Il rumoroso silenzio della montagna che muore

Marisa Salabelle, “L’ultimo dei Santi”, Tarka edizioni 2019

Mai che io riesca a fare un programma e mantenerlo! Avevo in programma di proporre, ora, la lettura di “Il pianista del Teranga”, di Abdou M. Diouf,  goWare edizioni 2020 ma, com’è come non è, sono stata presa dal bisogno di, prima, rileggerlo, perché fatico a scrivere di un libro la cui emozione di lettura sia già stata inquinata da un nuovo amore: sono una lettrice di facili costumi! Niente di male, credo, anche perché ritorno sempre a casa dai vecchi amori; non li dimentico – non per niente sono una fanatica della rilettura.

Il fatto è che, afferrata dalla voglia di conoscere la scrittura di Marisa Salabelle (che stava da tempo nella mia cosiddetta lista dei desideri), mi sono ritrovata a vivere alcune ore in un piccolo borgo di montagna: non sulle mie Dolomiti, sull’Appennino, territorio a me quasi sconosciuto; in un borgo di poche case sparse, dalle parti, o nel Comune, se ho ben localizzato il luogo, di Porretta Terme.

Mi sono ritrovata a casa, dentro un luogo del cuore; catturata da un paesino che non conosco a vivere in un mondo che, invece, conosco benissimo: in quel piccolo paese ero di famiglia, vale a dire nel luogo fondante gli affetti; che, per ognuno, è anche il luogo dei piccoli e grandi dolori indicibili; è il luogo dei segreti che vengono taciuti proprio in quanto saputi e dunque – ma è quasi un rito magico, scaramantico – cui non si deve dare voce: per non farli agire, perché il male non contamini i nostri luoghi di vita e il dolore, beh, il dolore si possa fingere sconosciuto.

Lungo ogni pagina, quel borgo ha avuto, per me, un nome; ogni persona incontrata, veniva riconosciuta. E apro una scommessa: sarà così per ogni lettore, dato che tutti abitiamo (anche) una personale piccola patria.

Per narrarne – dopotutto si tratta di un romanzo; di un giallo, per la precisione, quantomeno nella forma – l’autrice ha preso a prestito l’invenzione di un, anzi di ben tre, omicidi, regalando al lettore un noir, privo tuttavia di un grande protagonismo investigativo da parte di un, in questo caso, giornalista e di un dovuto maresciallo dei Carabinieri: pretesti, utili marchingegni, pur perfettamente plausibili, dove la storia, la sua verità, quella che il lettore abiterà, sarà tutt’altra.

Al lettore non resterà nella mente un percorso investigativo, che lo avrà condotto al necessario disvelamento finale. Resterà l’aver abitato un luogo, l’aver condiviso e riconosciuto segreti familiari, storie di vite, fatica del vivere; e affetti, legami: in breve, rimarrà nella mente l’aver condiviso storie, dentro casa.

Marisa Salabelle ci regala, con questo libro, un tempo e un luogo da riconoscere nella sua segretezza e intimità; ci offre una chiave di lettura, attraverso una fotografia macro che, nella riproduzione del piccolo, apre dinnanzi a noi un panorama capace di includere il mondo tutto, ogni nostra società, con le sue regole e le sue irregolarità.

Il dolore, dentro questa storia, non è collocato sul proscenio. Lo è la malinconia, molta; e una qualche rassegnazione stanca; con la fatica di (dover) continuare il cammino.

C’è, se si vuole, anche una speranza? Direi di sì; lasciata nelle mani del lettore, credo.

La storia.

Protagonista: il borgo di Tetti e la sua gente. Ci si arriva da una tipica strada di montagna, tutta curve, poco frequentata. Poche case ma, a poca distanza, altre microlocalità. Pochi gli abitanti, anziani. Tutti si conoscono, nel paese, ed anzi sono, per lo più, imparentati.

Una manciatina di cognomi; gli ultimi, in vista della ormai vicina morte di un luogo da cui i giovani se ne sono andati da tempo; dove i vecchi mantengono, tuttavia, il recitativo della proprietà: mascherati dentro una vita povera (non c’è nulla, nel luogo, che la ricchezza possa acquistare), sono possidenti, hanno case, anche giù in città.

Il borgo di Tetti è un piccolo mondo che prende vita ormai solo durante il breve tempo estivo, attraverso un piccolo turismo improprio in via di esaurimento: durante l’estate tornano infatti ad abitarlo i figli e i nipoti di coloro che, nati in quel luogo, lo avevano lasciato.

I vecchi muoiono e i figli, i nipoti, provvedono a ristrutturare la casa ereditata dai genitori, dai nonni; le donne vi trascorrono i mesi estivi; portano i bambini a respirare aria buona, per ritrovare – una propria altra casa? Radici? Un’appartenenza? Un colloquio in via di esaurirsi?

Saranno gli ultimi, il luogo è isolato dalle grandi vie di traffico. Ma dove tutti ci si conosce, viene rinverdita, di anno in anno, la storia del luogo – chi è morto, chi, dei vecchi, ha lasciato il paese ed è stato collocato in una casa di riposo, o è sceso dalla montagna a vivere in città, con un figlio. E ci sono quelli, cocciuti e imprudenti, che sono rimasti.

Tra questi ultimi vi sono i tre fratelli Santi. Con la cui morte tutto comincia – o finisce.

“Non fu la morte di Romolo Santi, ai primi di gennaio del 1999, a preoccupare i tettaioli. Gli abitanti di quel borgo dimenticato da Dio che risponde al nome di Tetti, un paesino minuscolo su un versante poco abitato dell’Appennino tosco-emiliano, erano abituati a fare ogni anno la conta dei vecchi che non avevano superato l’inverno, e quell’inverno non aveva fatto eccezione. A febbraio era morto Terenzio Bartoli, tanto per dire, e a marzo la vecchia Sidonia, di novantotto anni, per non parlare di Angela, la sorella scema di Svaldo, che però tanto vecchia non era, a dir la verità”

Romolo era anziano, ma era morto per un incidente: era scivolato sul ghiaccio, portando fuori la spazzatura, e aveva battuto la testa. A luglio, ancora a seguito di un incidente, era morto anche suo fratello Alvaro. Era caduto dal tetto, dove era salito per fare delle riparazioni: niente di strano, quei vecchi si credevano sempre giovanotti e si mettevano spesso in situazioni di pericolo.

Quando, tuttavia, quindici giorni dopo la morte di Alvaro, anche il terzo fratello, Romolo, era morto schiantandosi con l’auto contro un albero, mentre scendeva in città, la coincidenza di quelle tre morti ravvicinate fece sorgere dei dubbi.

Il giallo sarà l’alibi, e il marchingegno, che consentirà di conoscere la vita del borgo e la storia dei suoi abitanti, mentre niente, se non l’improbabilità degli avvenimenti, pare intervenga a indicare l’esistenza di un qualsivoglia possibile sospetto su quelle morti.

Conosceremo – ma sarà un personaggio di seconda linea – il Maresciallo Borghi dei Carabinieri di Porretta, impegnato a interrogare, si fa per dire, gli abitanti del luogo, che non conosce: ma l’appuntato Corrieri ha i nonni che erano di Tetti, e qualcosa sa.

C’è Saverio, un giornalista, la cui moglie, Valentina, fa parte del gruppo delle mamme in vacanza con bambini. Saverio raggiunge la famiglia nei fine settimana, e indaga per conto del giornale e per personale curiosità: ma ha altre storie da risolvere; storie difficili.

Conosceremo Mario, Il geometra del paese (ce n’è sempre uno, nei paesi), che sa tutto: delle case e, in conseguenza, degli abitanti.

Ci sono i turisti, donne con bambini, che chiacchierano del più e del meno, sedute fuori degli usci, a farsi compagnia.

Incontreremo altre presenze forestiere, che il luogo tollera a fatica, e cerca di ignorare – mentre i Carabinieri, come si dice, cercano di “attenzionare”; e ci saranno altre storie da narrare sottovoce, come cose risapute, o meglio da non sapere; storie che devono esser lasciare al di fuori della comunità; storie che non ne sono al di fuori, perché è illusorio tenere a distanza il mondo.

L’interesse del lettore per il, chiamiamolo fatto criminale, è davvero secondario (forse qualcuno, più di uno, sa; qualcuno sospetta; a nessuno interessa davvero che i fatti vengano portati alla luce) mentre, di giorno in giorno, vedremo dipanarsi le storie di vita di residenti e turisti; fatti antichi o almeno molto vecchi; fatti taciuti proprio perché noti e dunque, perché parlarne?

Conosceremo storie familiari costruite su segreti e bugie, tanto per utilizzare un detto-luogo comune e che, tuttavia, hanno una loro centralità all’interno di tutto ciò che accomuna tutti dentro la regola che impone il sapere tutto e tacerne; che impone il tenersi al di qua di quella linea di confine che distanzia, pur accogliendolo, il forestiero così come l’Ordine Costituito.

I segreti sono, per definizione, il luogo del confine; il luogo della membrana che filtra le appartenenze, che regola l’accoglienza con riserva – normando il tacere perché tutto si sa e dunque è inutile e improprio parlarne; separandolo dal tacere colpevole e doloroso di cose private il cui disvelamento farebbe male.

La storia si snoda, come un diario, di giorno in giorno, nell’arco di poco più di un mese. Chiuderà il tutto, a estate finita un epilogo – uno sguardo sul futuro possibile, su di una vita, anche del borgo, dove i vecchi terminano di morire; mentre la vita forse continuerà. Con un punto interrogativo. Forse.

Vale la pena di leggere questa storia; che trattiene il lettore presso di sé, non si fa lasiare, Fino alla sua conclusione.

È un libro amaro, certo, anche; che tuttavia odora di vita reale; della capacità di guardarla bene; della possibilità, anche, di operare scelte e aprire un futuro – buono? Forse no, forse non del tutto. Forse obbligato.  

C’è un’altra cosa interessante, in questo libro, ed è la casa editrice e, in particolare, la collana in cui il romanzo è inserito, dal nome-programma evocativo: “Appenninica”, a cura di Paolo Ciampi e Marino Magliani.

“Appenninica” è una Collana che si propone di dare visibilità ai nostri Appennini, alla storia delle comunità che lo abitano, alla ricchezza di opere che ne caratterizzano borghi e città. Mi pare un ottimo progetto.

Prima o poi una grande CE pubblicherà questa autrice, avendo utilizzato lo scouting che operano le piccole CE: non è il caso di attendere a leggerla.