Vintilă Horia, “Dio è nato in esilio. Diario di Ovidio a Tomi“, Ed. La vita felice 2017
“Chiudo gli occhi per vivere. Per uccidere, anche. In questo sono il più forte. Lui chiude gli occhi soltanto per dormire e nemmeno il sonno gli dà conforto. Le sue tenebre pullulano di morti, di crudeltà che lo ossessionano.
(…)
“Chiudo gli occhi e uccido. (…) Chiudo gli occhi e vedo. Sono poeta. Lui è solo imperatore.”
La voce di Ovidio ci parla dall’esilio a Tomi, la terra dei Geti, sul Mar Nero, dove è stato confinato dall’imperatore Augusto per motivi incerti, e dove otto anni dopo morirà, senza rivedere Roma.
Vengo colta da una forma di esultanza – e sì, esultanza è la parola giusta; ho incontrato ancora una lettura unica, impensata e impensabile, che mi lascia affascinata. L’incipit avvia un percorso che non cadrà. Che trattiene il lettore, e lo interroga.
Sarà il confinamento che stiamo vivendo a dilatare un tempo che consente di indugiare in passeggiate random online tra i libri, ma questi paiono essere giorni di incontri speciali, intrisi, in una qualche misura, da una forma di disagio nel dover constatare, ancora e sempre, come la mia ignoranza si allei con – posso dirlo? – le scelte della grande editoria italiana.
Ancora un autore imperdibile, a me totalmente sconosciuto. Un autore che la grande editoria sembra aver <volutamente> ignorato.
Scritto nel 1960, in francese, vincitore del Premio Goncourt (che l’autore si vide costretto a rifiutare per por fine a una pesante campagna denigratoria da parte del governo rumeno; campagna originata da ragioni politiche, non certo per la validità dell’opera) ha avuto, nel 1961, una prima traduzione italiana a cura di Orsola Nemi per i tipi delle Edizioni de Il Borghese.
Capisco. È sicuramente più di un semplice sospetto.
È chiaro: se il governo “comunista” bulgaro si oppone all’assegnazione del Goncourt a un autore considerato “di destra”, la Casa editrice di destra per definizione lo pubblicherà; e le altre CE, per converso, non lo pubblicheranno: che poi si tratti di un’opera che non ha contenuti ideologici e, soprattutto, di un’opera che è un capolavoro letterario, dev’essere risultato ininfluente.
Si aprirà, da qui, (ipotizzo: penso male? Con quel che segue) una storia editoriale che affosserà, attraverso l’assegnazione di una etichetta politica (di destra, in questo caso; a parti inverse la musica non sarebbe cambiata) un autore e un libro a prescindere dal valore dell’opera e dal suo contenuto.
Ed ecco spiegato lo stato di pre-morte editoriale di questo libro, che non ha trovato un editore italiano di vaglia che ne potesse assicurare una forte diffusione, né recensori sufficientemente visibili; un libro la cui sopravvivenza è stata assicurata inizialmente da un “Editore di destra” (segnatamente: la rivista e la casa editrice che era stata di Leo Longanesi – e che, va bene, lo confesso, io mai avrei neppure toccato, nei miei giovani anni; che sono stati <quegli> anni).
Oggi? Oggi sì, almeno un’occhiata la darei; non perché siano cambiate le mie scelte valoriali (sempre lì sto, anche se, lo ammetto, senza più sapere dove si trovi quel benedetto <lì>, ma perché quantomeno cerco, mi sforzo, di non operare censure preventive. Sempre meglio ascoltare, prima di scegliere; e accogliere pure, nel caso, altri pensieri, e tutti i pensieri solo in parte, con riserva).
“Dio è nato in esilio” è stato pubblicato, in seguito, solo da piccole case editrici. Da cui, la scarsa, se non inesistente distribuzione.
Era il 1979, e il romanzo fu pubblicato dalla Casa Editrice Fogola, nata nel 1963, che ha chiuso i battenti nel 2014, avendo a suo vanto autori e un catalogo di tutto rispetto.
Sono seguite due edizioni: 1979, “Falco editore”, e 2017, “Edizioni Betelgeuse”; ambedue CE di cui non sono riuscita a raccogliere notizie certe.
E finalmente:
Castelvecchi Edizioni: 2015, in una nuova traduzione di Marino Monaco, su licenza di Fogola Editore (e-book);
La Vita Felice, 2017, con Prefazione di Daniel Rops[i] – manca l’indicazione del traduttore; e la traduzione, rispetto a Castelvecchi, a un primo veloce controllo, presenta lievi non significative differenze (cartaceo).
La storia del ‘900 è stata una storia di separazione; è la storia, che fatica a chiudersi, di un tempo che ha diviso, in cui, a turno, la parte vincente del momento si è impegnata a fondo nella cancellazione dell’avversario tramutato in nemico. È un’epoca in cui è stata, e temo sia tuttora, esercitata al meglio l’opzione della damnatio memoriae nei confronti di un qualsivoglia pensiero antagonista. E il pensiero va al “fascismo eterno” contro cui Umberto Eco pare aver parlato invano. (qui)
Vintilă Horia, dicevo. Che parte avrà sostenuto per meritarsi tutto questo. Anche in considerazione del fatto che ha scritto molto, è stato amico dei maggiori intellettuali italiani del suo tempo; è stato, nei diversi Paesi in cui ha vissuto, un intellettuale importante; ha scritto in quattro lingue: rumeno, italiano, francese, spagnolo; ha fondato riviste.
Due notizie, in breve – non ho trovato moltissimo su di lui.
Al secolo Vintila Caftangioglu, (Segarcea, Romania, 1915 – Collado Villalba, Spagna, 1992).
Figlio di una famiglia benestante, ha intrapreso la carriera diplomatica, dopo studi di diritto, ma avendo compiuto anche studi letterari e filosofici in Italia, all’Università di Perugia.
È stato, per breve tempo, addetto culturale presso l’ambasciata di Roma, per poi essere trasferito all’ambasciata di Vienna.
E qui è necessario ricordare un piccolo tratto di una storia che accomuna, almeno per una sua parte iniziale, la storia romena alla storia italiana: a parte, e non è poco, la conclusiva collocazione geopolitica.
Era il 1942. Tempo di guerra, la Bulgaria, pressata tra la Russia e la Germania, aveva scelto l’alleato tedesco. Tale scelta era stata, al tempo, nelle cose – la collocazione geopolitica della Romania era quasi imperativa, la scienza del poi essendo inattingibile – per un governo nazionalista e dittatoriale che vedeva la Russia come un potenziale, e praticamente certo, rischio per la propria sovranità nazionale.
Nel 1940 la Russia aveva annesso, diciamo di prepotenza se non formalmente con la forza, i territori rumeni (peraltro più o meno contestati, o contestabili) della Bessarabia e della Bucovina, cui fece seguito la proclamazione della Repubblica Socialista Sovietica Moldava.
Le mire espansionistiche, territoriali e ideologiche, della Russia non erano dubbie; e la scelta rumena, su queste basi, fu sicuramente sostenuta dalla classe intellettuale giovanile del tempo.
Tra parentesi, non va scordato che l’occupazione sovietica della Bessarabia e della Bucovina era avvenuta, in realtà, con l’assenso tacito della Germania nazista, in forza del Patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop del 1939: con un protocollo riservato, Russia e Germania avevano concordato, diciamolo con termine inelegante, sottobanco, la divisione dei territori loro confinanti e di rispettiva influenza. Come dire: mentre i militanti sostenitori dell’una e dell’altra parte si scannavano tra loro, ai vertici si stringevano patti vagamente indicibili, salvo farne poi la prevedibili carta straccia.
La Romania, come l’Italia, si trovò a fare i conti, nel 1944, dopo l’invasione russa, e la guerra di fatto perduta, con il licenziamento, da parte del Re, del capo del governo Generale Ion Antonescu (e dovremmo risalire a un semi-Colpo di Stato analogo alla nostra Marcia su Roma e alla nascita di un regime di tipo fascista), e con la scelta di un cambio di fronte.
Il nuovo regime rumeno dichiarò guerra alla Germania, passando con gli Alleati. Vintila Horia, che si trovava a Vienna, venne ovviamente arrestato, suppongo con tutto il corpo diplomatico rumeno, e internato in un campo di prigionia.
Liberato, a guerra terminata, dagli inglesi, trasferito in Italia, non poté, tuttavia, rientrare in patria in quanto, per il suo appoggio al governo alleato dell’Asse – era un dipendente dell’ambasciata di Ion Antonescu – venne condannato, in contumacia, ai lavori forzati a vita.
Nota di chiusura: nel 1947 ci fu l’abdicazione di Re Michele e iniziò la storia della Repubblica Popolare di Romania, stato satellite della Russia. In Italia, la stessa cosa era avvenuta, per via democratica, con il referendum Repubblica-Monarchia nel 1946, e l’Italia era divenuta…e qui chiudo il piccolo ripasso di storia, raccontato grossolanamente, a mio modo, e che (come peraltro sempre avviene con la storia) prevede errori nonché punti di vista diversi, alternativi e non.
Per Vintilă Horia era iniziato l’esilio di tutta la sua vita. Per uno scrittore e un grande intellettuale che, nei confronti della letteratura italiana, nei confronti della cultura italiana, aveva maturato crediti importanti; che in lingua italiana aveva pubblicato scritti importanti, era dovuta una memoria.
Che dire. Raccontare, credo, qualcosa di questo libro. Che, dipanando il tema della Nostalgia, nel suo legame con la Vita e con la Morte, apre temi e mondi del pensiero che restituiscono a noi, oggi, la contemporaneità di Ovidio e della sua poesia, di una condizione umana che ripete l’esilio come un modo d’essere dell’uomo sulla terra. Il pensiero della mortalità. E il pensiero della divinità.
“Siamo fatti di piccole eternità che ci guidano verso la morte, tra le orrende radure di quei momenti sinceri che ci ucciderebbero anche prima, se avessimo il coraggio di prolungarli.”
Mi proverò a raccontarne.
[i] 1901 – 1965. Scrittore francese, membro dell’Académie. Cattolico, in polemica con il pensiero esistenzialista. La sua Prefazione deve dunque risalire alla prima edizione dell’opera.