…di Racconti
Emilio Locurcio, “SENZA sogni è una vita da idioti ( SE VIENI PORTA UN PEZZETTO DI ESTATE e ce lo dividiamo”, ed. Maigret & Magritte (editori e illustratori in Torino per puro diletto), 2017, 2019
Introduzione. Scrive l’autore:
“…Nello sforzo di tratteggiare un paesaggio urbano dove è sempre il bene a prendere il sopravvento sul male, ho obbedito a un istinto primordiale. Desideravo che i miei personaggi, anche messi in condizioni estreme, reagissero obbedendo rispettosamente a un’etica ormai inalienabile, ereditata senza saperlo. Così suggeriva il mio ottimismo. (…)”
Da questo sforzo è nata, per chi legge, un’esperienza che, di storia in storia, sorridendo disorienta e meraviglia lasciandoci – è una possibilità – un po’ migliori, come avviene a seguito di un incontro felice.
Il lettore approccia le pagine – un bel malloppo – incontrando uno, poi due, poi ancora e ancora… brevi capitoli-racconti: personaggi; quadri di vita; quadri di scena; fondali che si fanno protagonisti.
Scritte sui muri; scorci di: degrado? Anche, sì e no: scorci di vite più o meno incerte, fragili, come solitamente sono le vite, dei più, dei meno, fa lo stesso. Tutto sta a come uno la vede.
Si tratta di storie-capitoli brevi. Volendo, racconti autoconclusivi, se non altro per il fatto che non richiedono conclusione alcuna. Relazioni, contesti, desideri e paure (che potrebbero essere la stessa cosa) ci verranno mostrate attraverso pennellate di parole. Attraverso un fraseggio lineare, segnato dalla semplicità del parlato.
Quadri portano sul proscenio, a una a una, persone e cose; ambienti; situazioni: sogni. Soprattutto sogni, che sono, si fanno, realtà; che non importa; che abitano noi e con noi le nostre relazioni. Che indirizzano la vita di ognuno, anche quando non saputi.
Un romanzo? ecco, sì. Personaggi: nome e cognome, corpi, realtà fattuali; età, capacità, doti, desideri.
Storie si sviluppano. Si intrecciano. Ritornano. Vengono sognate come vita – nella città, più in là, altrove – di gente che, vivendo, percorre strade, incontra altri.
La città, e altri luoghi, saranno un sogno che, tessera su tessera, fondale su fondale, si materializza, a poco a poco, attraverso cambi-scena, in voci, rumori, suoni. Parole: incontri.
Il fatto è che ogni quadro funziona di per sé; ogni quadro è già una storia.
La lettura si arresta: il libro viene chiuso – il dito indice resta tra le pagine, a segnare l’arrivo di tappa. Gli occhi si chiudono – per un momento; per una notte. Ci si lavora su.
La lettura riprende (la sospensione si è materializzata in possibilità – il tempo, un tempo, è trascorso, attimi, ore. È già domani?). Il lettore stupisce; riconosce una propria storia. È sua, ora. La abita: come doveva essere.
Protagonista: un paesaggio urbano in cui sia sempre il bene a prevalere sul male? Sarà possibile? Niente vieta che lo sia.
Protagonista: l’abitare una città – io – tu – lui – lei – loro; noi: tutto, nella vita, è plurale; composto da: scritte sui muri; spezzoni di diari, sogni a notte fonda (del genere che si dimentica all’alba); pezzi di vita agiti da protagonisti che, nel loro fare – cose normali? – sono, e vivono.
Non che la cosa sia proprio chiara, pur nella linearità del linguaggio: tra le cose possibili, ci sta che l’autore non abbia veduto motivo alcuno per far sì che lo fosse. Dopotutto, la vita di ognuno di noi e, perché no, delle città, dei luoghi, non lo è; né si potrebbe presumere che lo debba essere.
Scritte sui muri – Proclami – Facezie ed epitaffi. Quadri di storia quotidiana.
La lettura si avvia.
Scena prima – come non iniziare con un quadro in cui la Polizia sgombera un locale dove, non è chiaro ma ci potrebbero stare: boh, gli anarchici?
Una scritta su di un muro:
“SMETTILA DI SPARARTI SUI PIEDI, CERCATI QUALCUNO DA ODIARE E DACCI DENTRO”…
… “ripete oggi il Commissario Brigenti, leggendo la scritta ad alta voce. Si rivolge a se stesso, naturalmente, ammirando quel piccolo capolavoro eseguito con una bomboletta spray color rosso squillante da una mano ferma e serena. Non come la sua.”
A quadro segue quadro. Personaggi entrano in scena. Ne escono. Ritornano.
Protagonista: Scassa Minchia; un rapper di “pochi guadagni ma molta notorietà” che trascorre (vorrebbe) “le giornate meditabondo scrivendo e zufolando, scrivendo e zufolando…”
Aveva avuto successo, si fa per dire, con un singolo eseguito dai Block Bau Bau: “Rifuggimi, disperdimi ma poi rannicchiami accanto a te… Solfeggiami, fecondami, stropicciami, ho tanto bisogno di te.” Potrebbe non essere ciò che voleva.
C’era stata, un tempo, una sua vecchia nonna hippie – e beh sì, ora anche gli hippie, le ragazze e i ragazzi di allora, sono invecchiati, anche morti, da vecchi borghesi; è strano – per me, deve aver a che fare con la mia età: forever young? Ci sarebbe di che ridere ma, perché no.
Protagonista: Stefano Raimondi; 16 anni, giovane hacker di buoni sentimenti…”un adolescente <normalissimo>, anche se questo termine viene ormai utilizzato per descrivere un serial killer”
“È un piccolo genio in incognito, ma ragazze niente”
Tutto nella norma.
“Eravamo i ‘duri’ di provincia – diceva Italo Calvino, parlando dei suoi sedici anni – era il 1939 e tutto stava per accadere – cacciatori, giocatori di biliardo, gradassi, fieri della nostra rozzezza intellettuale, schernitori d’ogni retorica patriottica o militare, grevi nel parlare, frequentatori di bordelli, sprezzanti ogni sentimento amoroso e disperatamente senza donne”.
Protagonista: Tuareg:
“Vorrei tanta pubblicità nella buca. Grazie.”
“Il professore di filosofia Carmine De Francisci aveva lasciato un bigliettino nella cassetta delle lettere condominiale. Nel giro di una settimana lo hanno accontentato.”
Immagina sé come un uomo blu del deserto. Trentenne, felice, a trascorrere la vita su di un cavallo bianco. L’anziano professore gira invece su di una vecchia ambulanza della Croce rossa – l’Ambulanza della filosofia. Mangia aglio, e si salva da ogni malattia.
Ha un’ex moglie, che incrocia, abitando nello stesso quartiere, e con cui parla di libri. Pure se c’è dell’altro. Molto altro.
Ha un aspetto da “gigante buono”. “Soltanto quando assume l’espressione corrucciata di chi riflette intensamente, si nota dietro quelle lenti spesse un lampo di disperazione profonda…Basta attendere qualche secondo e torna un sorriso generoso, senza età.”
Protagonista: Una vecchia Trabant: quattro occupanti più uno, catturato dalla fazione avversa – Patafisici contro Metafisici. Il quinto occupante è solo Gegè, che sarà poi raccolto da S.O.S. Filosofia.
Protagonista: Ciro Verbale. Uno buono. Che sente di essere fortunato; lavora la creta: ha un suo laboratorio, ereditato dal nonno. Ciro sfugge al controllo, nel suo non fare molto, per non dire nulla.
“Non c’è proprio niente da controllare. Sono semplicemente più altruista di altri. La mia mamma mi ha fatto così.”
“Se non è fortuna questa”.
Ed ecco la sua vita intrecciarsi, attraverso un padre improbabile, con la vita di Léo Ferré. Ci saranno pure un invisibile-reale paesino francese sperduto, e un’isola, e qualche libro da recuperare.
Ed ecco il laboratorio di Ciro diventare la grande sala del Café Landtmann di Vienna. In quella ambientazione si potranno ritrovare insieme Sigmund Freud, Adolf Hitler, Iosif Stalin – è solo l’idea-tentativo di produrre un film: ma perché no, nel 1914 erano tutti lì, sarebbe potuto accadere.
C’è, ci sarà, Mirta, per Ciro: una storia complessa non più di quanto lo siano, sempre, le storie di sesso-amore-sesso.
Qualcosa di importante accomuna personaggi le cui vite si relazionano lungo un tempo, indefinito, per giungere a una svolta senza che, di necessità, le loro storie si chiudano.
Ne risulterà una corale di esperienze che generano incontri; mai stati, sognati, non è importante.
Sarà un <romanzo>, infine, a modo suo: una storia composta, in luogo di <capitoli>, di <racconti>, brevi, in un loro particolare modo autoconclusivi se non altro perché nella vita non c’è alcunché che debba concludersi, né qualcosa che sia per davvero iniziato proprio a un certo momento.
Resterà sul comodino, questo libro – per essere riletto, per essere assaggiato, qua e là; per dar luogo ad altri sogni.
Mentre leggo, il ricordo-desiderio va a Donald Barthelme, a Raymond Carver, alle loro storie, irripetibili e, insieme, punti di svolta imprescindibili per il racconto. Ma qui c’è altro; c’è un <romanzo di racconti> che, nel chiudersi, darà luogo ad altro ancora.
C’è un <oltre>, nella struttura di questo <romanzo>, che lo rende fruibile così come si fruisce un carillon – fa niente da dove si inizia – fa niente la ripetizione, la ricorsività dell’entrata-uscita dei personaggi che, nel ripresentarsi, attivano l’attitudine creativa, onirica, dello spettatore (lettore), e viene alla mente il Glockenspiel del Municipio di Monaco di Baviera, a Marienplatz.
Qui, oltre alla voce, prevale un aspetto scenografico a produrre storie-non storie che un pennello, e non solo una penna, scrive-disegna.
“Arriva un momento – ha scritto l’autore, ancora, nell’Introduzione a questo romanzo corale – in cui si desidera che il bene trionfi sul male con semplicità: perché è giusto che sia così, senza spargimenti di sangue. Purtroppo non accade nemmeno nelle fiabe. Anzi.
Così ho pensato che sarebbe stato bello accadesse almeno nella trama di un romanzo.
Appunto: eccolo.”
Occorre chiudere: ho tralasciato le cose, gli accadimenti, i sogni, più importanti. A ognuno i suoi, occorre solo leggerli e trovarli perché…
A me, tuttavia, piacerebbe davvero acquistare una vecchia ambulanza della CRI e andare, e fermarmi, e andare… mentre tale Paolone “continua a sventolare bandiere rosse nel cortile del suo cuore”… cullando solo per sé un “comunismo” che ci si può accontentare di sognare.



