Ed eccomi incappata nuovamente in un libro che mi ha entusiasmata, di cui racconterò a stretto giro. E in un autore di cui, vergognosamente, nulla sapevo.
Multatuli, “Max Havelaar. Ovvero le aste del caffè della Società di commercio olandese”, Iperborea 2007
Traduzione di Piero Bernardini Marzolla
Postfazione di Fulvio Ferrari.
Libro notissimo, scopro, se non altro per essere considerato il capolavoro della letteratura olandese. E notissimo il suo autore:
Eduard Douwes Dekker, nato ad Amsterdam il 2 marzo 1820, morto a Nieder-Ingelheim, in Germania, il 19 febbraio 1887 – nome d’arte Multatuli, (dal latino “multa tuli”, “molto ho sofferto”, fonte Ovidio, Tristia).
Ora, se qualcuno mi vorrà far presente, salvo astenersene per compassione, che, con questo libro, ho per l’appunto scoperto l‘acqua calda dopo esser caduta dal pero, dovrò confessare che ebbene sì, nulla sapevo di questo signore e di quest’opera; che tuttavia richiedono, per una buona lettura, che ne venga detto qualcosa.
Ho dovuto ricercare informazioni – a suon di Google, naturalmente – per tentarne una piccola restituzione a chiacchiere non foss’altro per ripagarmi di tutto lo smanettamento che mi sta tenendo occupata da giorni: sull’uomo e sulla storia (complicatissima!) dei Paesi Bassi.
Mi accorgo infatti di conoscere molto poco, per non dire alcunché sulla letteratura, ma pure sulla storia, dei Paesi Bassi, se non per “titoli”: so che è stata una potenza coloniale, certo, ma nulla nel merito. Della sua attualità ho registrato a malapena il nome di qualche Ministro, diciamo pure del solo Mark Rutte, per le sue prese di posizione a tema Europa. So che da quelle parti c’è un re, di cui mi è totalmente sconosciuto il nome. Vaghezze da telegiornale, dunque, su cui – vedo ora – troneggia il fatto – centrale, a cui mai avevo posto attenzione – di non conoscere, neppure per il solo nome, alcun autore olandese.
Risultato, eccomi a chiacchierare, non riuscendo ad impedirmi un “prequel” al proporvi un libro che è una lettura da non perdere.
“Max Havelaar” è un romanzo, ma anche no; è in parte autobiografico, ma non proprio; è, e vuol essere, un libro-denuncia (una specie di “Capanna dello zio Tom” di noi europei colonialisti) encomiato come la maggior opera letteraria del Paesi Bassi – con qualche disappunto, pare, del suo autore che, pur avendo infine fatto della scrittura la propria professione, non lo aveva scritto per farne un’opera letteraria ma perché costituisse una denuncia sociale.
Prima edizione: Amsterdam 1860. Contesto: la politica di sfruttamento commerciale dell’Olanda nelle sue colonie dell’India orientale; nello specifico a Lebak, nell’Isola di Giava.
Prima edizione italiana UTET 1965, per la traduzione, a tuttora unica, di Piero Bernardini Marzolla.
Nuova edizione Iperborea 2007, nella stessa traduzione.
Sull’autore ci sarebbe molto a dire. Ma non ho trovato molto in rete. E forse ho finito per farmene un’immagine a mio uso e consumo.
La vita di Eduard Douwes Dekker è stata, a suo modo, la vita di un “personaggio” da libro: irrequieto, amante della vita, da considerarsi scarsamente affidabile per un’attività, quale quella che aveva scelto, o cui la famiglia lo aveva indirizzato, come professione, di funzionario governativo nelle colonie, richiesto di sapersi destreggiare tra bilanci, scartoffie, adempimenti burocratici; e di saper navigare all’interno di relazioni complesse con raffinate abilità diplomatiche.
Pare esser stato nella natura di Edouard Dekker finire indebitato: nella vita privata, al tavolo da gioco; ma anche per la facilità a prestar soldi a chi glieli chiedeva; per disattenzione e, forse, per incapacità nel suo lavoro dove, impegnato fortemente nella cura delle popolazioni verso le quali sentiva una forte responsabilità, tendeva invece a trascurare la cura della contabilità o, quantomeno, a non ritenerla prioritaria.
Ebbe parecchi guai in questo campo dai quali si districò con fatica, pur caratterizzati, sembrerebbe, da soli errori formali commessi da una persona profondamente onesta, quale egli era.
Fu anche, leggo, un marito farfallone: e questo lato della sua vita non fa del suo personaggio, Max Havelaar, il suo alter-ego letterario; non tutto è proprio autobiografia nella storia, salvo il tema centrale: lo sfruttamento e la riduzione alla fame della popolazione locale ad opera del governo coloniale olandese.
Avendo raccolto, tra alti e bassi, encomi per la cura che mostrava degli interessi della popolazione indigena; e nel contempo avendo dovuto ripetutamente rispondere a serie contestazioni per la sua inadeguatezza nella tenuta della contabilità (come detto, probabilmente per ingenua faciloneria e sottovalutazione del compito) da assommare alle abituali difficoltà economiche in cui incappava nella vita privata, nel 1855 fu trasferito a Lebak, nell’Isola di Giava in un incarico di grande responsabilità, dove si trovò a dover fronteggiare lo stato di estrema povertà della popolazione, ormai prossima alla rivolta per fame.
Dal suo racconto, il suo alter-ego Max Havelaar si impegnò con entusiasmo nell’indagare le cause di quella povertà e nella determinazione a rimuoverle.
Scoprì subito che alla base vi erano sia una politica produttiva e commerciale del governo olandese, di cui si trovava ad essere il rappresentante, letteralmente di rapina, sia una diffusa e grave corruzione che vedeva colludere gli alti funzionari del governo olandese con i potentati locali.
La politica commerciale olandese aveva optato per sostituire la coltivazione del riso tipica di quel territorio e che assicurava i bisogni alimentari di base della popolazione, con coltivazioni di tè, caffè, canna da zucchero, spezie, vale a dire con prodotti da esportazione.
Tale scelta portava lauti guadagni alla Società che, a nome del governo olandese, li commerciava, di cui ben poco per non dire nulla veniva redistribuito alla popolazione, lasciata a sostentarsi con il poco che riusciva a coltivare per sé.
A tutto questo, si era aggiunta una tassazione insostenibile. Gli abitanti di Lebak venivano inoltre costretti a lavorare gratis nei servizi, si vedevano requisire i bufali che servivano loro per coltivare la terra che sempre più erano costretti a lasciare per cercare lavoro altrove.
Eduard Douwes Dekker denunciò tale situazione ottenendo di dover dare le dimissioni dal proprio incarico e di veder chiusa con disonore la propria carriera.
Da ciò, la sua decisione di portare a conoscenza della popolazione olandese la politica coloniale del proprio governo, rivolgendo inoltre un appello al re, attraverso un “romanzo” che narrasse ciò che, in nome del re e del popolo olandese veniva operato dall’ipocrisia benpensante del ceto mercantile, e per converso rivendicando la propria dirittura morale, il fatto di essere un funzionario che non aveva accettato di essere complice del malaffare.
Il libro ebbe un immediato grande successo, senza che, peraltro, il suo autore riuscisse a ottenerne il dovuto guadagno in termini economici: e il pubblico encomio, da solo, si sa, varrà pure qualcosa ma non sfama.
“Max Havelaar” riuscì tuttavia a portare a conoscenza del popolo olandese il problema, e a ottenere un cambiamento della politica coloniale. Il Governo olandese sviluppò, a favore delle popolazioni delle colonie, quella che chiamò “una politica etica”, assicurando l’istruzione “ad alcune classi di indigeni, in genere ai membri dell’élite leale verso il governo coloniale“.
“Il romanziere indonesiano Pramoedya Ananta Toer [i] affermò che, dando inizio a queste riforme dell’istruzione, Max Havelaar fu responsabile del movimento che fece finire il colonialismo olandese in Indonesia dopo il 1945 e che il romanzo fu strumentale all’inizio della decolonizzazione in Africa e in altri posti nel mondo. Così, secondo Pramoedya, Max Havelaar è “il libro che uccise il colonialismo”.[ii] (Confesso che vorrei saperne di più, poter accedere a fonti diverse, ma per il momento questo ho trovato).
Oggi, “Max Havelaar” è un marchio del commercio equo e solidale, valutato come <molto raccomandato> dal WWF[iii]
In Svizzera è inoltre operativa una “Fondazione Max Havelaar”, creata nel 1992 da sei grandi organizzazioni di cooperazione allo sviluppo, che persegue due fini fondamentali:
- Assicurare l’accesso ai mercati a condizioni commerciali eque dei prodotti dei lavoratori e dei produttori delle regioni sfavorite del Sud;
- Certificare con il marchio di qualità Max Havelaar i beni prodotti e commercializzati secondo gli standard del commercio equo FLO[iv].
Dovremmo dunque dire che, con il suo romanzo, Edouard Dekker ha ottenuto ciò che si era proposto.
Il libro è tuttavia, anhe e soprattutto, un vero bellissimo romanzo (a differenza se vogliamo, di “La capanna dello zio Tom”, che alla efficace funzione di denuncia ha unito qualità letterarie modeste).
Ecco: Multatuli ha scritto un’opera il cui valore letterario è indiscutibile: ma non ha amato questo successo che riteneva ponesse in secondo piano i suoi obiettivi di politica sociale.
Il libro è stato tradotto e pubblicato in tutto il mondo ma il suo autore non è riuscito a trarne il sostentamento economico che ne avrebbero dovuto seguire. Anche in questo caso, sembra non abbia saputo gestire i propri interessi, continuando a vivere sotto la bandiera della dirittura morale e della leggerezza.
La sua vita ha continuato ad essere segnata dalla difficoltà economica, nonché da difficoltà familiari che lo hanno portato alla separazione di fatto dalla prima moglie.
Scelse di fare della scrittura la propria professione e, in effetti, fu un autore molto letto, in vita. Rimasto vedovo si era risposato e, dopo la sua morte, la moglie curò la pubblicazione delle sue opere.
Girovagò per l’Europa, finendo per vivere in Germania, dove morì, a soli sessantasei anni.
Questo romanzo resta il suo capolavoro e il capolavoro della letteratura olandese. Se non sbaglio, resta anche la sua sola opera pubblicata, mi parrebbe con scarso successo, in italiano
Non so, forse mi sono costruita un Multatuli di fantasia, per scarsezza di fonti e di documentazione – e sicuramente per grande simpatia: per l’autore e per il personaggio.
A seguire, mi proverò nella restituzione del romanzo, che si apre (come da titolo) presentandoci Batavus Droogstoppel, un “sensale del caffè” e il suo pensiero; la sua fede cristiana calvinista in versione pro domo sua; i suoi “principi di vita”: e il lettore sorriderà, gusterà l’ironia, si farà catturare dalla narrazione, per trovarsi a sperimentare, di personaggio in personaggio, di ambientazione in ambientazione, tutta la gamma delle emozioni umane.
“Faccio il sensale nel ramo del caffè e abito in Lauriergracht n. 37. Non è mia abitudine scrivere romanzi o cose del genere e c’è anche voluto un bel po’ prima che mi decidessi a ordinare un paio di risme di carta extra per stendere quest’opera che tu, caro lettore, hai appena preso in mano e devi leggere, se fai il sensale di caffè, o anche se fai qualcos’altro.”
Come ha potuto Multatuli ritenere che questo suo libro non fosse un’opera letteraria ma <solo> un libro di denuncia?
Alla prossima.
PS: saranno molto gradite informazioni, e correzioni, su questo autore e sull’immagine che me ne vado facendo. Grazie
[i] 1925 – 2006, scrittore e attivista indonesiano, romanziere e saggista
[ii] In: https://it.wikipedia.org/wiki/Max_Havelaar
[iii] Il WWF stila una classifica di validità del marchi, utilizzando una scala su quattro livelli (Eccellente, Molto raccomandato, Raccomandato, Parzialmente raccomandato). (Wikipedia)
[iv] Fairtrade Labelling Organisation. Vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Fairtrade_Labelling_Organization