Kurt Vonnegut, “Perle ai porci, o Dio la benedica Mr. Rosewater”, Feltrinelli 2015
Leggere Vonnegut è sempre un’esperienza speciale. Si tratta di un autore prolifico che, dalla vetta di un’opera quale “Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini” (qui) ci ha lasciato opere caratterizzate, allo stesso livello, da un linguaggio agile, discorsivo, segnato da un fondo di umorismo che potrebbe essere definito solo dall’aggettivo “buono”; e da un messaggio carico di empatia per le persone, pur senza alcuna cecità verso i loro comportamenti.
Aprendo il libro, ci verrà detto da subito, quale incipit, che…
… “uno dei protagonisti di questa storia, storia di uomini e donne, è una grossa somma di denaro, proprio come una grossa quantità di miele potrebbe essere, correttamente, uno dei protagonisti di un storia di api.”
Seguiranno, tra i protagonisti:
La Fondazione Rosewater /e lo Studio Legale McAllister, Robjent, Reed e McGee che ne gestisce il patrimonio;
Norman Mushtari, giovane avvocato di origini libanesi figlio di un mercante di tappeti, che era entrato a far parte dello studio McAllister, Robjent, Reed e McGee in forza della sua laurea con il massimo dei voti. Di lui ci verrà detto che “era alto un metro e sessanta. Aveva un culo enorme, che quando era nudo splendeva come una lampadina.” Aveva anche e soprattutto una grande ambizione.
E infine, l’eroe di questa storia: Eliot Rosewater, il primo Presidente della Fondazione – istituita da suo padre, il senatore Lister Ames Rosewater – la cui gestione era stata affidata alla competenza dei legali per assicurare la permanenza del patrimonio nelle mani dei suoi discendenti in eterno. Sola competenza del Presidente: spendere, a suo piacere, la milionaria rendita assicurata dalla gestione del patrimonio.
Eliot, asceso alla carica di Presidente, scrisse una lettera-testamento indirizzata al suo ancora sconosciuto successore per fargli conoscere la storia della famiglia e del patrimonio che avrebbe un giorno ereditato. La lettera, conservata in cassaforte e munita di tre sigilli, si apre così:
“Caro cugino o chiunque tu sia, congratulazioni per la grande fortuna che ti è toccata. Divertiti. Forse vedrai le cose nella giusta prospettiva quando saprai che razza di manipolatori e di custodi ha avuto finora la tua incredibile ricchezza.”
Seguirà la storia della famiglia a partire dal fondatore, tale Noah Rosewater, il bisnonno di Eliot che
“giovane agricoltore cristiano, stitico e privo di sense of humour … si era dato alle bustarelle e alle speculazioni durante e dopo la Guerra Civile”.
Seguiranno le malefatte (dette solitamente abilità imprenditoriali) di famiglia, narrate in perfetto stile biblico…e tizio sposò Caia da cui nacque Sempronio…fino alla inevitabile conclusione, da estendere all’intera classe imprenditoriale americana nella sua totalità.
“Così un pugno di rapaci cittadini sono giunti a controllare tutto ciò che in America valeva la pena di controllare. Così fu creato il sistema di classe americano, stupido, feroce, noioso, inutile e assolutamente inadeguato. (…) Così il sogno americano voltò la pancia in su, diventò verde, venne ballonzolando alla limacciosa superficie della cupidigia più sfrenata, si riempì di gas, scoppiò nel sole di mezzogiorno”
Il nostro Eliot pensò di dover qualcosa ai propri concittadini, quantomeno alla gente del proprio paese d’origine, la cittadina di Rosewater per l’appunto, in risarcimento della malguadagnata ricchezza di cui disponeva. Si organizzò dunque nella vecchia casa di famiglia e avviò un’attività, vogliamo chiamarla di servizio sociale?, dedicandole tutta la propria esistenza e il necessario denaro.
Dopotutto, la Fondazione esisteva proprio per assicurare, attraverso l’opera dei suoi legali curatori del patrimonio, la prosecuzione del flusso di denaro nelle disponibilità del Presidente. Naturalmente, di Eliot Rosewater si cominciò a mormorare, scherzosamente, che fosse pazzo.
Ed ecco, dietro le quinte, agire il personaggio Mushtari. Consapevole del fatto che “i Tribunali non amano gli scherzi”, egli aveva rinvenuto, tra le clausole dello Statuto della Fondazione, la possibilità di escludere dall’incarico il Presidente qualora giudicato “incapace di intendere e di volere.” Mushtari aveva così provveduto a rintracciare un cugino sconosciuto e povero, appartenente ad un ramo secondario della famiglia Rosewater, unico inconsapevole erede nel caso non fosse stato più ritenuto idoneo alla carica Eliot Rosewater.
Era il caso di impegnare a fondo la propria abilità legale, pensava Norman Mushtari, ricordando le parole di un suo apprezzato insegnante secondo cui:
“In ogni grossa transazione c’è un momento magico: esso si presenta quando un uomo ha ceduto un tesoro e quando l’uomo che deve riceverlo non l’ha ancora ricevuto”. Ed è quello il momento in cui un bravo avvocato che segue la transazione “può intascare anche metà del gruzzolo e ricevere, nonostante ciò, i piagnucolosi ringraziamenti del destinatario”.
Ma questo è solo l’antefatto. Da parte sua, il nostro Eliot si impegnava profondamente nella sua attività di aiuto ai poveri di Rosewater; e di ascolto delle loro infelicità, dei loro problemi familiari, sogni e quant’altro. Era divenuto indispensabile per la vita dei propri concittadini. Notte e giorno, squillava il suo telefono e lui rispondeva:
“Fondazione Rosewater. Come possiamo aiutarvi?”.
Eliot aveva una visione del mondo, sia pure, ammettiamolo, travolta dai fumi dell’alcool, molto ampia. C’era davvero, a suo parere, molto a cui pensare e molto da fare; c’erano infinite possibilità in merito alle sorti del mondo. C’era la scrittura profetica di Kilgore Trout (l’autore di fantascienza amico immaginario del bambino interiore Kurt Vonnegut, che compare in molte sue opere); c’era il mondo degli scrittori di fantascienza ai quali, nel corso di un loro Congresso Internazionale, il nostro Eliot, ubriaco, tenne un importante discorso, in cui diceva:

“Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi, quello che cí fanno gli equivoci tremendi, gli errori, gli incidenti e le catastrofi. Voi siete i soli abbastanza stupidi per tormentarvi al pensiero del tempo e delle distanze senza limiti, dei misteri imperituri, del fatto che stiamo decidendo proprio in questa epoca se il viaggio spaziale del prossimo miliardo di anni o giù di lì sarà il Paradiso o l’Inferno.”
“Poi, Eliot riconobbe che gli scrittori di fantascienza non sapevano tenere la penna in mano, ma sostenne che questo non contava.”
Nessuno, credo, uscirà dalla lettura di questo libro uguale a quando ci era entrato. Sarà incredulo, forse, per la leggerezza della scrittura, che porta il lettore – distrattamene? Inconsapevolmente? – a fronteggiare, ridacchiando di sollievo, beh, sì, il dolore proprio della condizione umana; nonché una critica sociale e politica del modo “americano” (ma diciamo pure occidentale) letteralmente e senza parere sanguinoso di essere una democrazia .
Nel frattempo si ride, si sorride, ci si commuove, fino a quando giunge, del tutto inattesa, la conclusione: e ci si rilassa, con un sorriso perso sulle labbra.
Se, ad esempio questo libro sarà stato una lettura serale, dopo averlo chiuso sull’ultima pagina si dormirà pacificati con il mondo – e non ditemi che è facile – sentendo che c’è, davvero, la possibilità di uscirne benedetti: da Dio o da Vonnegut, o solo in pace con se stessi perché, ebbene sì, c’è davvero sempre una speranza. Non necessariamente su base fantascientifica – e non è questo il caso – ma non facciamoci mancare nulla, come possibilità.
Poi tutto andrà come deve andare ma senza che la speranza muoia: nel genere umano; in una possibilità dietro l’angolo, tra le tante, infinite e dopotutto neppure del tutto improbabili che sicuramente vi sono.
Non resta che chiudere il libro e pensare, a nostra volta: Dio la benedica, Mr. Vonnegut.
Dimenticavo: Anche Kilgore Trout doveva partecipare, con il nostro protagonista al famoso Congresso di autori di fantascienza ma…
…“hanno appena detto che non è potuto venire perché non poteva permettersi di lasciare il suo lavoro! E che lavoro offre questa società al suo massimo profeta? (…) Gli hanno dato un posto da magazziniere in un centro di Hyannis per la distribuzione di omaggi ai possessori di buoni premio!”
Ma questi sono dettagli – che, per la verità, è da vedere se proprio in essi non si radichi quella tal leggerezza che consente al Nostro di dire cose terribili, di guardarle senza infingimenti e di lasciarci, ancora senza infingimenti, una grande e indefettibile Speranza: con una perfetta soluzione, condita da un affettuoso sberleffo ai lestofanti di ogni tempo. Che saranno infine benedetti anche loro. Perché no; dopotutto, la vita non è facile per nessuno.