Diana Athill, “Da qualche parte verso la fine”, Rizzoli 2010. Traduzione di Giovanna Scocchera
“Vicino al parco su cui si affaccia la mia camera da letto è venuta ad abitare una famiglia con cinque o sei carlini, cagnetti vivaci (…) Li ho visti di recente durante la loro passeggiata mattutina e ho sentito una stretta al cuore. Ho sempre desiderato un carlino e ora non posso averlo, perché è ingiusto comprare un cucciolo quando sai di essere troppo vecchia per portarlo fuori a passeggio.”
Un altro desiderio: l’anziana Diana Athill aveva desiderato acquistare una felce arborea per il suo giardino, una pianta che sarebbe dovuta divenire di alto fusto. Le era pervenuto un germoglio di pochi centimetri che, dunque, lei mai avrebbe potuto vedere diventare un albero: avrebbe solo potuto vedere la felce crescere, lentamente, per altri.
In chiusura, in un Post Scriptum – e assicuro, in questo caso non si tratta di spoiler – l’autrice riflette:
“(…) Avevo ragione quando dicevo che non la vedrò mai diventare una pianta di grandi dimensioni, ma non credevo che avrei provato tanta gioia nell’osservarla per quello che è ora, una semplice felce. È valsa la pena comprarla.”
Diana Athill (1917 – 2019), professione editor, cofondatrice, con André Deutsch, della omonima Casa Editrice britannica, nonché scrittrice di memorie – una donna la cui vita ha attraversato il Novecento – ha affrontato, a novant’anni, il tema della vecchiaia in tutta scioltezza, libera (scegliendo di liberarsi) dalle pastoie culturali che hanno segnato la vita delle (altre) donne: capace di, neppure per un momento, farsene condizionare; <scegliendo> di non pagarne il fio. E, per la verità, senza neppure toccare, senza porre a tema, il femminile in quanto tale; che sembra abbia vissuto in assenza di qualsivoglia possibile condizionamento. Come dire che si può?
Nata in campagna mentre le bombe cadevano su Londra, ha lavorato lungo mezzo secolo; ha attraversato un’altra guerra; ha vissuto, come tutti, drammi personali e sociali.
Quale Novecento ha vissuto Diana Athill? Chi lo ha vissuto, e ha cercato di tramutarlo, se non in Storia, in cronaca (e in ricordo, anche solo personale), fatica nella messa a fuoco di un secolo tutt’altro che breve; ne ha subito gli accadimenti, da cui il ricordo non riesce a prescindere.
Il Novecento è stato un secolo che pare non finire; un tempo che pare avvitarsi su se stesso, portando al parossismo i contorcimenti che lo hanno contrassegnato nei rapporti tra un concetto malato di Nazione e la vita quotidiana delle comunità, nel loro essere fatte per incontrarsi; un secolo che ha ingabbiato i suoi abitanti umani (e non solo) dentro una spirale senza uscita.
Ci ritroviamo, ancora oggi, nell’incapacità di chiudere quel secolo: di uscirne, ritrovando il respiro.
Non per Diana Athill; non per lei che, con grande saggezza, non ascrive a fatti della propria vita ciò che è stato dramma del mondo. Non ne parla proprio. Lei, ha continuato ad occuparsi dei suoi libri, dei suoi autori; così come dei suoi amori; dei suoi viaggi e della bellezza del mondo.
Nello stupore per questa lettura mi ritrovo a fronteggiare un confronto. Penso: solo dieci anni separano, alla nascita, Diana Athill da Simone de Beauvoir – secoli, parrebbe, cui certo avranno contribuito gli oltre trent’anni che le separano nella morte: 1986 – 2019. E se non è possibile – e non lo è, ma dovrebbe – porre nello stesso scaffale “Il secondo sesso” e questo “Da qualche parte verso la fine”, è sconcertante il confronto tra due donne che hanno affrontato, e vissuto, il loro femminile in modo simile, e in totale diversità.
Diana Athill scrive come se il tema del femminile (quasi) non esistesse; scrive della propria vita – a partire dalla vecchiaia, sulle fila dei ricordi, di una vita trascorsa all’insegna della più tranquilla libertà sessuale, senza farne una bandiera, come fosse una semplice scelta personale; scrive, ma neppure molto, della passione che ha fatto di lei una grande editor. Vive i suoi amori. Dopo un primo (come tutte e tutti, o giù di lì) fidanzamento fallito, respinge il matrimonio. Non avrà figli, senza porre a tema generale, in quanto donna, tutto ciò. Ne parla, ne scrive. È – si è fatta – libera.
“Sono sempre stata consapevole, nella mia vita adulta, delle ampie probabilità che gli uomini hanno di essere tecnicamente infedeli, tuttavia fu necessario che Paul mi lasciasse per capire che anche le donne possono tirarsi su di morale con un po’ di sesso senza amore.”
Nel risvolto di copertina di un altro suo libro-mémoir, scritto dalla Athill a quarant’anni, “Sarebbe bastata una lettera”, leggiamo (qui):
“(…) “aveva scritto questa autobiografia per scoprire la verità su se stessa e su ciò per cui è stata la sua vita. Il suo libro è onesto senza compromessi. Eppure, sebbene discuta con insolita franchezza questioni che di solito non vengono discusse dalle figlie di colonnelli britannici allevate in modo convenzionale, non è mai imbarazzante, perché niente la mette in imbarazzo.”
La sua storia:
Terminati gli studi, inizierà a lavorare alla BBC fino all’incontro con André Deutsch, un ungherese, in esilio a Londra, che affiancherà nel suo progetto di dar vita a una casa editrice: la André Deutsch ltd.
Seguirà, come editor, grandi autori, accompagnandoli al successo – a solo titolo di esempio: Jack Kerouac, Jean Rhys, Philip Roth, V.S. Naipaul, Margaret Atwood. Inizierà a scrivere, a quarant’anni, ottenendo un ottimo riscontro dai lettori e dalla critica.
Non secondario: da autrice, ci regala una scrittura perfetta, gradevolissima, coinvolgente. Da, immagino, editor di se stessa, non avrebbe potuto avallare niente di meno.
Viaggerà. Conoscerà mondi. Conoscerà amori. Avrà, per decenni, un compagno divenuto, nel tempo, un amico, che diverrà <famiglia>, pure estesa a una nuova compagna di lui, in particolare quando – lei lo dice così – avrà “smesso di desiderare ciò che la giovinezza desidera”; magari, con un piccolo sussulto, scoprendo che lo si desidera ancora, un poco, e che lo si potrà trovare <fuori casa>, senza perdere l’amicizia divenuta fraterna dentro casa. Vedi un po’. Accidenti al patriarcato e alle sue regole distruttive.
Aveva avuto altri compagni di vita, per lunghi e meno lunghi periodi, riconoscendo di non avere, se non una sola volta, per un solo giorno, vissuto la gelosia: un’esperienza che le aveva insegnato quanto la cosa fosse assurda.
Anni ‘60. L’Africa, la Nigeria, dove la sua casa editrice aveva avviato: una filiale? nuova casa editrice? comunque un’attività, che aveva portato alcuni autori africani nel catalogo, portandole l’esperienza della situazione dei paesi da poco diventati indipendenti, delle relazioni che lei chiama “interrazziali” (ecco, una piccola caduta nel tempo cui Diana Athill appartiene, ma ci sta, e non ci sarà bisogno che qualche bello spirito pensi a ripulirne il linguaggio, proprio no).
Ed ecco la storia del suo compagno di quel tempo, uno scrittore giamaicano, laureato a Cambridge, che narrava di essere veduto come “un inglese piccolo, tozzo e scuro” mentre, chiosa Athill, “era nero abbastanza da aver ricevuto la sua dose di insulti da parte dei bianchi; ed è impossibile non immedesimarsi e simpatizzare con la parte lesa.”
Diana Athill dice, serenamente, ovvietà (che magari fossero tali); e immagino che, se le fosse stato fatto presente come non fosse poi tanto ovvio quel suo immedesimarsi con la parte lesa, avrebbe liquidato la cosa con un gesto di noncuranza: verso le paturnie della plebe, immagino, con intellettuale superiorità – razzista? Tranquillamente snob per consapevolezza di “presunta superiorità” intellettuale? Pare che dal razzismo, le cui forme sono davvero molte, non ci sia fuga.
“Si definiva una “fanatica degli stranieri oppressi“, un’inclinazione che definiva un “buffo nodo” nel suo istinto materno: “Non ho mai voluto particolarmente dei bambini, ma è venuto fuori che mi piacciono le anatre zoppe”” (da Wikipedia inglese in traduzione automatica: posso ipotizzare che, in italiano, l’espressione “anatra zoppa”, di ambito politico, possa essere resa, almeno parzialmente, con “brutto anatroccolo?)
“Da qualche parte verso la fine” fu, oltre al suo libro più noto, il primo tradotto in Italia; un libro scritto tra gli 89 e i 90 anni, nel tempo in cui, avvicinandosi la morte – senza fretta, Diana Athill morirà a 101 anni e pubblicherà a 100 anni il suo ultimo libro, “Viva! Diario fiorentino”.
Narra di una gravidanza imprevista, e accolta infine, dopo un iniziale rifiuto, con grande felicità, interrottasi al quarto mese, che l’aveva portata a rischiare la vita. E riflette: sarebbe stata una buona madre, ne era certa (o quantomeno tanto quanto la sua, che lo era stata a sufficienza), e tuttavia riconobbe come il dolore per la perdita fosse rimasto in sottofondo rispetto alla felicità di essere sopravvissuta.
Mi ritrovo a non poter distaccare la vita personale dell’autrice dal libro – peraltro un mémoir, ma non solo. Un saggio filosofico, a suo modo, sul concetto di vita, di morte, sul concetto di riproduzione e sulla sessualità; sulla religione.
Una donna particolare: per il suo tempo, per la vita che ha condotto, tra un’attività di editor e di autrice, rigorosa, impegnata; nella perfetta adesione al compito, per non dire della sua tolleranza nell’essere sfruttata/pagata poco (in quanto donna al lavoro?) dal suo editore-amico che anche a lei ha dovuto il successo nella propria attività.
Diana Athill ha vissuto una lunga vita in totale adesione alle norme richieste dal suo ruolo lavorativo e sociale e, nel contempo, in un suo tempo “privato” e tuttavia socialmente ben visibile, decisamente controcorrente, in tutta tranquillità e senza remora alcuna, senza che (ma davvero?) ne abbia mai dovuto pagare il fio.
Posso dichiarare che, leggendola, sono travolta dall’ammirazione e dall’invidia?
Riflette, Diana Athill, sui fine-vita dei suoi familiari:
“Ho ereditato buone probabilità di andarmene senza tante storie, e ho scoperto di potermi disporre alla morte con un atteggiamento ragionevole. Non c’è da sorprendersi, allora, se non passo il tempo a preoccuparmene.