È dicembre, il mese che dovrà-dovrebbe essere affannato di acquisti, programmi, addobbi, e relative scatole che salgono dalle cantine. Il mese felice depresso isterico, più lungo degli altri perché detiene, di fatto, una settimana aggiunta e cesserà davvero solo quando la Befana farà la grazia di portarselo via con tutte le feste.
Un mese dedicato ai riti che, per loro natura, non si possono cambiare senza snaturarli; né nei tempi né nei modi.
È obbligatorio compiere in sincrono le gestualità previste, il rito del dono, ai bambini e tra adulti, con annessi sorrisi baci e quant’altro da devolvere all’universo mondo che ci circonda indipendentemente dal desiderio di farlo. E ogni anno un po’ si soffre quest’obbligo sociale salvo accorgersi di non saperne fare a meno, pena il disagio, il disorientamento che ci coglie per un atto mancato.
Il prezzo da pagare per tutto questo è elevato, in tutti i sensi, ma lo paghiamo volentieri in cambio di un ritrovarci. Ci sono i bambini. Occorre tener conto della loro attesa, della gioia che ne segue e, infine, pagare il finale inevitabile di capricci e castighi quando, sovreccitati e sfiniti, i teneri pargoli diventano incontenibili; e gli adulti, che sentono di aver compiuto tutto ma proprio tutto lo sforzo loro richiesto, li vogliono finalmente a letto.
Nel nostro mondo esigiamo di venir, anche quest’anno, sommersi da scatole scatole scatole (reprimendo fermamente il sostantivo, o aggettivo a scelta, annesso, che la parola richiama).
A ben vedere, non è un mese per letture impegnative, che richiedano tranquillità – neppure ringraziando, si fa per dire, il brutale confinamento in atto e l’irregolarità di questo Natale che, va detto, un po’ ce lo consentirebbero.
Avrei – ho – un libro tra le mani: Keith Lowe, “Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale”, Laterza 2019.
È un libro che ha atteso. Molto. Un libro che avevo iniziato, quasi di getto, oltre un anno fa, e che, altrettanto di getto, è divenuto una lettura interrotta: per la necessità di averne cura. Perché quel momento non era il suo momento. Che ora è venuto.
Forse ne racconterò, ma non attraverso una recensione: per quella basta rinviare a quanto ne ha scritto Gabrilù, (qui)
Sarà una lettura, credo, per i giorni che stiamo vivendo, per i comportamenti cui stiamo assistendo; per capire da dove veniamo e cosa, chi ha la mia età, ha ricevuto alla nascita; cosa ha trasmesso.
Sarà forse, ma solo forse, interessante/utile farne un diario di lettura, perché mi pare, questo, un tempo che chiede di venir fruito.
Nel mentre credo sia un tempo che chiede di farsi leggerezza, che non è cosa di poco conto, come ben sapeva Italo Calvino. [i]
Sarà, per me, dunque, un tempo da dedicare anche alla narrativa di svago, potendo, di un genere buono.
Ed ecco i miei gialli per la buonanotte, con omicidio rituale quale saluto al giorno appena trascorso.
Niente pare ci aiuti meglio del trovare un colpevole, non è così? Pare che il gioco a trovare qualcuno cui attribuire la colpa di ogni nostro problema sia lo sport che più ci appassiona; persino più appagante del trovare dei rimedi. E cosa meglio del, sia pur datato, mandare alla forca, per via legale, un assassino? Potrebbe persino trattenerci, attraverso una soddisfazione della fantasia, dal compiere passaggi all’atto richiedendo, come sembra accada, il ripristino della pena di morte.
E allora, alla via così, con qualche “classico” leggermente noioso, con qualche morto che più morto non si possa, con qualche colpevole che neppure sia necessario odiare, non del tutto.
In tale compagnia, la notte diverrà occasione – di breve durata, sono letture che facilitano il sonno – anche per qualche riflessione sul genere. Pensieri a casaccio, che forniscono qualche filo da dipanare e hai visto mai che, alla fine, non ne esca di che farne una presina per pentole -regalo .
C’è qualcosa di riposante, di rassicurante, nel gingillarsi con le regole del giallo, sui mondi sociali che le esprimono, combinando elementi narrativi che si vorrebbero razionali (fattore facilitante il sonno che li rende insostituibili libri da cuscino) con situazioni che con la realtà di una morte violenta, e con una reale indagine di polizia, nulla hanno a che fare.
Non so voi, io ho sempre trovato piacevolmente esilarante provare a dar seguito al finale …e vissero felici e contenti (quando finalmente, nella sua versione classica, l’assassino della fiaba andrà alla forca, quale variante al matrimonio del principe con la principessa; e cosa meglio di una bella impiccagione per sentire di essere, come società, al sicuro dal male), dopo che il Poirot, o il Nero Wolfe di turno, per non parlare della insopportabile Miss Marple avranno scoperchiato la colpa; e dell’andare a vedere cosa sarebbe accaduto, con le “prove di colpevolezza” dei nostri amati geni dell’investigazione, qualora venissero prodotte in un reale procedimento giudiziario: tutti assolti, temo; e pure risarciti per ingiusta detenzione.
Eppure: il giallo disvela la temperie culturale di un’epoca; di un ambiente sociale; di una sottocultura delinquente come di una sottocultura egemonica: ed ecco il mondo provinciale della piccola aristocrazia inglese, la cultura alta (si fa per dire) del mondo intellettuale borghese U.S.A. (che, al tempo, avrebbe voluto essere europeo senza riuscirci: oggi non più); ecco la sottocultura dei bassifondi delle città americane – e se la precedente era N.Y, quest’ultima, negli anni ’30, sarà Chicago – e la Parigi delle brasserie e dei bistrot, dei faubourg e dei grandi viali in cui passeggia e sbevazza Maigret.
Rileggiamo, con piacere un po’ annoiato e punte ghignanti di improvvisa eccitazione, i vecchi gialli demodés – e cosa meglio di S.S. Van Dine le cui storie, diciamolo, presentano, oggi, qualche leggero tratto di oscenità.
Un romanzo per tutti: “La strana morte del signor Benson”; il prototipo, la prima apparizione di Philo Vance.
Credo che S.S. Van Dine sia l’autore da scegliere proprio per il suo essere l’iniziatore <americano> di un genere, l’autore che ha fissato (tra i primi, credo) le “le 20 Regole del giallo”, insieme a Raymond Chandler (che si è limitato a stilarne dieci.
Si rileggono ancora, questi gialli. Non per sapere chi è l’assassino; non è quello, in nessun giallo, il vero gioco, che sta invece nella scrittura, nel mondo che crea, nel supporto che dà ai nostri bisogni – proprio come accade con le fiabe. Nei testi, ritroveremo delle piccole chicche d’antan, del genere che cambia con il cambiare dei tempi e delle culture.
Ed ecco un piccolo florilegio di amene (e anche no) assurdità (e anche no) che si ritrovano in “La strana morte del signor Benson”. Perché uno come Philo Vance è un vero maestro dello sproloquio; batte persino Sherlock Holmes.
Descrizione di una testimone, che viene interrogata:
“… doveva possedere una scaltrezza taciturna come spesso si riscontra tra la gente ignorante.”
Un giudizio che, immagino, al tempo, fosse culturalmente implicito per il più raffinato lettore liberal nella democratica America: il fatto che la persona descritta sia donna, professione cuoca, aggiunge sapore al tutto.
Questa poi è per me godimento puro:
“I crimini possiedono tutti i fattori basilari di un’opera d’arte: approccio, concepimento, tecnica, immaginazione, attacco, metodo e organizzazione”
Come dirlo meglio! Inevitabile ripensare, per un solo veloce momento, a quel confusionario logico di Sherlock Holmes… per passare oltre e incappare in una bellissima asserzione del nostro esteta ricco bello algido raffinato pensatore (perché definire Philo Vance un investigatore sarebbe una volgarità).
“La prova indiziaria, Markham, è l’assurdità peggiore. La sua teoria non è dissimile dalla nostra attuale democrazia. La teoria democratica è che, se si accumula quel tanto di ignoranza alle votazioni, si produce intelligenza mentre quella della prova indiziaria è che, se si accumula una sufficiente quantità di anelli deboli, si forgia una robusta catena.”
(A scanso equivoci: concordo pienamente con Vance, anche sulla prima parte; con il correttivo – al tempo, ben formulato da, credo, Winston Churchill – che qualunque sistema diverso dalla democrazia sia da ritenersi peggiore, molto peggiore, inaccettabilmente peggiore. Non resta che ricordare che ciò che rende democratico un sistema di governo non è, di per sé, il voto bensì l’informazione cui possono accedere i cittadini e la sua qualità; e la conoscenza che permette di fruirne: vale a dire Istruzione e Libertà di stampa.)
E ancora: dialogo tra il Procuratore Markham e Philo Vance.
“Il vostro sistema trascura del tutto il movente – obiettò” (Markham:).
“È naturale – rispose Vance – essendo un fattore irrilevante nella maggior parte dei crimini. Ognuno di noi, mio caro, ha un ottimo movente per uccidere almeno una ventina di persone come accade nel novantanove per cento dei delitti. E quando qualcuno viene ucciso, vi sono dozzine di innocenti che avevano validi motivi per compiere il delitto quanto l’assassino”
Oppure:
Markham: “Ma noi poveri mortali crediamo che la criminalità sia un difetto del cervello”
Vance: “E infatti lo è (…) ma disgraziatamente tutta la razza umana ha quel difetto.”
Non so se Italo Calvino sarebbe d’accordo con il mio richiamo alla sua idea di leggerezza in quanto sto scrivendo. E da tempo penso che dovrei proprio rileggere le sue Lezioni Americane, e il Saggio sulla leggerezza in particolare: che con quanto ho scritto qui nulla ha a che fare, lo so bene. E tuttavia: la leggerezza sta nella pagina, sta in chi scrive ma, anche, e forse soprattutto, nell’attitudine del lettore; e nel momento in cui si legge.
Chiudo con un’ultima chicca di Philo Vance (finirò per ammettere che mi sta simpatico, quantomeno come elemento umano che può suscitare irritazione ma non noia, non davvero).
Vance a Markham: “Da quanto ne so, i vostri poliziotti vengono scelti per altezza e peso; devono rispondere a certi requisiti, come se dovessero solo occuparsi di sommosse e scontri tra bande rivali. Il grande volume: è questo l’ideale americano in arte, architettura, pasti al ristorante, e poliziotti. Un concetto affascinante.”
[i] Italo Calvino, “Saggio sulla leggerezza”. In “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, Garzanti 1988