Letture in movimento. Le pagine e i giorni (del Covid)

Ho salutato il nuovo anno accomiatandomi dal vecchio con i versi di Costantinos Kavafis (qui). Ed è iniziato uno strano nuovo anno. Abbiamo tutti scambiato, più o meno, le consuete frasi di auguri. Mentre stavamo – ma è storia di ogni tempo, pare – scordando Itaca, il nostro viaggio, il porto, traviati dalle distrazioni, dai desideri, dalle preoccupazioni. Nascondendo a noi stessi il dubbio che il viaggio verso Itaca, il viaggio della nostra vita individuale, non sia che una menzogna.

Nel dubbio, e nella paura, divaghiamo, illudendoci, deviando, dimenticando la meta, per ritrovarci d’improvviso a fronteggiare il passaggio tra Scilla e Cariddi, ben sapendo che non tutti ne usciremo.

Guardo ora i libri su mio tavolo, assegnando loro il compito di rivelarmi il percorso di un pensiero, di dirmi cosa vado cercando, in questi strani giorni incerti di sé.

È un tempo, almeno per me, che esalta la voglia di viaggiare; e i libri aiutano, consentono il viaggio, nel tempo oltre che nei luoghi. Mi accorgo tuttavia che devo fare ordine – troppi libri, su cui forse vorrò ritornare; pensieri che si accavallano. Per ora, l’inizio di una piccola, confusa carrellata.

Ed ecco, ricevo in regalo un corposo noir, ambientato nella Berlino degli anni ’20. Seguendo le investigazioni di un detective della Polizia Criminale, mi ritrovo a vagare dentro luoghi dai nomi conosciuti, uguali e diversissimi, e un mondo altro e insieme noto.

Volker Kutscher, “Babylon-Berlin”, Feltrinelli 2017.

Il libro fa parte di una serie, ambientata al tempo della prima Repubblica di Weimar, protagonista tale Ispettore Gereon Rath. Ed è stata una lettura piacevole; mi ha regalato un’occasione per girovagare dentro una Berlino di cui, se pure oggi non c’è più, riconoscere e visitare i luoghi, i nomi noti.

Ne è stata, mi dicono, ricavata anche una serie televisiva di successo; e credo che cercherò di vederla perché, va detto, l’interprete, l’attore Volker Bruch, è un gran bel ragazzo, dalla faccia interessante, e forse potrebbe aver migliorato un protagonista cartaceo che, diciamolo, qualche pecca di carattere la presenta e non si fa davvero amare, non del tutto.

Tra le letture-viaggio in corso c’è poi un tour dentro un’America del tempo che fu: difficile, in questi giorni, evitare un passaggio da quelle parti, dentro altri tempi, per cercar di capire, forse, come, da dove, si è arrivati ai giorni che stiamo-che lì stanno vivendo. Per capire, forse, se, come, tutto fosse già stato scritto mentre quel mondo sceglieva – e noi con lui sceglievamo – di non vedere, non proprio, non chiaramente.

Michael Chabon, “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay” BUR 2018. Un libro, affascinante, che è ancora in lettura.

Michael Chabon

In Europa sta scoppiando-è scoppiata la seconda guerra mondiale. In America sta scoppiando l’età d’oro dei comics, l’esplosione di un’arte per poveri capace di sostenere i sogni senza confonderli con la realtà; capace di far da sprone alla realtà.

Dovevo transitare da un quadro europeo, dove tutto era già accaduto e tutto stava accadendo, al “sogno” (ma davvero? Anche sì, certo sì) americano, e davvero nulla mi è parso migliore di un supereroe – un escapista, un Houdini, capace di sfuggire ad ogni cattura e ad ogni catena, in lotta contro il cattivo nazista; e cosa importa se si tratta di un fumetto e se la vita reale non è facile e la felicità, beh, non c’è che da saper la via per sfuggire l’infelicità e il dolore e la fatica rifugiandoci in un sogno buono per tutti, capace di tener a bada anche la guerra lontana ma presente, il mondo e le persone lasciate in balia della furia, un’appartenenza ebraica sempre e ovunque irrisolta.  

Ma che fare della malinconia, delle ferite del corpo e dello spirito, difficili da rimarginare; che fare di quel tanto di dolore che resta.

Mi ritrovo travolta da questa storia-mondo, fatta di storie individuali, leggenda e dura realtà. E confondo tutto, temo, i miei pensieri con un tempo, e con vite che, essendo state, <sono>, indelebili.

Interrompo la lettura-la riprendo. Ho bisogno di far depositare, sedimentare, cose, per tenere, in questo tempo, il pensiero su di una linea coerente, quando essere confusa è semplicemente dovuto. Difficile accogliere un mondo, un tempo, un altrove che è ancora con noi e, forse, fa paura mentre ci si concede un sogno che forse, solo forse, è già stato consumato o, che è lo stesso, è divenuto altro.

Così, continuando il mio viaggio nel tempo-spazio e alla ricerca del mito americano, è riposante andare a farsi una grande devastante bevuta dalle parti di John Fante:

“La confraternita dell’uva”, Einaudi 2016.

Ed è ancora sogno americano, uno strano sogno, fatto meno di realtà che di determinazione a sognare comunque. Al suo interno c’è qualcosa di entusiasmante, qualcosa che dice di tanta fatica, bella, scelta. Fa niente se non riusciremo a vederne la ricompensa, basterà la fiducia che ci sarà, per qualcuno, prima o poi, con la certezza che dice di un sogno condiviso, da vivere dentro una confraternita, per l’appunto, tesa a uno stesso fine, non importa quale. L’amarezza, tanta, solo un retrogusto.

Sto, temo, costruendo una mia America mai stata; vado alla deriva riscrivendo una mia versione del libro e del sogno: dopotutto, dentro queste pagine c’è tutto quello che il lettore vorrà metterci o ricavarci, specchiandovisi.

Poi uno pensa alla vita di John Fante; alla fatica, alla povertà, al rapporto di amore-odio con il padre; e con la madre; con un cattolicesimo colpevolizzante del sesso e null’altro; pensa a tutto questo, e ad altro, che allegramente si fa arte; alla fiducia, alla vitalità. Alla malattia che lo colpì – il diabete, la cecità, l’amputazione delle gambe; alla devastazione che non ne ha fermato la scrittura; alla solida famiglia che ha costruito, con la moglie Ioyce e i quattro figli; alle difficoltà economiche ed editoriali; al non amato lavoro come sceneggiatore.

John Fante

Uno pensa al sogno americano e alla morte di quel sogno, che John Fante impersona, dicendoci quanto è bello crederlo e investirci su: come se fosse vero, fino a farlo essere vero.

Sapete cosa? Si può anche morire per un bel libro; o con un bel libro da leggere tra le mani, proiettandovi e ricevendone vita e ancora vita e rileggendo vita e sogni.

“La confraternita dell’uva”: leggetelo, se non lo avete già letto; e nel caso rileggetelo, non occorre parlarne. E non so se, come si dice, sia il suo capolavoro, siamo certo al di là della gioventù bellamente colpevole, sognante e felice del ciclo di Arturo Bandini; ma, qualsiasi cosa la vita vi riservi, potrete avere sempre con voi la figura del vecchio Nick Molise, ubriacone felicemente disperato, con i suoi amici ubriaconi felicemente disperati e il conflitto con i figli. Non è male come compagnia.

Il vecchio Nick Molise chiuderà la sua vita amato e vincente; al suo paese, dove, alla fin fine “(…) volevano tutti bene al vecchio e ne apprezzavano i modi esplosivi. Capriccioso, rumoroso, profittatore della pazienza altrui, quasi sempre sbronzo, a San Elmo poteva starsene a briglia sciolta.”

E quando la notte tornava a casa cantando e rumoreggiando:

“Nella tranquillità dei loro letti, i concittadini dicevano – Ecco qua il vecchio Nick – e sorridevano, perché Nick era ormai parte delle loro vite.”

“Dicevano tutti così – questo è il punto – tranne i suoi figli (…)”

John Fante è morto nel 1983, aveva settantaquattro anni, avendo sempre al suo fianco la moglie Joyce. Era da poco uscita la ristampa di “Aspetta primavera, Bandini”, la sua prima pubblicazione, con una sua prefazione in cui aveva scritto:

Tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi, si ritrovano in questa mia prima opera. Di me non c’è più niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina.”

Bugiardo John Fante (ovviamente, è uno scrittore) anche se, come ogni buon bugiardo, provvede a infarcire la menzogna con sprazzi di buona verità.

Di John Fante va letto tutto, ogni riga scritta. Per guardare dritta sul muso la fatica di vivere e il dolore, e affrontarla con il sorriso, con la speranza, da vincenti, persino quando non sappiamo di esserlo, persino quando sappiamo bene di aver perso: altrimenti, a che servirebbe la felice invenzione e la fatica del costruire buone bugie, che sono meglio di una vittoria (che nessuno al mondo sa bene cosa sia).

Cos’altro? Ancora un quasi viaggio: in Italia – Arezzo? Firenze? – ascoltando un autore italiano di origini senegalesi che racconta, di noi, di un loro che è noi ma non solo, di storie che accomunano e fanno incontrare gente dentro a un piano-bar; di uno che suona, a richiesta ma non proprio; incontrando personaggi; incontrando vite esemplari.

Abdou M. Diouf, “Il pianista del Teranga”, goWare 2020, prima edizione digitale italiana.

Del libro, un romanzo di formazione che mi ha semplicemente catturata, invitandomi a ritrovare, forse, un mio tempo dimenticato, cercherò di parlarne a breve; unitamente alla curiosità che mi ha suscitato la CE, se così la si può chiamare, che lo ha editato. In e-book. 

Cos’altro? Perché sì, altri libri si sono ammonticchiati.

C’era stato, di Irvin D. Yalom, “Creature di un giorno”, Neri Pozza 2015, di cui ho già accennato (qui).

Non mi sono fatta mancare un paio di fiabe, di cui racconterò.

J. K. Rowlings, “L’Ickabog”, Salani 2020 

John Fante (ancora, non l‘avevo letto!), “Bravo, Burro!”, Einaudi

Chiudo qui la carrellata: dovevo davvero recuperare, almeno per cenni, un periodo di Covid-libri da ripensare, completare, in parte rileggere.

Per tornare, si fa per dire, dati i giorni che viviamo, a una qualche regolarità di lettura. Forse.