“Somiglianze di famiglia”

Umberto Eco, “Il fascismo eterno”, La nave di Teseo 2017

Il 25 aprile del 1995 Umberto Eco tenne un discorso presso il Dipartimento di Italiano e Francese alla Columbia University, per celebrare il cinquantenario della liberazione dell’Europa dal nazifascismo.

Pochi giorni prima, il 19 aprile, ad Oklahoma City era stato compiuto un grave attentato dinamitardo che aveva causato – leggo, per recuperare il ricordo -168 morti e 672 feriti. L’attentatore veniva, come si dice, dall’interno: si trattava di un veterano della Guerra del Golfo. Impazzito. Che in seguito fu condannato a morte tramite iniezione letale.

Il momento era dunque particolare per gli Stati uniti d’America dove esistevano bensì organizzazioni di estrema destra ma era fino ad allora stato possibile se non negarne l’esistenza quantomeno non considerarla una potenziale minaccia per la democrazia.

L’italiano Umberto Eco ha avuto dunque un momento eccezionale per la sua riflessione su ciò che, in una società, costituisce indicatore di “fascismo”: una realtà storica, di cui veniva commemorata, per il pensiero americano, la sconfitta definitiva; una realtà fattuale che la società U.S.A. non considerava parte del suo mondo, in un momento in cui lo choc per l’attentato rendeva anche quella nazione, sicura di sé, elettivamente cieca, per se stessa, rispetto al rischio-fascismo, aperta ad un ascolto. Straniato. Incredulo.

Una riflessione sulla parola fascismo, dunque; sul suo non possibile ritorno nelle forme storiche in cui si era realizzato nel ‘900 e tuttavia sul suo essere un fenomeno capace, nella sua essenza, di reincarnarsi in nuove forme storiche; una riflessione sui fondamentali del fascismo, sui germi che, in ogni società, ne possono indicare una potenziale recrudescenza in essere.

La parola <Fascismo> viene normalmente utilizzata come sineddoche, “una denominazione pars pro toto per momenti totalitari diversi.” E questo avviene perché vi sono, secondo Umberto Eco, “somiglianze di famiglia” che consentono di rintracciare lo stesso germe all’interno di ideologie e di regimi totalitari diversi tra loro, talora addirittura opposti; persino in regimi che possono apparire persino non compiutamente totalitari.

“Il termine <fascismo> si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. Togliete al fascismo l’imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il fascismo balcanico. Aggiungete al fascismo italiano un anticapitalismo radicale (che non affascinò mai Mussolini) e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il misticismo del Graal (completamente estraneo al fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola[i].

A dispetto di questa confusione, ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’<Ur-fascismo> o <Fascismo eterno>….ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.”

Giulio Cesare Andrea (Julius) Evola. Immagine anni ’40. Da Wikipedia

In cosa si assomigliano dunque esperienze radicalmente diverse quali il nazismo germanico, il falangismo spagnolo, il fascismo italiano; come individuare in esse una sorta di appartenenza di famiglia?

Non mi ci provo: Umberto Eco indica una serie di caratteristiche in un discorso la cui lettura, il cui ascolto, attento, non affrettato, regala il massimo della chiarezza, della semplicità ed eleganza; con il massimo della sintesi. È solo possibile proporre che venga letta.

Il suo discorso contiene tuttavia qualcosa di più dell’esposizione di una tesi. Ed è ciò che mi ha catturata, senza nulla togliere all’importanza di una grande lezione.

Nel breve tempo di una sia pur corposa conferenza, il professore ci intrattiene anche conversando e divagando piacevolmente; e spargendo, senza parere, attraverso aneddoti, ricordi e considerazioni segnate dalla sua nota e gustosa ironia, una manciata di semi da cui sorgeranno – per ognuno, singolarmente, dei suoi ascoltatori/lettori – collegamenti, memorie, pensieri e domande. Tante: ad esempio sul ricordo; alla ricerca di un orientamento, dell’aggancio a un pensiero che, non so bene, non disperda la nostra storia, personale e collettiva; i risultati di “civiltà” (scusate il termine) raggiunti e che oggi chiedono di essere declinati secondo nuovi paradigmi per un tempo di cambiamento.

Il pensiero divaga, dunque, dal testo; viene deviato su altri sentieri, e il lettore si trova a ciondolare sulle brevi e intense pagine di “Il fascismo eterno”, fermandosi alle singole frasi, fino a deviare dal testo.

Il lettore/ascoltatore (o quantomeno io) girovaga, cercando pietruzze di pensiero anche al di fuori di queste pagine, diciamo nei dintorni di Umberto Eco.

Umberto Eco

Mi imbatto così in una delle sue frasi che, nascondendosi dentro altre frasi, capaci di assicurare la levità richiesta a farla prendere sul serio solo a prezzo del porre molta attenzione, mi pare densa di suggerimenti: indiretti quanto si vuole; preziosi in ogni tempo, e tanto più in questo. Pagine che dicono dell’oggi e del futuro che ne dovrebbe derivare.

«Sono disperato per il fatto che ho ancora una posizione di rilievo all’Università, dirigo due collane editoriali, ho una rubrica su un settimanale e cose del genere. Perché qualcuno non mi ha ancora fatto fuori? Dove sono quelli che dovevano uccidermi almeno vent’anni fa come abbiamo fatto noi con i nostri padri? Che pena, che vergogna…».

Non so in quale occasione, in quale contesto, Eco abbia detto queste parole, che più di un sito riporta. Mi richiamano alla mente il film di Marco Tullio GiordanaLa meglio gioventù”, (2003) e la scena in cui Nicola (Luigi Lo Cascio), uno dei due fratelli protagonisti, sta completando un esame di Medicina.

Il vecchio professore (Mario Schiano) registra un meritato 30 sul libretto di Nicola e, nel corso di uno scherzoso dialogo, gli rivolge un anomalo (per il tempo) consiglio, condito da una interessante considerazione:

Professore “(…). Se ne vada dall’Italia, vada via finché è in tempo (…) L’Italia è un paese da distruggere, un posto bello e inutile, destinato a morire”.

Nicola sorride e chiede: “Secondo lei ci sarà un’apocalisse?

Professore: “E magari ci fosse. Almeno saremmo tutti costretti a ricostruire. Invece qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri. Dia retta a me. Vada via!”

Nicola, sempre sorridendo: “E allora lei, professore perché rimane?”

Professore: “Come perché! Mio caro, io sono uno dei dinosauri da distruggere!”

Il film colloca questo dialogo nel 1966. Siamo a Firenze. È l’anno dell’alluvione. Nell’aria i prodromi del ’68; il racconto si snoda fino al 2003.

Ezra Weston Loomis Pound. da: Wikipedia

C’era, nel 1966, nell’aria, o stava per arrivare, qualche segnale che, se non cataclismi, ma anche sì, profetava l’avvento di tempi difficili – forse per non dire che i tempi “difficili” erano già in atto; che già aleggiava il senso di un cambiamento che nulla aveva a che fare con le ancora sognate, postbelliche, magnifiche sorti e progressive.

Il film, girato nel 2003, ha giustamente profittato del fatto di sapere già tutto – sta proprio in questo, il bello di questo genere di storie in cui chi racconta finge l’allora ma abita già un poi. E porta noi che ascoltiamo a confondere.

Per non dire che credeva di sapere già e non sapeva, non sapevamo ancora, nulla. Oggi, meno che mai.

Il 1989 ha visto la caduta del muro di Berlino: la fine della guerra fredda non avrebbe dovuto significare il trionfo delle democrazie occidentali e la fine di quelle tali battaglie che ancora oscuravano le nostre, da qualcuno sempre attese, magnifiche sorti? Che non avrebbero dovuto essere, per l’appunto, <progressive>?

Il fascismo era morto. Ora anche il Comunismo era defunto, e dunque?

Anche in Italia – non abbiamo forse avuto i favolosi anni ’80? – parevano finiti i tempi bui; era il ’78 e De Gregori ci diceva che “la guerra è finita, il nemico è scappato, è vinto, è battuto” e certo, ironizzava, ma noi cantavamo quella strofa emozionati; pareva vera, non so come dire. L’ironia ci stava, senza dubbio, tutta, ma fungeva unicamente da copertura, per apparire disincantati, per non mostrare cosa? Un’emozione vera, il nemico era scappato, era vinto, battuto… si poteva sperare?

Una nuova generazione nasceva, figlia di genitori che non avevano conosciuto la guerra; ed è stata una generazione senza memoria delle stragi che in Italia sono state molte, pesanti, dolorose; sulle quali, ad oggi, si hanno ancora vaghe notizie mentre alcuni continuano ad aspettare Godot.

C’è una conclusione possibile a quanto sto scrivendo? A parte il suggerimento di leggere questo breve testo di Umberto Eco?

Non credo. Ma dopotutto, le conclusioni, non so come, non so perché, si rivelano sempre sbagliate. Inutili.

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[i] Che, per la verità, e nonostante le più che assodate “somiglianze di famiglia”, ebbe con il fascismo storico italiano una relazione non esente da conflitti anche pesanti. Per Giulio Cesare Andrea Evola, il fascismo non fu, credo (ho letto su di lui ma mai i suoi testi) abbastanza fascista.