Bianchi E Maschi

Claudia Rankine, “Just Us. Una conversazione all’americana”, ed. 66thand2nd 2022. Traduzione di Francesco Pacifico

A un certo punto di una lunga “conversazione” – che Claudia Rankine apre con un capitolo-poesia*, sintesi e insieme varco d’accesso al suo pensiero; che in seguito terrà con se stessa e con un “noi” variato, con un noi portatore di “bianchezza”, con un noi “nero”; con la ”negritudine” in sé (si può dire?) e con qualcosa di diversamente “coloured” che, nel tempo,  cambia, può cambiare, può diventare “bianco” – si troverà questa frase:

“…c’è un nero nella casa di fronte che sta aprendo la porta di casa sua. Fate presto.”

È una delle tante frasi di sintesi che individuano la permanenza nel vissuto culturale “bianco” di un <razzismo neppure mascherato>; di un qualcosa che, negato spesso con imbarazzo, si mostra nei comportamenti della popolazione bianca (degli Stati Uniti, ma non solo) mentre chiede, ed è un paradosso, di rimanere invisibile.  

Claudia Rankine cita un articolo in cui Cheryl Harris** sostiene che “l’insieme di aspettative, privilegi e benefici che accompagnano lo status garantito dalla bianchezza è diventato un bene prezioso che i bianchi cercano di proteggere”.

E la domanda diventerà: “Come hanno fatto gli immigrati italiani, irlandesi e slavi a venir considerati bianchi?” – perché c’è stato un tempo, neppure molto lontano, in cui era diffuso, e difficile da definire, il non essere <bianchi> / l’esserlo in un contesto e non in un altro / l’esserlo forse / L’esserlo <quasi> / Ma anche no. 

La domanda si coagula nel chiedersi in cosa consista e cosa comporti <la bianchezza>; cosa significhi essere “bianchi”.

Ed ecco, poiché ognuno di noi ha una propria lettura, e tanto più di un libro come questo, in cui chi scrive non solo pone ma <si> pone domande, tante, non-concluse, aperte necessariamente ad altre domande, io mi ritrovo, ma proprio fin dalle prime pagine, ad attendermi una domanda che prenda le mosse dall’essere, Claudia Rankine, una donna: <E> una donna “nera”. 

Una donna che tiene un corso su “I costrutti della bianchezza“; e rovescia la domanda sulla discriminazione: da dove proviene il privilegio bianco?

Una donna nera interroga, nei suoi momenti sociali, negli incontri casuali, a un pranzo, in aereo, uomini bianchi nel merito del loro esserlo.

Mentre insegna, Claudia Rankine ricorda fatti salienti della storia americana – e rimpolpa il suo scritto, fatto di incontri, di domande ad altri e di domande a se stessa, con un apparato di note importante (perché è vero: ci sono fatti che si sono saputi, si sanno, si dimenticano, diventano inconosciuti.) 

In esergo, una frase – ripresa da uno spettacolo? – di Richard Pryor, comico e attore statunitense, che utilizza un gioco di parole “tra <justice> e <just us> per descrivere con ironia la solitudine degli afroamericani di fronte alla legge”

Richard Pryor, 1986

«Scendi giù in cerca di giustizia, ed ecco che ci trovi: Just Us, “Solo noi”»

L’autrice ci regala pagine intrise di soliloqui, mentre narra dialoghi che scavano un solco tra lei e interlocutori: come vogliamo chiamarli: “uomini bianchi democratici”? 

Che strano: mi accorgo che non esiste una parola, se non costruita per negazione, per dire  <antirazzista>. Quale dovrebbe essere? Tipo: malato / sano – razzista /<normale>?

Cosa può essere un qualcosa-nel-mondo che non possiede una parola per essere detto?

Rankine ci regala una conversazione fatta di storia “americana” di ieri e di oggi, che prende avvio da una riflessione divenuta un nuovo campo di studi: Whiteness studies – Scienza della bianchezza che “(…) ambiva a rendere visibile una prospettiva grazie a cui la bianchezza, in quanto associata a «normalità» e  «universalità», mascherò negli anni il proprio potere istituzionale.”

È dunque la <bianchezza> ad essere (ritenuta, sentita come) <normale>? La <norma> appartiene alla pigmentazione oggi, e sempre più, minoritaria nel mondo? Cosa avrebbe a che fare una pigmentazione del derma con uno, come chiamarlo, standard di piena appartenenza alla specie umana? 

Cheryl Harris

Il corso che Rankine terrà all’Università di Yale, dove insegna, si chiamerà dunque: Costrutti della bianchezza – e comporterà anche attività di ricerca attraverso interviste  a maschi bianchi: sulla storia americana, sul proprio rapporto con la bianchezza, su come avrebbero definito il proprio possederla, e il proprio <privilegio>.

Incontro così un’analogia che, al momento, non ancora, l’autrice non ipostatizza, tra una domanda sulla bianchezza e una domanda sul maschile, in relazione al fatto che ambedue gli ambiti pongono sé quali cosignificanti della <norma>, del <tutto> dell’essere umano.

Per contro, <il femminile>, come <la negritudine>, risulteranno – è implicito – <la parte>, che deve giustificare se stessa, venir studiata, compresa in una sorta di differenza da quell’<umano> tout court che il maschile e la bianchezza possiederebbero in forma, come dire: universale?

In questi nostri giorni la condizione delle donne iraniane e afghane sono il punto raggiunto, presso le società occidentali, dal cono di luce che illumina, sempre, una parte, separata da un tutto. Altre parti del mondo, dove il femminile vive la più abietta schiavitù, non sono contemplate: vale sempre la parte, mai il tutto.

Il femminile è stato segnato, in ogni parte del mondo, e in ogni tempo, da gradi diversi di marginalizzazione, ma pur sempre da uno statuto di minorità sociale e civile che, oggi, è superato solo formalmente ma non estirpato nel solo mondo, in senso lato, occidentale. 

Permane tuttavia, in molta parte anche del nostro mondo, una separatezza violenta, una minorità che nega di fatto, se non di diritto, all’essere umano-donna lo statuto di persona; permane nelle culture uno statuto proprietario da parte maschile che giustifica comportamenti violenti e sopraffazione diversi per quantità, non per qualità se – ed è esperienza comune – chiede alle donne ancora e sempre di venir contrastato, combattuto.

Nel mentre, il femminicidio pervade le nostre cronache e sbriciola il nostro vantato status di rispetto dei diritti civili e sociali mantenendo al maschile, con il bene-bianchezza per chi lo possiede, il bene fasullo di uno statuto che conferma il maschio come proprietario del femminile.

Manifestazione a Teheran, da: Repubblica, 5 dicembre 2022

Fa ciò sottovoce, ma neppure tanto, nel migliore dei casi in forza di un non-detto – la parola da usare sarebbe <inaudito>, nel senso proprio di non ascoltato: e tuttavia presente – e dunque, meglio sarebbe definirlo segnato da una sonorità  <inaudibile> dal corpo sociale. 

Claudia Rankine, ancora, non si sofferma sul femminile. Continua il suo excursus sul tema della bianchezza (maschile) e dei suoi privilegi. 

Per preparare il corso ho dovuto decostruire a poco poco l’idea di bianchezza e comprendere com’è stata creata. Come si è evoluta la legislazione dal Naturalization Act del 1790, che restrinse la concessione della cittadinanza a «qualunque straniero purché sia «bianco e libero»?”***

Intendendosi, ovviamente, straniero <maschio> bianco e libero: le donne non possedevano al tempo, per definizione, in nessuna parte del mondo, uno statuto di cittadinanza nella libertà. Oggi, il loro possederlo, in quanto non universale, è tuttora e sempre a rischio.

E Claudia Rankine domanda:

“Perché la gente è convinta che un abolizionista non possa essere anche razzista?”

Posso tradurre per analogia? Perché, nella nostra società, – ma meglio sarebbe dire in ogni società nel mondo e in ogni tempo – si attribuisce ai maschi l’essere portatori di una cultura patriarcale e alle donne il compito di lottare per ottenere, a brani e mozziconi, diritti loro negati?

È così, non c’è dubbio e tuttavia abitiamo una cultura condivisa, tra uomini e donne; la cui trasmissione, nell’organizzazione classica patriarcale, è peraltro affidata alle donne-madri che, vedi un po’, crescono/educano – quanto inavvertitamente /quanto per un sistema di valori introiettato e invisibile che le lega – i maschi assassini di un vicino domani. 

L’appartenenza culturale, che lega tutti, impone discriminazioni di lungo percorso, storicamente date, che colpiscono sulla base di una storia da cui un gruppo sociale proviene e prende a prestito, per giustificarsi, una (ma pure più di una, da luogo a luogo) pigmentazione del derma; o non invece, come avviene per l’antisemitismo, l’appartenenza – e fa lo stesso che sia mitica o fattuale – a un antico popolo supposto, sempre in base a una storia mitica, <colpevole> intrinsecamente di qualcosa.

In questo quadro, la discriminazione del femminile si presenta, unica, monolitica, come la madre, la radice, di tutte le discriminazioni, al punto da creare, al di sopra delle altre storicamente e diversamente presenti nelle diverse culture, un banco di coltura di quella che mi piacerebbe chiamare <L’Istituzione delle Discriminazioni>.

Esiste una strana solidarietà, nel mondo maschile, e in ogni parte del mondo, culturalmente trasmessa, anche e in buona parte dalle madri, nel merito della discriminazione femminile, che travalica sia le diversità filogenetiche proprie della razza umana (che è una, e una sola, prova ne sia l’esistenza del meticciato benedetto) sia le differenze di classe sociale. Si tratta di quella solidarietà che, quando si tratti di mantenere la discriminazione – la costituzione come parte a sé, come diversità – delle donne, unisce tra di loro, nella stessa battaglia e con la neppure tacita benedizione delle madri, bianchi e neri, meticci e gialli nonché padroni e lavoratori in lotta tra loro. 

Si tratta di quel luogo della mente in cui servi e padroni, bianchi e neri, e comunque diversamente pigmentati, si costituiscono in lega. 

Attendo, leggendo Claudia Rankine, ascoltandola porre domande e parlare con se stessa – lettura affascinante, che non chiede, né credo si proponga, di sostenere una tesi, bensì di indurre a <pensare> –  e ascoltandola mentre gioca con la propria vita e con quella altrui decostruendo, come detto, l’idea di “bianchezza”; attendo, dicevo, che venga al punto, come donna.

Natalya Alonso, Università della Columbia Britannica

Ed ecco. il tema del femminile arriva. Non tematizzato in quanto tale, per scelta o meno, ma arriva, a proposito delle ragazze nere che si tingono i capelli in biondo; ma vedi pure Michelle Obama con le sue chiome nere, lunghe e perfettamente lisce. Ma vedi pure le <bianche> che si tingono bionde.

“La giornalista Christina Cauterucci scrive che: “Solo il 2% della popolazione mondiale e il 5% della popolazione bianca degli Stati Uniti è bionda di capelli, ma il 35% delle senatrici statunitensi e il 48% delle amministratrici delegate delle 500 aziende più quotate negli Stati Uniti sono bionde. Anche le  rettrici universitarie tendono a essere bionde.”

Cauterucci cita poi uno studio delle ricercatrici Jennifer Berdahl e Natalya Alonso (2016) secondo cui “la sovrarappresentazione delle bionde si può spiegare con i pregiudizi di razza ed età propri dei contesti manageriali (…). 

Jennifer Berdahl, Università della Columbia Britannica

“… le donne potrebbero essere afflitte dal sospetto strisciante di essere delle fallite senza quella biondezza. Quando sono diventata bionda sono diventata me stessa, dicono in tante. Tu guarda. Se dici voglio essere me stessa e la cultura dice che il sé che conta è biondo, allora oh, beh – al diavolo – facciamoci bionde. Merda. Dopo un po’, ci si ritrova tutti d’accordo su chi sembri umano, giovane, bello, umano, e – l’ho già detto umano?”

L’autrice torna a bomba: lasciando la specificità femminile?

“La bianchezza e la globalizzazione praticamente sono una cosa sola. O forse il punto è che va bene tutto, ma non la nerezza.”

Ecco: per parte mia, per il pensiero che mi hanno suscitato queste pagine, credo che occorra estirpare la madre di tutte le discriminazionila separatezza del femminile: innanzitutto dalla testa di noi donne.

Potrebbe essere la sola strada per far crollare ogni discriminazione su se stessa; e per aprire la strada alla fine del modello-guerra come modo (maschile e fondato, come ogni discriminazione, sulla separatezza noi-loro) di composizione dei conflitti.

Ora, leggere Claudia Rankine non ci dà soluzioni; ci allena a pensare, a tutto tondo, anche fuori tema.

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NOTE:

*In: “le parole e le cose”, Recensione che val la pena di leggere, qui

** Cheryl I. Harris è una teorica critica della razza e professoressa di diritti civili e libertà civili presso la UCLA School of Law. Harris è ampiamente nota per “Whiteness as Property”, pubblicato nell’edizione di giugno 1993 della Harvard Law Review

*** la Guerra di secessione che abolì la schiavitù negli Stati Uniti d’America, combattuta dal 1861 al 1865, vide la vittoria degli abolizionisti ma, già dopo pochi anni, una legge, il Naturalization Act del 1790, stabilì che nessun immigrato “schiavo” o non <bianco> avrebbe potuto ottenere la cittadinanza americana: la rimonta era già in atto. E proseguirà.