venir ricordata, pare a me) e del bellissimo “I vagabondi del Dharma”, che ne è considerata un seguito, collezionarono stroncature; mentre lui si disfaceva, mentre gli amici continuavano a non mancare nel soccorrerlo. Inutilmente? Non proprio: Jack Kerouac ha continuato a scrivere.
Mi trovo a fronteggiare uno strano, osceno interrogativo: soccorrevano lui o la sua scrittura? E ancora: saranno distinguibili? O non dovremmo dire che egli ha riversato l’una nell’altra – la sua scrittura e la sua vita – facendone un inestricabile sintesi: un capolavoro.
Occorrerebbe dunque dire che la sua vita è stata un’opera d’arte. Paradossale, certamente, ma il paradosso, dopotutto, non è, univocamente, la risultante di un sofisma. È anche una porta, tra le più accattivanti, di accesso alla comprensione (a <una> comprensione) di un mondo.
Riesce difficile eppure, da qualche parte, ci dev’essere qualcosa che sfugge al senso comune, a quella cosa che ci consente di vivere gli uni con gli altri; di avere, certo, regole molto personali che ognuno di noi fa sue, ponendole tuttavia dentro una cornice di regole condivise: a proposito di ciò che vorremmo per noi, per la nostra vita; e a proposito di ciò che significa una vita riuscita.
La poesia di jack Kerouac. E certo, ogni libro chiede di essere categorizzato, ma forse è poesia la sua intera produzione, quella che ha posto sotto questa voce, e quella che ha posto sotto altre voci.
Non sono in grado di accedere alla sua scrittura originale. Mi consolo pensando come, dopotutto, ogni lettore scriva, per sé, l’opera che legge – e a proposito di paradossi, che dire di qualcuno che ha scritto, e concettualizzato, la forma <haiku americani>? Per non dire di un buddismo che ha potuto disegnare, rivisitare una forma di cattolicesimo?
Tutto giusto, direi. Perché (l’impossibile) negare il mondo cui apparteniamo? Perché dovrebbe essere inattingibile, al mondo di ognuno, una forma appartenente a un diverso tempo, a una diversa cultura, a un’altra lingua – forme, tutte, del comunicare?
Haiku americani – e certo. Il solo modo di accogliere in sé, esprimere nella propria lingua, la (intraducibile) poesia, facendola propria e restituendo, rinata, altro da, la medesima <cosa>.
Un assaggio – e la scelta appartiene a quest’ora; domani sceglierei diversamente; mentre so di aver escluso alcuni haiku che sono, per me, dei <preferiti>; che appartengono alla, e fanno risuonare la, mia storia di vita: al punto di non poterli condividere. Miei.
IL LIBRO DEGLI HAIKU
Ragazza con furgone –
cosa
Posso saperne io?
Nessun telegramma oggi
-Soltanto
Altre foglie che cadono
Arrivano da ovest,
coprono la luna,
Le nubi – non un suono
Vino all’alba
– Il lungo
Torpore piovoso
Dopo la doccia
Fra le rose inzuppate,
Scompiglio d’uccelli bagnati
Quando la luna sarà scesa
oltre il cavo elettrico
Tornerò a casa
Uccelli si dirigono a Nord –
Dove sono gli scoiattoli? –
Quell’aereo va a Boston
DHARMA POPS
Occorrerebbe entrare dentro i motivi per cui Kerouac, in questo libro, ha raggruppato suoi haiku sotto questo titolo. O sotto altri titoli.
“Il libro del Dharma”. Scritti di qualunque forma intorno al Dharma: “Tutto avviene nel tempo presente”. Ecco, forse, la spiegazione, ammesso che una parola balorda come <spiegazione> possa trovare cittadinanza nei luoghi-tempi di Jack Kerouac.
Sprofondato nella seggiola
Ho deciso di dare all’haiku
Il nome di Pop
Il tutto, particolarmente adatto a questi nostri giorni sospesi. Forse solo per me.