Quando una storia di vita è gioco

Alberto Asor Rosa, “Storia di animali e altri viventi”, Einaudi 2005

Devo fare una confessione, a me stessa innanzitutto, cui far seguire il dovuto atto di contrizione, pur se non so bene quale possa essere.

Quando il 21 dicembre scorso è giunta la notizia della morte di Alberto Asor Rosa ho avuto una specie di smarrimento dovendo accogliere, con il fatto – ci aveva lasciati uno degli ultimi intellettuali il cui insegnamento ha accompagnato generazioni di studenti non solo nella conoscenza della letteratura italiana ma soprattutto nella formazione alla cittadinanza – la consapevolezza di una anomala forma di presenza-assenza, nel mio orizzonte di pensiero, di quel volto noto.

Sapevo bene, in certo modo sapevo tutto di lui – nulla avevo (più?) memoria di aver letto di suo.

Alla familiarità – lontana nel tempo, da tempo dimenticata – della sua figura, nulla corrispondeva più nel mio oggi, nessun suo libro nella mia biblioteca, mentre in un mio ieri Alberto Asor Rosa era stato un riferimento.

Dimenticato? Sono certa di no. Eppure.

È esperienza comune di chi legge, con il trascorrere degli anni e nel ricordare le vite vissute, utilizzare dei libri come appiglio alla memoria.

Alberto Asor Rosa

C’è in tutti, insieme a ciò, la consapevolezza del fatto che, se pur non sia possibile ricordare tutto ciò che si è letto, resta certo come, nella nostra vita, le pagine lette abbiano influito nel farti essere chi sei.

Possibile che lo abbiano fatto anche le pagine non lette? Più che possibile. Questo vale  – e sono certa di averlo già detto (saccheggiando Umberto Eco) – anche per i libri che sono stati letti non da noi ma dai nostri compagni di strada, dal gruppo di appartenenza, che hanno dunque contribuito a fornire carne e sangue al dialogo: come li avessimo letti!

I libri, nelle nostre diverse età, ci hanno cresciuto, si sono occupati di noi; abbiamo dialogato con loro, sia nel trascorrere insieme qualche ora di svago sia che abbiamo posto loro/che ci abbiano posto domande, fornito risposte, provvisorie e fondamentali.

Inevitabile dunque il mio bisogno di recuperare alla memoria chi sia stato Alberto Asor Rosa; con la scoperta, inattesa, del suo essere stato, dopo il pensionamento da Professore di Letteratura italiana alla Sapienza, anche un meraviglioso narratore.

Ora non potevo esimermi dal leggerlo in questa veste: ho così incontrato un  – romanzo? Non proprio.

Storia di animali e altri viventi” è l’autobiografia di due personaggi inusuali; più altri due, a loro volta, forse, diversamente inusuali nella loro: umana normalità?

Alberto Asor Rosa ha voluto provarsi, in forma di gioco – avendo ben presente come il gioco sia una cosa molto seria, carica di verità – a sorpassare un trito, e diciamo bugiardo, per convenzione universalmente accolta, concetto di autobiografia.

Ci ha regalato così una storia bellissima; una storia laica di verità e di vita; una storia commovente e divertente, da cui il lettore si commiaterà con uno di quei bei nodi alla gola che solo dà la rivelazione, quando accade, di un incontro con vite che danzano insieme i propri giorni nell’amore e nella “corrispondenza di amorosi sensi” (Foscolo mi perdonerà,  ma il suo verso esprime ed interpreta molto altro e più di quello che il suo autore voleva).

Ed infatti, ecco un incipit inatteso, rivelatore, pur se ancora non sappiamo chi siano i personaggi che incontreremo (se non dal titolo, dai! Un piccolo suggerimento, a suo modo volutamente deviante e accattivante), quasi una dolce excusatio non petita nascosta nell’apertura di colloquio: “Da qualche tempo…”

È giunto, per il professor Asor Rosa, il tempo della pensione, ed egli può ora cambiar verso alla propria vita, farne il palindromo improprio che il suo patronimico suggerisce, invitando a qualcosa… e chi mai avrebbe potuto sospettare, dopo quell’accattivante, giustificatorio, primo breve capitolo, ciò che seguirà.

“… preferisco la comunicazione telepatica a quella verbale. … La intendo nel senso che qualsiasi trasmissione del pensiero, che non si avvalga dei sensi, e neanche della parola, sia telepatica. In questa versione, che importanza ha la distanza?… Per comunicare senza parole, solo col pensiero (da lontano o da vicino, ripeto, non importa), non c’è bisogno di poteri paranormali ma di una fortissima carica di simpatia, di una grande intimità e di una dedizione assoluta. La telepatia  è insomma, in buona sostanza, un atto d’amore”

Interessante, non è vero? In quanto scritto da un egregio professore di letteratura italiana e di italianistica, da un critico letterario eccelso; da uno che allo studio della parola, e alla sua funzione “politica” nella società umana ha dedicato una vita.

Dopo questo, la voce dell’autore non si presenterà più alla prima persona – salvo, per il lettore, un udirla fusa nel pensiero e nella voce narrante dei compagni di vita, proveniente, per l’appunto, da una amorosa intimità, da identità che chiedono, per esistere, di farsi specchio di un altro, e di un altro ancora; per amare, per vivere e (non) morire.

Parleranno dunque le voci di Micio Nero, gattino di origine proletaria e di Contessa, la “cana” di elevata nobile razza; sarà il loro pensiero a raggiungerci.

Li ascolteremo narrare la propria storia e la relazione che li lega ai loro umani, attraverso, ebbene sì, la trasposizione della loro esperienza e del loro sentire in linguaggio umano, pur essendo loro ben chiari, come lo sono all’autore, i limiti dello stesso.  

Non avete l’impressione anche voi che le parole non bastino più a trasmettere correttamente il pensiero, che anzi sempre più lo stravolgano e lo deformino?”

E allora: “Chissà che nello sguardo e nel fiuto (di una “cosiddetta bestia”) non ci sia un codice più puro e più sano: insomma, una specie di ritorno alle origini, quando neanche l’uomo pensava che parlare significasse soprattutto ingannare”.

In chiusura di questo primo breve capitolo, Alberto Asor Rosa ammetterà:

Questa “storia a più voci” – umana solo nella forma, resa necessaria dalle opportunità – nasce da un esperienza del genere”.

Con pure un P.S., a mascherare il tutto con lo scherzo (di forma, solo di forma; e di allegria):  Ovviamente la telepatia è l’anticamera della metempsicosi.

Il secondo capitolo, a sua volta, è preceduto da un’avvertenza:

Tutti gli episodi di questa storia sono rigorosamente reali ma nessuna delle voci parlanti accetterebbe di riconoscervisi.”

Così, con un postscriptum e un’Avvertenza, Alberto Asor Rosa ci conferma giocosamente l’assunto precedente: la parola serve per ingannare.

In questo caso, sarà un inganno delizioso, carico di verità, di amore e umanità.

Di pagina in pagina, assisteremo allo svolgersi della storia di vita, narrata in prima persona, di Micio Nero, un cucciolo sperduto, che inizierà a conoscere l’amore di un uomo che, per lui diventerà Pa; mentre loro due insieme diventeranno un Gattuomo.

A Pa si aggiungerà, in breve tempo, una umana femmina – e dovrà esserci una non facile contrattazione che lei, dopo un inizio burbero, renderà una ulteriore fonte di affetto. La femmina umana diventerà Mo, la sostituta della “Momma” gatta perduta.

L’arrivo di una cagnetta cucciola, che diventerà un bel cane di nobile antica “razza Esterhazy” – giusto per curiosità, un Weimaraner o non importa? – completerà il quadro della convivenza, dopo un difficile inizio: faticoso, per Micio Nero, accogliere la nuova venuta, per di più cane.

Conosceremo così  la storia di Contessa, seconda voce narrante; conosceremo le peripezie che la porteranno ad adottare la coppia umana e un solo iniziale nemico Micio Nero.

Che dire. Impossibile dare una restituzione di questo libro. Mai, in precedenza, avevo udito la (vera) voce di un gatto, e decriptato il possibile racconto della sua vita, tanto per fare un esempio, con me.

La voce, nascosta, leggermente filosofeggiante del gattuomo, ci irretirà pure nella sua versione canina, che si farà letteraria – e una “cana” di alti natali si troverà a condividere (era inevitabile) la voce non dichiarata dell’autore:

Io e il racconto, in primo luogo: indissolubilmente legati. Formula approssimativa….anzi tautologica: infatti, se non mi raccontassi, non ci sarei. Ci sono perché mi racconto (…)”

“(…) Dunque, direte voi, Nataša Rostova, Andrej Bolkonskij, Pierre Besuchov, – e non solo loro, ma anche il crudele Anatolij, anche la bellissima e corrotta Hélène, – non sarebbero stati, prima di scendere sulla pagina scritta e di restarci per sempre (…)”.

Pure se:

“… non ho alcun dubbio che la mia naturale eleganza e la mia impetuosa gioia di vivere sarebbero in grado di competere con le doti che Lev Tolstoj, cavandole miracolosamente dalla sua maschilissima natura, aveva un giorno lontano sognato e pensato per quella deliziosa, inimitabile figura di fanciulla, che è Nataša Rostova (con la quale comunque io avverto tanti punti di contatto).”

Resta il tema del linguaggio umano-centrico (come Contessa lo chiamerà); e il tema dell’esperienza, su cui invece basare la propria lettura del mondo.

Resta il tema della capacità che Contessa chiamerò di essere “metamorfanti”, capaci di entrare nell’esperienza dell’altro, non importa a quale specie appartenga – alla specie dei viventi, nessuno escluso.

Ed ecco, dalla voce di Contessa, il postulato: “(Io), che del linguaggio faccio solitamente a meno, penso l’esperienza: l’esperienza vissuta, quella da cui tutto parte e a cui tutto ritorna (per me, per Ma, per Mo, e per molti altri).”

Resta la possibilità dell’incontro. E, in questo, la possibilità che la falsità del linguaggio umano, con la sua capacità di mentire, si sciolga.

In queste pagine, chi legge attraverserà un’intera vita gattesca, accompagnando il primo compagno, seguendone la voce, fino a…”quando – è una possibilità – “saremo, e per sempre, finalmente felici.”

Davvero: non perdetevi questo libro.