“Strapparsi il lupo di dosso”

Alice Basso, “Il morso della vipera”, Garzanti 2020.

Una premessa.

Ebbene sì. Quasi tre anni fa avevo già parlato, con entusiasmo (per nulla scemato) di Alice Basso, una giovane autrice di cui, finora, non ho perduto un libro e di cui avevo recensito la sua prima (allora) trilogia, che sarebbe stata in seguito completata da altri due libri. (qui).

Il suo primo personaggio – Vani Sarca, professione Ghostwriter, al soldo di una grande CE – presentava potenzialità irresistibili di divenire seriale, con il rischio di costituire un punto di arrivo senza uscita per una scrittrice le cui qualità vanno, a mio parere, ben oltre il romanzo di intrattenimento.

Perché è così: la serie può essere, per un autore, la morte alla letteratura, con la resa a un incasellamento nel genere che, niente di male ma tuttavia. E il genere – in questo caso, e per questa autrice, elettivamente, almeno per ora, il giallo – è a sua volta particolarmente rischioso.

È una cosa strana: tutti, ma proprio tutti, riconosciamo la presenza, nel genere poliziesco e affini, di autori che non possono essere liquidati come banali mestieranti della scrittura, salvo, nel contempo, squalificare il genere, in toto; squalificando, per converso, i suoi lettori, ritenuti gente dai gusti elementari, da intrattenere con storielle per palati modesti.

Vero è che il genere è inquinato da un profluvio di opere di scarsa qualità, e questo accredita la banalizzazione di una squalifica generalizzata. Ma vogliamo fare una seria cernita tra opere, di narrativa e non, che inquinano ogni genere?

“Il morso della vipera”, uscito nell’aprile di quest’anno, è una storia categorizzata come giallo; contiene infatti un aspetto di indagine retrospettiva su di una morte (un femminicidio) al tempo classificata come incidente: il fatto costituirà l’espediente narrativo per dar luogo a un intreccio che ci porterà altrove: a sbirciare dentro la storia degli anni d’oro del giallo d’oltreoceano e, per converso, del giallo italiano; a conoscere dall’interno la temperie culturale che si viveva negli anni del fascismo, i riti e i miti che la caratterizzavano; a farci qualche buon sorriso, per non dire delle vere risate,  trovandoci tuttavia ad affrontare domande importanti per comprendere quel tempo, così come il nostro oggi. E ci innamoreremo  dei personaggi.

La storia è ambientata nell’anno 1935, protagonista la giovane, bellissima, e felicemente illetterata Anita Bo, figlia di Ottavio, tabaccaio in quel di Torino e di sua moglie Mariele.

Anita entra in scena prepotentemente, con il carattere allegro di una ragazza intelligente che ha ben compreso, o quantomeno così crede, l’utilità di giocarsi il proprio progetto di vita sulla propria bellezza, vale a dire sulla dote che maggiormente poteva (può? No?) dare a una giovane donna l’accesso a un futuro vincente. Anita è dunque alla ricerca di un buon matrimonio, da celebrare con un buon e bel ragazzo economicamente in grado di assicurarle una vita serena e, perché no, anche qualcosa di più.

La storia si apre con Anita in procinto di accettare la richiesta di Corrado Leoni, figlio ed erede di una famiglia benestante. È un giovane bello, bravo, serio, doverosamente ma educatamente fascista…e non si sa, tra i due, come l’autrice sussurra, chi sia il Leone e chi il Bo: e anche questo ad Anita sembra andar bene.

Senonché, al momento in cui Corrado, come da attese, le chiede di sposarlo, Anita verrà colta da uno strano, anomalo desiderio: avere un assaggio di vita indipendente (si fa per dire), trovarsi un lavoro, ben sapendo come il regime non approvi il lavoro femminile; ben sapendo che non potrà, dopo sposata, mantenere il lavoro, peraltro tutto da trovare; ben sapendo come le sue qualifiche professionali siano molto scarse. E ben sapendo che questo suo desiderio incontrerà l’opposizione della famiglia e di Corrado.

“Il Duce dice che una donna italiana onora il proprio ruolo nella società se indossa i panni di moglie e madre e dà figli alla patria.”

Anita ha portato a termine una scuola professionale che la qualifica come stenodattilografa ma tra lei e la scuola non è mai esistito un grande rapporto. Tutto ciò che la scuola le ha dato è stato: una grande amica, Clara, brutta, intelligente e amante della lettura; e un rapporto importante con la sua ex professoressa di stenodattilografia, Candida Florio, che lei e Clara frequentano, soprattutto per merito di Clara che, dalla sua ex insegnante ottiene libri in prestito e conversazioni interessanti.

Candida Florio è una donna capace di rompere gli schemi, un’intellettuale che incarna una figura di donna libera; che ha scelto una professione in luogo di un marito, e che, senza parere, tra due chiacchiere e un tè, trasmette alle sue due ex allieve qualcosa come un “non è detto che…”.

Nel 1935 il fascismo italiano vive il periodo del suo massimo splendore. Formalmente e apparentemente chiusa la fase rivoluzionaria, violenta; dimenticato il delitto Matteotti; l’Italia, dopo aver ottenuto anche un certo riconoscimento internazionale si trova tuttavia alla vigilia dell’aggressione all’Etiopia, in procinto di essere sanzionata dalla Società delle Nazioni e in procinto di avvicinarsi, con un repentino cambio nella sua politica estera, alla Germania hitleriana che, fino ad allora, non aveva goduto delle simpatie mussoliniane.

In città, nel quartiere, la presenza del Partito Fascista si respira con pesantezza; i comportamenti, in particolare delle ragazze, sono controllati e, se viene percepito qualche mugugno, ciò avviene unicamente in forma difensiva, con attenzione a non dare adito a sospetti.

La violenza, in effetti, non è finita: una dittatura è violenta per sua natura.

Anita, ragazza sveglia e abile nel manipolare il suo prossimo a proprio favore, riuscirà a ottenere da Corrado il consenso (necessario) a rinviare di sei mesi il matrimonio e fare un’esperienza di lavoro; e troverà pure lavoro, come dattilografa, presso la giovane Casa Editrice Monné (Alice Basso pare avere due certezze nella vita: i suoi natali sabaudi e l’editoria).

La Casa Editrice è gestita dall’editore, Muzio Monné (il cui nome sarebbe stato Monnet, alla francese, ma aveva dovuto essere <italianizzato> come imposto dal regime fascista) e dal socio, direttore editoriale e autore Sebastiano Satta Ascona.

Monné pubblica “Saturnalia”, un mensile di racconti, per lo più polizieschi tradotti dalla rivista americana “Black Mask[i] che ospitava racconti di autori, al tempo emergenti, di quella che sarebbe stata conosciuta in seguito come la narrativa pulp e hard-boiled dell’”epoca d’oro del gialloDashiell Hammett, Raymond Chandler, Carroll John Daly, Ellery Queen…

Una pubblicazione di tal fatta mai avrebbe potuto superare la censura del regime se non attraverso un espediente che ne sancisse la fedeltà al credo fascista per il quale, in Italia, non esistevano più reati, se non commessi da stranieri e prontamente puniti.

Ed ecco Sebastiano Satta Ascona scrivere e pubblicare un politicamente corretto racconto mensile, protagonista il Commissario Bonomo, che Clara, l’amica di Anita e accanita lettrice, riassume così:

C’è un cattivo che si capisce subito che è il cattivo, Bonomo lo prende a pagina due, Bonomo fa la predica fino a pagina dieci. Fine”

Un antefatto così costruito potrà dar luogo a scenari diversi.

Che dire, senza scivolare nello spoiler, in tal modo tradendo pure il senso del romanzo che è, in questo caso, veramente, “ben altro”.

La storia è articolata. I piani narrativi sono molteplici, e il tema omicidio-indagine-soluzione si caratterizza, in tutta la sua serietà, non solo ma soprattutto come marchingegno narrativo per dar vita alla rappresentazione di una comunità e di una realtà sociale, vedute dall’interno, attraverso i personaggi e i ruoli che la compongono, che sono parte in causa nonché fulcro della storia.

C‘è un interessante focus sulla vita di chi ha un po’ creduto, un po’ sperato nel fascismo: per disperazione, per non saper che fare nelle difficoltà di un mondo devastato da una guerra senza onore, come ogni guerra; sulla vita di chi chiedeva solo un po’ di pace, cedendo moralmente sui mezzi, veduti come irrelati ai fini e dove, come sempre accade, la domanda di una, anche piccola, vita buona non sa guardare al di là dei propri, pur legittimi o ritenuti tali, interessi personali e familiari.

Ci sono le storie di chi si oppone, come può e come sa.

C’è il sogno letterario americano, con i suoi autori di culto censurati e con la connessa domanda di libertà.

C’è, a sorreggere il tutto, Edgard Lee Masters con la sua “Antologia di Spoon River”, partendo da una poesia in particolare – Dorcas Gustine[ii] – che sarà sufficiente, sola, a condensare una presa di coscienza della relazione che tiene insieme libertà di stampa e verità, informazione e democrazia.

Strapparsi il lupo di dosso

 

 Non ero amato dagli abitanti del villaggio

E tutto perché dicevo ciò che pensavo,

e affrontavo quelli che mi recavano

un torto

protestando apertamente, senza nasconderlo

né nutrire un segreto turbamento o

rancori.

Tutti lodano il leggendario ragazzo

spartano

che si nascose il lupo sotto il mantello,

e si lasciò divorare da esso senza un lamento.

Ma io penso che sia più coraggioso

strapparsi il lupo di dosso

e lottare con lui alla luce del sole,

per strada,

tra polvere e ululati di dolore.

La lingua può essere indisciplinata ma il silenzio avvelena l’anima.

Biasimatemi pure; io sono contento.

C’è tanto, e promette di essere di più, in questa storia.

Narrativa di intrattenimento: certo. Niente di più niente di meno. È, dopotutto, ciò che si chiede a un libro: che ci <trattenga dentro> le sue pagine, per farci trascorrere qualche ora interessante, e perché no, piacevole, facendoci conoscere, pensare, costruire domande che non vengano spazzate via dal primo soffio di vento contrario: come è accaduto, e accade, quando, mancando la libertà di stampa (e non occorre sia in atto una dittatura perché ciò avvenga), le menti dei cittadini si lasciano intridere dalla apparente dolcezza della rinuncia  a pensare, a scegliere, a operare sotto la propria responsabilità.

“Ma voi siete fascisti?” chiederà Anita, a un certo momento, ai suoi genitori.

Mai aveva pensato, prima, di porre una tale domanda. Con disagio, i genitori si sono ritrovati a dover rispondere, raccontare, giustificare, dare voce a se stessi e al proprio silenzio.

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[i] Black Mask è stato un pulp magazine lanciato sul mercato statunitense nel 1920 dal giornalista H. L. Mencken e dal critico George Jean Nathan, (…). Sotto la guida editoriale di Mencken e Nathan nella nuova rivista apparvero non solo racconti polizieschi, ma anche, come veniva pubblicizzato all’epoca “le migliori storie di avventura, i migliori mystery, le migliori storie romantiche e dell’occulto”. (…) La rivista cessò le pubblicazioni nel 1951. (Wikipedia)

[ii] La prima edizione italiana di “Antologia di Spoon River”, tradotta da una giovane Fernanda Pivano e pubblicata da Einaudi, su proposta di Cesare Pavese, porta la data del 9 marzo 1943.

Alice Basso, nella Postfazione al romanzo, spiega che ha proposto, qui, una propria traduzione dato che nel 1935, anno in cui si svolge la storia che racconta, in Italia non ne esisteva alcuna…se non, per l’appunto, assegnabile al personaggio di Sebastiano Satta Ascona.