Tempo difficile, questo, per la lettura. Salvo improvvisi innamoramenti, come il mio ultimo, ancora in corso, per Ted Chiang, di cui avrei desiderio di continuare a parlare dopo aver chiuso le due raccolte di racconti, ho accumulato letture diverse, passatempo tra un libro e l’altro, svogliate, non tutte soddisfacenti pure se, in qualche caso, pure gradevoli.
C’è bisogno di un riordino – degli scaffali, del pensiero; bisogno di avviare una nuova, diversa stagione di letture per questo tempo bastardo, che resterà incerto, che non si sa.
È tempo (anche) di cambio armadi, un tempo segnato da incertezza, in questa primavera anomala; un tempo in cui si buttano all’aria libri e capi di vestiario, incerti su cosa tenere, cosa lasciare (e riporre dove? Eliminare? Come? Mai. Che pure – eliminare, dico – anche per i libri, sarebbe talvolta cosa buona.
Non ci sono, in casa, cose ignote, né tra i miei libri né nel guardaroba – dimenticati, inutili, certo sì. E non so, in effetti, se la lettura conosca le mezze stagioni; se chieda cambi stagione.
In queste settimane, ormai mesi, si è creato tuttavia un caos di libri sparsi, letture incoerenti, ed ecco che sì, c’è sicuramente un riordino armadi, diciamo così, da compiere, cominciando da un riepilogo delle cose lette e da una valutazione d’uso: questo sì, questo sì, questo no. Ben sapendo che, alla fine, non si butterà niente. Ma ci si sarà liberati da qualche zavorra, anche solo elencandola e ponendola in disparte, in uno scatolone a sé.
Così, mi sono riletta anche un paio di Agatha Christie, tra cui (nuovo e-book) una storia, “La domatrice”, con il mio amato Poirot che, incredibilmente, non avevo mai letto.
Si è rivelata una storia gradevole per levità, per elementi che nulla hanno a che fare l’intreccio, con l’investigazione ma invece con gustose note d’ambiente, rilievi sul carattere dei personaggi da cui emergono il tempo e il pensiero dell’autrice, di quella signora serenamente misogina, un po’ razzista e segnata nel carattere da quel certo tocco di crudeltà: figlia del suo tempo ma, se vogliamo, un po’ di più.
Non so perché, il retropensiero della Christie, che emerge (involontario? Non saprei) mi ha sempre divertita. È qualcosa che motiva la mia rilettura e il godimento anche di storie già note, mentre non so decidere se gli attributi di personalità che assegno ad Agatha Christie siano davvero tali o non appartengano, oltre che, per l’appunto, alla cultura del tempo, unicamente a una intelligenza disincantata sui propri simili (e sulle proprie simili).
Ma anche sì: e se il suo Hercule Poirot è un personaggio delizioso, libero dai pregiudizi della sua autrice (come è possibile?) la <vera> natura della Christie si rivela tutta nel personaggio di quell’acida Miss Marple su cui, lo ammetto, riverso l’antipatia che non provo per la sua mamma letteraria.
Ho riletto un romanzo di Guillaume Musso, “L’uomo che credeva di non avere più tempo”, un romanzo che mi aveva lasciata scontenta senza che io sia riuscita a comprenderne il perché. Buona scrittura, buona storia, se piace, ma ecco, forse si tratta proprio, e semplicemente, di una storia che non mi è piaciuta. Riletto: volevo capire se avrei modificato il mio giudizio; ero di fronte al fatto che, in effetti, neppure ricordavo, non davvero, la storia: ne avevo cancellato dalla memoria proprio l’inattesa chiusura e – ecco, direi che si tratta di una storia che non mi è piaciuta a tal punto da non poter dirne nulla.
L’autore: giovane, ha scritto molto, vende, la critica lo riconosce. Dovrò dargli un’altra possibilità? Sicuramente non ora.
E poi cosa? Ah sì: un passaggio nella narrativa per l’infanzia con Roald Dahl – “Gli sporcelli”, “Matilda”, che ho trovato francamente illeggibili (nell’ipotesi di proporli ai nipoti), rimanendo come sempre perplessa da questo autore che scrive cose piacevolissime come “Il GGG”, o una bella storia come “La fabbrica di cioccolato” (che tuttavia, libro e film, ho sempre trovato cattiva; e non ho mai proposto ai nipoti).
Ancora: un fantasy, “L’orso e l’usignolo” (un altro, a dire il vero, dopo “Cuore Oscuro” di Naomi Novik), di Katherine Arden, primo libro di una serie che, non so, ancora folklore russo che ha sempre un suo fascino ma no, non mi ha catturata, e per la verità, anche solo come libro di intrattenimento non mi ha condotta al desiderio di leggerne il seguito (si tratta di una trilogia, “La notte dell’inverno”). Forse si tratta di un libro letto al momento sbagliato, dove tuttavia mi pare di aver trovato un <uso> di quel folklore senza che i personaggi vi appartengano veramente.
Potrei, tuttavia, essere ingiusta. Vivo un momento in cui il mio umore è, a dir poco, acido – e come non averlo. Ed ecco cosa: finirà, come per il cambio armadi, e come sempre, che non butterò niente. Nel frattempo, zitta e buona, in casa, a leggere – non ci fosse chi sta male, molto male, e un mondo alla malora dovrei farci la firma su di una vita così. E poi no, cosa dico, meglio che mi ripeta: i libri non esistono senza la gente; ed esistono nel modo in cui la gente vive. I libri vivono un tempo, incrociano il tuo tempo e chiedono di esservi raccordati.
Lettura-passatempo, anche buona, certo, e bene la Christie, tra un libro e l’altro, bene tante cose ma: fatico, di volta in volta, a trovare <Il Libro>, i libri giusti, quelli che ti aiutano a starci, dentro il tempo in cui vivi; e nel tempo, personale, che vivi; libri che entrino in risonanza – con un tempo che, al meglio, non c’è e, nel vero, c’è eccome.
Lo avevo persino scritto che “i libri, senza la gente, la città, senza altri in carne e ossa, come dire, paiono sbiadire!” E che “I libri sono il mondo: a patto che il mondo ci sia”. E che il mondo “chiede di essere toccato, annusato, veduto. Di essere goduto e di essere qualcosa contro cui inveire”.
Il problema è il tempo, che scandisce, orchestra, il movimento del mondo e delle nostre vite, definendone la tonalità, il contrappunto e il fondersi delle melodie; le consonanze e le dissonanze; e il rumore, certo, anche il rumore, che viene integrato nella partitura – e lo so bene che mi spiego male, che non riesco a chiarire, neppure a me stessa, un pensiero che, se non trova le parole giuste, non può essere.
Ma questo tempo, in cui anche il libro vive, opera, sta frantumando il senso che è chiamato a costruire. E occorrerà avere tra le mani, ogni giorno, il libro giusto per un tempo sbagliato; dove stare, danzando su di un’orchestrazione che si scompone in rumore, che è pausa impropria, frattura.
Il libro giusto non potrà essere – parlo per me – il “romanzo”, una storia, di vite individuali. Manca lo scenario – fisso, un fondale, un ieri oggi domani coerenti – su cui proiettarlo. Ed ecco il disturbo della storia di vita, di relazione, di un impianto psicologico che – dove lo colloco?
Ed ecco la dissonanza del saggio storico (avevo anche ripreso parti di “Il secolo breve”, di Eric Hobsbawm); sbaglierò eppure mi pare che nulla, davvero nulla, abbia più oggi a che fare con quella storia; mi pare che sia stato oltrepassato un punto di non ritorno a partire dal quale tutto dovrà essere ripensato e tutti vi staremo dentro confusi, senza possibilità di comprendere, un prima, un dopo, dei legami.
Il libro giusto. L’ho, forse, trovato, o meglio, ho forse trovato un percorso, improprio, incompetente, ma che fare, basta, al momento, un punto d’appoggio del pensiero, fragile, inutile, ma insomma, che consenta di stare qui, ancora un po’, fino al tempo, spero vicino, in cui potremmo fingere di esser tornati al nostro giusto tempo, prendercela con il politico di turno che non è intelligente come noi e illuderci, piccole mosche cocchiere, di un fare, di una risposta che magicamente risolva i nostri bisogni nei nostri desideri.
Ancora una rilettura, ancora una fuga nella favola (che quando mai la favola consente la fuga!). Due riletture in effetti.
Neil Gaiman, “Stardust”, Mondadori 2005, che avevo letto, al tempo, senza far molto caso ai richiami; al mito di Lilith, ai (alle, in questo caso) Lilim; e come ci sono finita, da lì, a riprendere “L’epopea di Gilgameš”, a cura di N.K. Sandars, Adelphi 1986?
Occorreranno passaggi ad altri libri, alla Bibbia, ai miti ebraici, e non so se potrò raccontare qualcosa di questo momento di possessione; probabilmente, anzi certamente, no. Diciamo, tanto per non smentirmi, che – solo forse – proporrò, ancora una volta, Gaiman.
Andarmene, per qualche ora, e anche un po’ di più, a Fairie, non può che farmi bene. A Fairie, che “è più grande dell’Inghilterra, perché è più grande del mondo intero (poiché, sin dall’inizio dei tempi, ogni terra esclusa dalla mappa da parte degli esploratori e degli impavidi che vi si inoltravano per dimostrarne l’inesistenza, ha successivamente ottenuto asilo a Fairie (…dove…) esistono veramente i Draghi. E grifoni, dragoni alati a due zampe, ippogrifi, basilischi, idre, oltre a ogni sorta di animale conosciuto: gatti affettuosi, cani d’animo nobile e codardo, lupi e volpi, aquile e orsi.”
Vero è che, talvolta, dicono, non se ne ritorna. Credo tuttavia che nessuno se ne accorgerebbe (di non essere ritornato) e dunque, nessun rischio.
Sono a questo quando – i libri rispondono sempre! È così! – ecco una risposta. Un’altra. Un altro libro. Un’altra dimensione del tempo. Potranno intrecciarsi?
Jack Kerouac, Il libro degli Haiku, Mondadori 2010.