“Amico mio, mi sembri scosso…

Esergo:

“A Ted Newman, che mi ha fatto capire che non capivo la meccanica quantistica”

Si tratta di un esergo che merita una risposta, del tipo: “E figurati io! Ma acquisterò i tuoi libri e mi sforzerò pure di capirci qualcosa”

Perché sta tutto qui: nel fatto che tra il non capire qualcosa e il capire <tutto> (che solitamente equivale al non aver capito alcunché) c’è lo sperimentare un’intuizione e trovare tutto ciò gradevole, perché lo è; sospettare la via di accesso ad un sentiero che potrebbe portare a…forse nessuna destinazione in particolare ma sicuramente a bei luoghi, da cui potrebbero diramarsi strade nuove e belle avventure. C’è il comprendere che qualcuno ha trovato, ipotizzato, sperimentato con buoni risultati qualcosa a proposito di un certo ambito, in risposta a una certa domanda che, sicuramente mal formulata, anche tu, come tutti, ti eri posto; e che sta lì, in attesa. È un prurito, è qualcosa di più di una domanda, qualcosa di diverso, e non a proposito dell’elettrone, non proprio; è qualcosa che domanda di noi, in merito a cosa ci facciamo dentro una realtà che non si sa cosa sia; e dunque che domanda potrà essere? Tipo: se questa realtà (là fuori, noi là fuori, noi e basta) abbia un luogo, un prima o un dopo, e se…; c’è il sapere, o almeno lo sperare, che quel qualcosa possa esserci utile anche solo a formulare bene la domanda; il che è, di per sé, una grande conquista. Anzi: a ben guardare, sta proprio tutto lì.

Confusione? Certo! Bellissima! Un mio antico professore – antico perché non è più tra noi e perché, anche per me, da quei tempi, sono trascorsi eoni – ci diceva che <studiare/aver studiato> qualcosa equivaleva, dato quel qualcosa, a:

  1. Averlo compreso;
  2. Ricordarlo;
  3. Saperlo restituire a nostra volta, con parole nostre.

A suo giudizio, qualora il punto tre non fosse stato raggiunto, era corretto dedurre che, sicuramente il punto due, ma soprattutto il punto uno, non erano stati veramente acquisiti.

E qui, stante il desiderio di proporre/suggerire la lettura del libro di Carlo Rovelli (di questo come dei precedenti) dovrei fermarmi e rinunciare. C’è solo che non desidero rinunciare, ecco tutto.

Sto leggendo questo libro da un bel po’ di tempo. Me lo sto centellinando; prendo appunti; sottolineo (sull’e-book, il libro resterà pulito e intonso, per ora). Sto rileggendo l’ultimo capitolo, per esser certa, si fa per dire, di aver compreso; e per fare un tentativo, scarsamente fruttuoso, di avvicinarmi al mai raggiungibile poterne parlare.

Inizio a scrivere qualcosa, per fissare qualche tessera del rompicapo; per verificare se, metti caso, ciò che ho letto non stia agendo, come un “buon veleno” sulle mie sinapsi, aumentandone la plasticità, operando in favore di una loro ristrutturazione, a favore dell’adattamento a un nuovo modo di sentire – la vita, le cose, il mio essere in un qui ed ora in un qualche modo e non in un altro –  in forza di un’esperienza quale questa lettura.

Nel buio, qua e là appare/scompare una lucina. Niente di più.

“Siamo a questo punto con i quanti. Dopo un secolo di strepitosi risultati, dopo averci regalato la tecnologia contemporanea e la base per tutta la fisica del Novecento, a guardarla bene la teoria di maggior successo della scienza ci riempie di stupore, confusione, incredulità”

Werner Heisenberg. Estate del 1925. Isola di Helgoland. E lasciamo pure stare il tema dell’isola sacra nel Mare del Nord. Piedi per terra. Il ragazzo, ventitré anni, stava a farsi una vacanza, magari di lavoro, certo, in un posto dove stare in pace e riflettere.

Eerner Karl Heisemberg, Premio Nobel per la Fisica 1932

C’era questa cosa; c’era che nel mondo dell’infinitamente piccolo le cose non sembravano stare come (ci appaiono) nel mondo che conosciamo – per come i nostri sensi ce lo confermano, in modo condiviso e inequivocabile, per come anche le leggi fisiche note e accreditate ce lo confermano; come in un mondo dove esistono oggetti che stanno in un luogo e in un tempo dati, consentendoci di conoscerli e di manipolarli in funzione dei nostri bisogni-desideri.

Perché <le cose>, per come stanno, per come le conosciamo, non sono solo, che so, un tavolo, una sedia, la nostra automobile, sono il figlio e la figlia, sono la felicità e il buonumore; e sì, anche la rabbia e l‘odio e ogni sentimento; e sì, anche l‘amore, e la persona amata: sono la bellezza dell’attimo, che deve stare là, deve <esserci>.

C’è tutto, nelle <cose> del mondo. E le leggi della fisica non ce le possono rubare, non possono chiederci di ripensare tutto e…non è facile, sapete, anche se ci pare che quel che combinano quei signori (chiusi nei loro laboratori a giocare con formule astruse che ci si capiscono solo loro, e poi neppure del tutto) niente abbiano a che fare con noi che viviamo nel mondo certo, sicuro, dove <le cose>, gli <oggetti> hanno un tempo e un luogo e <appartengono>, non so come dirlo. Il terreno cede sotto sotto i nostri piedi.

Se andiamo a vedere come sono fatti questi <oggetti> guardando l’infinitamente piccolo, dopo aver creduto che, certo, erano fatti di particelle che stanno, materialmente, nello spazio in un momento dato, eccoci a trovare la loro assenza. Che non è un <vuoto>, dove ci verrebbe istintivo metterci dentro qualcosa – perché siamo, tutti, sempre, inesorabilmente vittime di una condivisa forma di horror vacui.

“L’abisso di quello che non sappiamo è sempre magnetico e vertiginoso. Ma prendere sul serio la meccanica quantistica… ci chiede di rinunciare, in un modo o nell’altro, a qualcosa di quanto ci sembrava solido e inattaccabile nella nostra comprensione del mondo. Ci chiede di accettare che la realtà sia profondamente diversa da quanto immaginavamo. Di tuffare lo sguardo in quell’abisso, senza temere di sprofondare nell’insondabile”

Heisenberg, nella solitudine di Helgoland, prova a riformulare il problema. E ha un’idea.

“Un’idea che si può avere solo nel radicalismo senza limiti dei vent’anni. L’idea destinata a sconvolgere l’intera fisica, l’intera scienza, la nostra intera concezione del mondo. L’idea che l’umanità, credo, non ha ancora digerito.”

Eccola: non capiamo perché mai gli elettroni (che sappiamo, riteniamo di sapere cosa sono) si comportano in un modo impossibile per le leggi conosciute del moto? Va bene. Teniamo ben ferme le leggi conosciute, e proviamo invece a supporre che l’elettrone non sia ciò che pensiamo. Meglio: tralasciamo di pensarlo come un oggetto che si muove secondo quelle leggi, e segue dunque un percorso coerente con le stesse. Meglio ancora: limitiamoci a considerare solo ciò che è <osservabile>; limitiamoci a guardare ciò che vediamo di quella cosa che chiamiamo elettrone, vale a dire l’intensità e la frequenza della luce che emette. Prendiamo per buone solo le quantità che possiamo osservare, lasciando perdere la domanda su <che cosa sia> quella cosa. Guardiamo cosa fa, come si comporta.

Ed ecco: si apre un nuovo fronte. Questa procedura dà dei risultati ma pone la realtà come dipendente da chi la osserva, che non potrà vedere tutto; non potrà, ad esempio vedere, come un ulteriore osservatore potrebbe fare, se stesso che osserva. Io che osservo sarò costretto a concludere che esistono più cose di quante possa osservare; e, soprattutto, che “il mondo esiste anche se io non lo osservo”. E avrò bisogno di una teoria che includa me che osservo nell’universo. Perché, altrimenti, dovrei chiedermi – e sarà il titolo del terzo capitolo:

“Possibile che qualcosa sia reale rispetto a te ma non rispetto a me?”

“C’è stato un tempo – riflette l’autore –  in cui il mondo sembrava semplice.” Quel che è certo è che, ad ogni cambio di paradigma, ogni qualvolta, dice lui, “abbiamo cambiato idea” (e abbiamo tolto la terra dal centro dell’universo, e abbiamo invertito la sua centralità rispetto al sole, per poi ridimensionare anche la centralità del sole; e ogni volta che abbiamo progredito nello studio del più piccolo, cercando di applicare le stesse regole scoperte per il funzionamento del più grande e abbiamo dovuto riconoscere l’errore), beh, ogni volta abbiamo dovuto riposizionarci anche noi, nel mondo e nella realtà, e riposizionare la realtà che ci riguarda; abbiamo dovuto riposizionare noi stessi nel mondo. Perché:

“La realtà è una stratificazione lussureggiante: montagne innevate e foreste, lo sguardo degli amici, il rombo della metropolitana nelle sporche mattine d’inverno, la nostra sete irrequieta, il saltare delle dita sulla tastiera del portatile, il sapore del pane, il dolore del mondo, il cielo notturno, l’immensità delle stelle, Venere che brilla solitaria nel cielo blu oltremare del crepuscolo…” (…) Era il tempo in cui il mondo sembrava semplice.”

Ed ecco una (ipotesi di) risposta alla domanda: Possibile che qualcosa sia reale rispetto a te e non rispetto a me? Dove sta, in tutto questo, e chi è, l’osservatore?

Risposta:

La teoria dei quanti descrive il modo in cui una parte della natura si manifesta a un’altra parte della natura.”

“Descrive come qualunque oggetto fisico si manifesti a qualunque altro oggetto fisico. Come qualunque oggetto fisico agisca su qualunque altro oggetto fisico.”

Ne deriva che, mentre ogni cosa interagisce con altre cose, e mentre queste interazioni costituiranno ciò che tutti chiamiamo <realtà>, <oggetti>, tutto sarà il portato delle interazioni che si stabiliranno con tutto e con ogni cosa, e ogni cosa ci si manifesterà in base alle relazioni che instaureremo tutti e ognuno con tutto e ogni cosa.

“Il mondo che conosciamo, che ci riguarda, ci interessa, ciò che chiamiamo <realtà>, è la vasta rete di entità in interazione, che si manifestano l’una all’altra interagendo, e della quale facciamo parte. È di questa rete che ci stiamo occupando.”

E dunque? La nostra realtà, noi stessi, siamo una relazione? Quella famosa sicurezza, quell’IO che sovrintende alla nostra vita, che domina ogni nostro pensiero tra quei due punti, tra il nascere e il morire, dove si colloca? Si colloca? C’è qualcosa di sconvolgente in questo. Ma pure qualcosa che si apre a qualcosa. Dev’essere qualcosa di bello. Dev’essere anche qualcosa che non ho ben capito. E tuttavia, dice Carlo Rovelli:

“Ogni volta qualcosa di solido è messo in questione, qualcos’altro si apre, e ci permette di vedere più lontano. Osservare lo sciogliersi della sostanza, di quanto appariva solido come la roccia, ci rende più lieve, a me pare, la transitorietà e la fluidità della vita.”

Ho portato qui solo una piccola parte dei temi di questo libro e potrei davvero non averci capito nulla.

Pure non posso non pensare che, quel qualcosa, quella lucina, incerta, lontano, che ho intravista, non sia, anch’essa, una <cosa> nel mondo. E dunque questo è ciò che posso (provarmi a) restituire di un libro che, spero, molti altri leggeranno, perché è una bellissima lettura, e di cui, magari, vorranno a loro volta restituire qualche pezzo, confutando, integrando, maledicendo o benedicendo, non so. Va tutto bene.

Verso la chiusura, Carlo Rovelli si fa prestare parole da Prospero e ci dice:

Amico mio, mi sembri scosso. Come se tu fossi sconcertato. Allegro signore!”

E a me pare il caso di completare la citazione, perché ci sta tutta.

“La nostra festa sta finendo. Questi nostri attori, come vi avevo predetto, erano spiriti, e si sono sciolti nell’aria, nell’aria sottile. Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno!”[i]

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[i] W. Shakespeare, “La tempesta, Atto IV, scena I



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