Il lettore appartiene ad una comunità? Appartiene a un gruppo sociale?
È identificabile una gnoseologia, una epistemologia – una teoria della conoscenza – del lettore? E che razza di domanda è? Da dove mi viene?
Da motivi diversi: anche, temo, da quel tanto di paraculaggine atto a nascondere il disordine che travolge le mie letture (e il pensiero, se potessimo chiamarlo tale). Niente di meglio del lasciarlo fuggire per la tangente.
Lo avevo ben detto che, nel corso di questa stramba estate, avrei scritto, non scritto, cialtronato, dedicandomi tuttavia – perché i buoni propositi c’erano tutti, in effetti – a ricondurre le mie letture a qualcosa come una coerenza; a ritrovare un loro filo logico.
Sono pure consapevole che il verbo <cialtronare> non esiste – ma oggi, pare, si possa molto. Dopotutto, se ho ben compreso, dovrò decidermi a scrivere <sé stesso> e <famigliare> nonché, temo, altre piacevolezze del genere.
Mi adatterò? Non credo. Sono vecchia, un po’ irrigidita. Il mondo avanzerà tuttavia senza che il mio (e altrui) disorientamento crei la minima increspatura d’onda nel vasto mare della lingua italiana. E per fortuna.
Finirà, se finirà bene, che mi scapperà l’errore (a forza di vederlo stampato!) e anch’io farò, finalmente, sbagliando, la cosa giusta.
Fuori tema: al mio solito. È quasi dovuto, in qualsivoglia sessione di chiacchiere.
Un’antropologia del lettore, dicevo – tanto per elevare al di sopra del mio “particulare” la questione. E la prenderò, temo, da lontano.
Ogni lettore è, cosa ovvia, un mondo a sé, così come lo è ogni individuo ma, nel contempo, noi tutti siamo animali sociali: dentro confini dati, possediamo, con la capacità correlata di superarli, anche la capacità di stabilire legami, di operare confronti, di condividere e non condividere idee, progetti, preferenze; amiamo farlo, necessitiamo di farlo, siamo in grado di espandere la nostra individualità ponendola a disposizione del gruppo, così da far massa, azione comune, di fronte alle difficoltà e agli obiettivi condivisi.
Ci separiamo sulle strategie utili a realizzarli ma, anche in questo caso, trovando forza in un gruppo, sottogruppo, in una delle tante appartenenze, provvisorie, variabili, che caratterizzano la nostra sempre precaria unicità.
Essendo noi in grado di possedere appartenenze multiple, e pure altamente contraddittorie (la variante tempo permette, ma comunque), ci rispecchiamo, pare, nei nostri libri – nostra rappresentazione, a loro volta capaci, ognuno, di appartenenze e identità multiple. Non per nulla ci rappresentano.
Ho trovato una bellissima definizione di <libro>: “Una cosa per dire cose”. Ma l’autore va oltre, precisa, sviluppa il tema:
“Cosa per dire cose: questo è un libro, se lo sappiamo far parlare. Se no, sta zitto. Il libro parla solo se tu vuoi, quando e quanto ti garba e quanto sai e puoi. Un libro è l’amico più discreto. Non si consuma un libro se lo leggi. Anzi, più lo leggi e più cresce. E tu con lui. Non è come col pane e col formaggio, quello che mangi tu io non lo mangio, e finito è finito…Un libro è meglio. Se lo leggono in molti cresce molto, finché è letto non smette mai di dire quello che ha da dire, a chi lo legge, che sia letto in silenzio tutto solo, o a molti a voce alta in compagnia…Toccano il cielo con un dito, i libri, anche se non sono né Bibbia né Corano (…) E parlano tra loro i libri, pure di se stessi. Tramite chi li legge. Grazie a chi li scrive”[i]
Il tempo – e la auto-rappresentazione che ne facciamo, elemento specifico della nostra specie – completano il quadro di riferimento in cui si colloca la specificità della “cosa” libro, nella sua relazione-specchio con il lettore, definendo così la propria e l’altrui specificità antropologica: la specie umana è la sola che scrive e legge; la sola la cui natura è cultura – e che, costruendo storie da tramandare, costruisce il tempo.
Potremmo obiettare che sono specifiche della specie diverse altre forme artistiche attraverso cui esprimiamo e comunichiamo i modi del nostro essere-nel-mondo-nel tempo: la pittura, la musica, la danza, e ogni altro linguaggio che ci permetta una narrazione; e dunque di “creare” mondi.
È tuttavia possibile rilevare nella scrittura e nella lettura un punto di sintesi di ogni altra forma espressiva, narrante, umana: l’attività del narrare in forma scritta (che vale per ogni realtà espressa dalla scrittura, registro di partita doppia compreso: sempre di una storia” si tratta) costituisce il precipitato ultimo unanimemente condiviso della nostra specificità.
(E qui mi devo trattenere: sento una grande propensione a lasciarmi andare, a vagare intorno a ciò che sto scrivendo – come dire che me la godo, in effetti – ma c’è qualcosa, molto, non so, da limare meglio. Ci ritornerò. Magari con qualcuno di voi, se ci sarete. Difficile uscirne bene, al di fuori di un dialogo.)
Vi sono dunque l’intreccio tra i tempi delle storie e il tempo di ognuno di noi. E, focalizzandoci sulla lettura come narrazione, sulle storie (romanzi, novelle, fiabe, racconti e quant’altro; non ultima la poesia) incontreremo le diverse età del mondo (futuro compreso) legandole alle diverse età della lettura: non separate, no; nessun rito di passaggio ufficiale le definisce e tuttavia, sarà veramente così?
Credo che ognuno di noi conservi, nella propria memoria, il momento in cui, bambino, gli è stato posto tra le mani – o in cui ha preso tra le mani – quel certo libro, appartenente ad un universo di lettura altro: che ha divorato, da cui è stato catturato, affaticato e affascinato.
Quel libro, l’averne scoperto il mondo, ha sancito l’ingresso di ognuno di noi in una nuova età, l’accesso ad uno status che autorizzava il percorso in direzione dell’età adulta (meno chiari forse i ruoli connessi; ci sono stati anche quelli, più o meno sottaciuti, problematici, fonte di contrattazioni infinite).
Il mondo adulto che ci circondava ha compreso? Credo di sì. Magari in modo confuso, ma sì. Ha veduto le nostre precedenti modalità di relazione al mondo cessare di esistere. Ha visto cambiare le nostre letture.
Accade spesso che il nostro mondo-bambino accolga il Cambiamento per il tramite di un libro. Da lì in poi vi saranno altri amici, altri interessi, altri bisogni; lo sguardo al domani si sarà allungato; si apriranno domande, e ancora domande, fino a…
Difficile. Entusiasmante. Doloroso. Eccitante. Travolgente – quel tempo in cui un demone ci ha condotti per mano ad altri libri, altre esperienze, a tutto ciò che conosciamo tutti molto bene.
Non è stato così per tutti? Non proprio? Per qualcuno, non c’è stato alcun rito, alcun attraversamento della parete di fuoco? nessuna uscita vittoriosa sul nuovo pianeta, con un superpotere tra le mani?

Non lo credo. E tuttavia: è nella natura dei rituali di passaggio costituire un momento di pericolo, un grave rischio; il fallimento è parte del contratto e non c’è, a ben vedere, protezione possibile, diversa dall’aver potuto avere, negli anni della crescita, strumenti e preparazione adeguata; cui – indispensabile – aggiungere molto del proprio. In questo frangente, nessun genitore-elicottero ha potuto atterrare in soccorso.
Ci saranno altri “esami”, altre prove; ci sarà tempo: nessuna dead-line. Ogni storia individuale – essendo, per l’appunto, “storia”, propriamente umana, culturale – farà i conti con un proprio tempo di strada che non potrà essere se non all’insegna del Divenire, del Cambiamento; della Crescita.
Il dubbio si insinua. Diciamo della Possibilità.
Anche qui avvengono commistioni, e si legge fuori tempo massimo, oppure anticipando il giusto tempo, dando luogo a comprensioni perdute, o infinite, mai replicabili, sempre parziali. Dopotutto, quell’io che aveva letto quel libro-evento sarà sempre, di necessità, un io scaduto; sarà, ad ogni momento, altro, <un> altro che legge e muta e modifica la propria relazione agli altri che cambiano; almeno fino ad un certo giorno, a un certo tempo, a un certo avvenimento quando…
Gli esami, e i rituali di passaggio, non terminano con l’accesso all’età adulta: altre fasi dovranno venir superate.
È strano, a pensarci, come tutto avvenga, di regola, senza che venga colta una soluzione di continuità, fino al momento in cui ci si ritrova: nuovi? scaduti? Inebriati d’altro? irriconoscibili a noi stessi?
Dite che tutto questo non ha, non necessariamente, a che fare con un libro?
Non lo so. Io penso di sì. E che valga anche per coloro che “non leggono”. Colui che “non legge” frequenta infatti, sempre, altri che leggono; coloro che “non leggono” non costituiscono un gruppo a sé, impermeabile rispetto agli altri.
Accade, dicevo, che attraverso gli incroci delle frequentazioni le pagine dei libri si insinuino, che quel cambiamento che le pagine hanno indotto in un lettore si trasmetta ad altri…diciamo a loro insaputa? Il pensiero è contagioso.
Dovrò rinviare a una seconda puntata il seguito di questo mio arzigogolare. Ammesso che sia il caso – e confido che me lo farete sapere.
C’è che tutto è iniziato quando, perdendomi per sentieri secondari mentre stavo facendo un viaggio di letture ben programmate (Erewhon, Gulliver…sul mio tavolo giace e attende “Il Barone di Münchausen”) sono stata rapita da altri libri – di cui dovrò raccontare.
Finisce sempre così. Per non dire di elucubrazioni a perdere, ma insomma. Scrivere è anche questo.
(Segue: forse)
[i] Giulio Angioni, “Sulla faccia della terra”, Feltrinelli 2015. Ho trovato la citazione, e ora il libro da cui è tratta si trova in mio possesso, in incipit di un saggio – Paracchini Roberto, “Appunti per una epistemologia della lettura: gli itinerari nascosti”. Medea, 3(1). https://doi.org/10.13125/medea-2665.