La Nostalgia, patria dell’uomo

(segue)

“Vintilă Horia, “Dio è nato in esilio. Diario di Ovidio a Tomi”, Ed. La vita felice 2017

Tra poco è Natale: un caso, per un Natale che interroga. E a me non resta molto da dire su quest’opera, se non l’essenziale: occorrerà leggere un’opera che, recuperando, nella sua essenzialità vecchia di duemila anni, una storia della Nostalgia, ne fa risuonare la voce eterna.

Nostalgia: il dolore (άλγος) del ritorno (νόστος); che sarà dunque, per l’esule, dolore per “l’impossibilità” del ritorno; e sarà, insieme, il ritorno che si rivela, sempre, mai tale, poiché, sognando di riunire ciò che è a ciò che non è più, di riunire un nuovo tempo a un luogo che il tempo non abbia segnato, rivelerà la sua essenza illusoria; rivelerà l’impossibilità – ontologica, per l’essere umano – di riavvolgere il tempo e il cambiamento e l’esperienza.

L’essenza di ogni ritorno è e sarà sempre il “mai più”.

La nostalgia è dunque, sempre, il paradossale piacere di un dolore, sarà sempre il “dolore del presente”, rivelando a chi ne è preda il proprio essere per natura straniero, ovunque, impossibilitato ad avere una casa; gli rivelerà l’impossibile aver casa innanzitutto presso di sé, con sé.

E sarà Nostalgia per un sé perduto, o mai stato (perché ciò che <è> rimane); per una fede perduta, la cui fallacia non consente rinuncia, se non alla speranza, al cercar conforto proprio nel dolore – il modo umano per tenere presso di sé ciò che si ama; perché il dolore dà il conforto della concretezza, della verità.

Vintilă Horia ha preso a prestito la voce di Ovidio, nel suo esilio di Tomi, l’attuale città di Costanza, sul Mar Nero, ai confini dell’impero, assegnandogli la scrittura di un diario – otto capitoli, otto anni, senza il perdono di Augusto, prima e di Tiberio, poi; che si concluderanno al tempo della morte del poeta – per parlarci, attraverso la propria esperienza, irrisolta, dell’esilio, di un proprium della condizione umana.

Statua di Ovidio, Sulmona

Attraverso il diario, farà vivere al lettore l’incontro con una serie di personaggi, con luoghi, con avvenimenti, che ci condurranno dentro la domanda: sul lutto di sé, sull’esperienza della morte che ci accompagna lungo tutto il nostro percorso di vita; sul ricorso alla religione, per dare, per trovare, un senso a tutto questo, per resistervi.

Ed ecco: Vintilă Horia inserisce, quale filo conduttore della sua riflessione, dentro una narrazione che prende le mosse dalla storia (l’impero romano, le sue politiche di conquista e di espansione, la storia di popoli conquistati), un potente espediente di fantasia, facendo incontrare Ovidio con la venuta del Salvatore, a partire dal suo incontro con i Geti e con la loro religione del dio unico, o profeta, Zalmoxis; e con la credenza nell’immortalità dell’anima.[i]

Da qui, attraverso l’incontro con un sacerdote-mistico e, in seguito, attraverso l’incontro con un medico che poteva testimoniare sulla venuta al mondo di Gesù, e sulla iniziale diffusione del suo credo, Horia sviluppa un pensiero che, irrisolto, aprirà la domanda.

Ma ecco, è possibile che Horia avesse inteso, scrivendo questo libro, svolgendo il tema dell’esilio e della Nostalgia, fornire un ideale percorso di ricerca religiosa quale – balsamo? Risposta alla domanda sulla caducità dell’uomo e sul suo esilio quale condizione esistenziale?

Non lo so; direi non lo credo. Direi che neppure importa, anche se la domanda, innestata dall’espediente, ha un suo innegabile senso, in particolare proprio per il suo rimanere, come necessario, irrisolta.

Chi legge, incontra invece – solida, fatta di corpi e vite concrete – la condizione di vita esiliata; incontra la Nostalgia, il dolore per il desiderio di un ritorno, per la sua impossibilità temuta, per la quale non si trova pace, e contro la quale si lotta, senza vere armi, inutilmente…e sto uscendo, forse, dal testo e lasciandomi afferrare dalle mille nostalgie della vita che, come ognuno, conosco.

Tanto porta con sé questo libro. Chi legge diviene preda di una lettura che, forzando e anche no, l’etimologia della parola, la porta a divenire il dolore del ritorno così come del dover ritornare; il dolore che si posiziona sul crinale che divide il lutto, comunque vissuto – per ciò che si è lasciato, per ciò che si è trovato e che dovremmo scegliere di lasciare, nel dubbio sul possibile impossibile ritrovare – cosa? Per qualcosa che ci ha allontanati, da cui siamo stati allontanati, ancora una volta un altrove.

Come avviene tutto questo. Avviene attraverso persone (mi è ostico dire “personaggi”, perché saranno, tutti, persone che, incontrandole, riconosceremo); attraverso il ritrovarsi a vivere luoghi e avvenimenti, incontri e conversazioni; attraverso un abitare case e boschi e campi coltivati e fiumi, e guerra; violenza, morte, e pace.

Incontreremo Erimone, l’oste innamorato; e Lydia, la prostituta, o forse no, la giovane donna di cui lui è innamorato, lui che giovane non è più, come non lo è più la sua vecchia moglie. Erimone si confida con Ovidio; non chiede consiglio, solo ascolto e, sottovoce, quasi ma anche sì, nell’impossibilità di negarsi la speranza, chiede un ascolto-aiuto.

Busto di Dace (Geto), Musei Vaticani

“Ma, in fondo, che cosa vuoi da lei?”

“Un po’ d’amore. Ho bisogno d’amore per dimenticare la vecchiaia che si avvicina, la morte, il mio aspetto, il mio presente, il mio passato, la stupidità di questa vita che mi sono fatto da me, giorno dopo giorno. È l’ultima cosa che chiedo agli dei prima di crepare. Chiedo troppo?”

“Avrei dovuto rispondergli: Sì, mio povero amico, è troppo”.

E Ovidio gli scriverà, in lingua geta, una poesia per Lydia, per conquistarne i favori: dopotutto è, è stato, il poeta dell’amore, della licenziosità, e perché no, non sapendo cosa il futuro ci riservi. Non sapendo che tutto ha conseguenze.

Conosceremo Dokia, la donna geta che accudisce Ovidio nella sua casa di esiliato ma appartiene ad un altro uomo. Che ama.

Conosceremo l’amore di Ovidio per Dokia, e di Dokia.

“Non sfioriamo mai l’argomento del nostro amore. Ci amiamo e questo mi fa pensare a due fiori su due alberi diversi, che vorrebbero stare insieme e invece possiedono soltanto muti colori e profumi lontani per toccarsi, in mezzo alla stupidità e all’indifferenza delle cose”

Incontreremo Onorio, il romano incaricato di occuparsi di lui; che si mostra amico, da subito, pur nel sospetto iniziale da parte di Ovidio, dopotutto è il carceriere, anche se il carcere dove si trova non ha porte né chiavistelli: come privarsi, come poter far senza, da subito, di quell’amicizia, che sembra onesta, che è necessità.

Ci saranno i viaggi, nelle terre dei Geti; ci saranno altri incontri, e nuovi amici. Luoghi e storie, case e vita di romani disertori che hanno trovato, in quelle terre, un proprio mondo; che chiedono: raccontami di Roma.

Ovidio chiede. E l’ex soldato romano, disertore, racconta:

“Fu a Tempyra, in Grecia, che fuggii. Questa terra – e mi mostrò l’orizzonte, oltre il lago tranquillo su cui moriva il tramonto – è piena di disertori che hanno sposato donne gete, felici come me.”

“Perché sei più felice qui che a Tempyra o a Ostia?”

“Perché sono padrone dei miei giorni e delle mie notti. Perché nessuno mi costringe a uccidere. Sono libero. Che vuoi di più”

“Mi sorrise e mi versò ancora da bere.”

“Adoro Zalmoxis, il vero dio”

Vivremo l’incontro con il vecchio sacerdote, a Kogaionon, sulla montagna sacra, che è anche un fiume; e il viaggio per raggiungerlo. Ci sarà l’assalto dei Sarmati, durante il cammino del ritorno; e il nuovo amico, Comozu, che l’aveva accompagnato lo dovrà lasciare per correre ad allertare la sua gente.

Pittura rafigurante Zalmoxis, bulgaria

C’era stato l’assedio a Tomi, in precedenza, e Ovidio aveva partecipato alla difesa del villaggio, di quella sua casa straniera.

Gente che aveva fame – spiegavano gli abitanti, in questi casi – che cercava cibo per i propri figli, niente di diverso. Sarebbe bastato potersi parlare.

“Si fabbricano armi invece di parlare parole di pace.”

Ci sarà l’incontro con due vecchi coniugi, in una povera casa, che lo accolgono, lo rifocillano, raccontano di sé.

Avevano avuto due figli, ma “uno era morto in battaglia, Zalmoxis lo aveva chiamato a sé, loro non avevano nulla da ridire, se non che si sarebbero trovati molto soli, se anche il minore avesse raggiunto l’altro in cielo”.

Ovidio prova verso di loro il sentimento di un riconoscimento. Sapeva, di averli già incontrati. 

Alla fine del pasto mi ricordai. Era con i loro volti che un tempo avevo immaginato i due vecchi felici, Filemone e Bauci, i quali avevano ospitato Giove e gli avevano dato a bere e da mangiare. Per ricompensarli Giove…. aveva chiesto quale fosse il loro più grande desiderio, per attuarlo all’istante. Il re degli dei ebbe allora questa risposta: “Ausferat hora duos eadem…”[ii] perché si amavano ancora, di un amore tenero, “annis iuncti iuvenalibus”[iii]

Si congeda, deve rientrare a Tomi e il percorso è ancora lungo e pericoloso. La battaglia non era ancora finita, la distruzione sarebbe stata grande.

 “Filemone e Bauci avrebbero ritrovato il loro figlio maggiore prima di quanto avessero pensato e, se la guerra continuava, il minore li avrebbe raggiunti presso Zalmoxis”.

Tante storie, mentre il pensiero non lascia Roma, il dolore dell’esilio, la speranza sempre più fievole nel ritorno; e si accumulano le notizie sull’unico dio che era atteso, che anzi era già giunto, che avrebbe portato la pace, finalmente, e ci sarebbe stata casa per tutti, e la morte sarebbe stata vinta.

Mentre tutto questo accade – mentre il dolore continua, sordo; mentre la vita presso i Geti ha la sua storia, i suoi incontri, la sua bellezza e giustizia; mentre chi legge vive le storie, e chiede come è finita, e si interroga su sé, sui propri pezzi di vita esiliata e sulla propria esperienza della nostalgia – la mente scorre sulla storia dell’impero romano, sui popoli, e sui popoli oltre quei popoli, e sullo sguardo di altri occhi a quei fatti: e i ricordi (scuola, forse, altro, pezzi) si contorcono, gli scenari, le prospettive, cambiano. 

È tutto molto bello, non allegro, forse, ma bello. C’è la disperazione di Ovidio, come un fraseggio musicale di sottofondo, che dà il tono a una sinfonia; che a tratti, ricorrente, emerge in primo piano; c’è vita, amore, quotidianità. Sono pagine che fanno pensare. Che fanno bene.

Tra un po’, non molto, è un libro che chiederà di essere riletto. Nel frattempo, il pensiero continua a seguirne la scia.


[i] L’esilio di Ovidio è datato nell’anno 8 a. C., la sua morte al 17 o 18 d. C., mentre la nascita, storica, di Cristo, è accreditata tra gli anni 7 e 4 a. C., secondo la nostra datazione,

[ii]Che la stessa ora ci porti via” (Metamorfosi, VIII, 100)

[iii]Uniti sin dagli anni della loro gioventù” (Metamorfosi, VIII, 632)