L’editore nell’«età dell’inconsistenza»

Adelphi, Piccola biblioteca 2013, Roberto Calasso, L’impronta dell’editore”. 

Ho fatto una lunga vacanza. Mi ritrovo – e ho esitato a scriverne – tuttora ancorata al tema editoria – e, in senso lato, al tema <mondo del libro>. C’è qualcosa che (mi) dice di un cambiamento in tale mondo che non riesco a mettere a fuoco nelle sue prospettive. 

È qualcosa che mi suggerisce, strano davvero, il trovarmi nella condizione del canarino in gabbia che accompagnava i minatori in galleria; dell’uccellino che, soffocando, segnalava l’allarme gas, invitando all’evacuazione immediata. 

Ecco, il mio io-canarino mostra segni di affaticamento. Qualcosa non va. C’è in giro <un gas> che lentamente assopisce i lettori, che li assuefà a libri, a narrazioni, in qualche modo del genere vista una viste tutte; che sta rendendo la saggistica che ottiene promozione editoriale quantomeno già data; qualcosa che si limita a vellicare in superficie argomenti, pure seri e tuttavia, diciamo quantomeno semplici servitori dell’attualità e destinati, pertanto, a mostrarsi e svanire: nel frattempo, vai con fascette di copertina, presentazioni televisive a suon di grancassa, enfatizzazione dei contenuti: ripetitivi, già dati o giù di lì. Non un concetto, non una teoria, non l’idea per un percorso non previsto.

Critica letteraria in senso proprio, se non del tutto assente, di assoluta nicchia, tale da non raggiungere quel pubblico ampio di lettori che pure esiste; che va supportato nella sua capacità di apprezzare la qualità – e il pensiero, e la complessità.

Sento una stanchezza, un cedimento nella ricerca di libri capaci di aggiungere stupore al mio tempo; di libri che, ne sono certa, ci sono ma: sto rincitrullendo io o l’appiattimento che pervade il mondo editoriale è un fatto? 

Cercavo una guida al tema. Ed ecco spuntarmi tra le mani un libriccino: Adelphi, Piccola biblioteca 2013, Roberto Calasso, L’impronta dell’editore”. 

CALASSO ROBERTO 1991 © ERLING MANDELMANN

Trovo inoltre, a seguito, il resoconto di un’intervista con l’autore, raccolta da Antonio Gnoli, caporedattore delle pagine culturali di Repubblica, nel corso della manifestazione “Libri come. Festa del libro e della lettura, Roma 2013, in cui Calasso parlava di questo suo libro – una raccolta di suoi testi apparsi sulla stampa o letti in varie occasioni nel corso di eventi, cui si aggiunge un testo inedito, uscito in occasione dei cinquant’anni della C.E. Adelphi.

Titolo dell’articolo: “(…) Fare libri nell’età dell’inconsistenza”. (Qui)

Ecco: non lo dico io. È così: e i dieci anni trascorsi da allora – nel mezzo è avvenuta “Mondazzoli”* – hanno solo reso palese ciò che il finissimo sentire di uno scrittore/editore come Roberto Calasso dichiarava d’anticipo, come fattuale.

Il tema che Calasso affronta – il compito dell’editore, la sua <impronta> sui libri che produce e il suo permanere necessario per la vita del libro – viene svolto in quattro parti, ognuna arricchita, come in una buona chiacchierata tra amici, attraverso sentieri di ricordi, che aiutano gradevolmente la messa a fuoco e la riflessione sul tema. 

Primo saggio: Libri unici. Il progetto coltivato da tre amici – Roberto Bazlen, Luciano Foà, Roberto Calasso –  di fare <libri unici>  e la nascita della Casa Editrice Adelphi.

È Roberto Bazlen a mettere a fuoco, nel ricordo di Calasso, il concetto di <libro unico> come “libro in cui si riconosce che all’autore <è accaduto qualcosa> e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto” che “aveva rischiato di non divenire mai libro.“

Ed ecco avviarsi la storia della Adelphi, a partire dal volume n° 1, il romanzo “L’altra parte”, di Alfred Kubin (un libro di narrativa fantastica che non ho mai letto, cosa a cui dovrò porre rimedio); a partire dalla pubblicazione, una via una, di tutte le opere di Nietzsche, in una temperie culturale che, almeno in Italia, non poteva, al tempo, considerarsi favorevole.

1965, 7° edizione

Secondo saggio: L’editoria come genere letterario. Calasso inizia a sviscerare l’argomento attraverso due domande: 

1. cos’è una Casa Editrice? Risposta è “un ramo secondario dell’industria nel quale si tenta di fare denaro pubblicando libri.

2. Cos’è una buona Casa Editrice? Risposta: quella che si suppone pubblichi solo buoni libri. Cui segue la riflessione, ampiamente verificabile e verificata, per cui “pubblicare buoni libri non ha mai reso spaventosamente ricco nessuno (…) un’impresa editoriale può produrre guadagni notevoli soltanto a condizione che i buoni libri siano sommersi tra molte altre cose di qualità assai differente. E quando si è sommersi, può facilmente accadere di annegare – e così sparire del tutto.

Impossibile uscirne, se non dicendo che “l’editoria è un genere di affari che al tempo stesso è un’arte (…) pericolosa perché per esercitarla il denaro è un elemento essenziale”

Il terzo saggio ci parla di cinque grandi editori: Giulio Einaudi, Luciano Foà,  e poi Roger Straus Jr. (1917 – 2004),  editore in New York. Seguono l’editore tedesco Peter Suhrkamp (1891 – 1959) e Vladimir Dimitrijevic (1934 – 2011) editore iugoslavo-serbo.

“Giulio Einaudi”

Una storia dell’editoria italiana, in estrema sintesi, certamente, ma non a prezzo dell’essenziale. Da Aldo Manuzio il Vecchio (1449/1452 – 1515) a, per l’appunto, Giulio Einaudi cui dovette balenare l’immagine dell’editore come Sommo Pedagogo ovvero come Sovrano che filtra, secondo i suoi illuminati disegni, la materia di cui è fatta la cultura perché essa venga a poco a poco <octroyé> al popolo” (traduzione: concessa): elitario, Calasso, ma ci sta, eccome se ci sta (pure se confesso il mio andare in sollucchero, su questa parte, con insieme un qualche disagio). Per non dire di un passaggio, nel suo scritto, a commento della nascita della Casa Editrice Einaudi:

“Dopo vent’anni di fascismo, tutto sembrava da fare o da rifare. D’altra parte i democristiani, con la loro molle e proterva accortezza (…) avevano lasciato capire che a loro bastava la pura, muta, incessante gestione del potere politico ed economico. La cultura poteva invece amministrarla la Sinistra, anche perché loro non erano tagliati per frequentarla e oltretutto non ne subivano l’attrazione. Abbandonarono persino il cinema, accontentandosi di vigilare sulle scollature.”

Segue: “Mentre non ebbero dubbi quando apparve la televisione – quella sì era roba per loro.”

Un saggio, sicuramente “solluccheroso”; con il riconoscimento e l’omaggio dovuti alla grande Einaudi che, non vi è dubbio alcuno, ha risollevato, al tempo, lo stato dell’arte dell’editoria italiana, collaborando a creare, con ciò, un ceto (si può dire?) intellettuale che, passatemelo, ha salvato l’Italia in tempi bui. Einaudi ha creato, con i suoi autori, cultura; ha coltivato la crescita e la capacità di chiedere e offrire qualità ai suoi lettori, formandone la capacità di pensiero critico; ha prodotto emulazione positiva nel mondo editoriale.

Giulio Einaudi (Wikipedia)

Che dire degli altri personaggi? 

Di Luciano Foà, solo la frase di chiusura del saggio: “Possa il suo ricordo accompagnarci e trasmetterci qualcosa di quella sapiente passione che Foà ha dedicato a Adelphi.”

Di Roger Straus (1917 – 2004), editore statunitense, che “ci ha aiutato a risolvere un mistero, racchiuso nella domanda: «perché fare l’editore è così divertente?»”

Di Peter Suhrkamp (1891 – 1959, editore tedesco) che, dopo aver salvaguardato, nei tempi bui, l’autonomia della Casa Editrice Fischer, finendo per venir rinchiuso in un campo di concentramento cui sopravvisse con, tuttavia, gravi danni alla salute, fondò la propria casa editrice, la Suhrkamp Verlag: suoi autori Bertold Brecht e Herman Hesse, cui seguirono Adorno, Benjamin, Bloch. Dice di lui Calasso che disegnòcon sicurezza il profilo della nuova casa editrice (…) con un programma che definiva di élite, senza sentirne alcun senso di colpa.” Nel mentre si domandava se gli scritti di Benjamin curati da Adorno avrebbe trovato una dozzina di veri lettori: nel primo anno ne furono vendute 240 copie. Il seguito è storia.

Calasso ci parla infine di Vladimir Dimitrijevic (1934 – 2011), serbo iugoslavo, e della Casa Editrice  L’Âge d’Homme (che ha oggi sede a Parigi), dicendo come abbiano condiviso una convinzione: “pensiamo, tutti e due che, parlando di libri si entri in uno spazio molto più vasto, molto più leggero e più libero che non se si parla del mondo o, peggio ancora, delle proprie cose. Forse si diventa editori solamente per prolungare all’infinito una conversazione sui libri”.

E ancora: “io credo che se non si ha un’immagine del paradiso è molto difficile diventare grandi editori”.

Da leggere, davvero, queste storie di vita in breve; sarebbe impossibile ma soprattutto ingiusto riassumerle qui: possiamo dirne, questo sì, che danno speranza. 

Ma ecco l’ultimo saggio, 

Faire plaisir– dare piacere 

Ed eccoci al tema: Scrive Calasso, in apertura:

“Il mondo dell’editoria vive oggi un acuto paradosso. Da una parte chiunque vorrebbe essere editore (…). Dall’altra parte, c’è chi pretende (…) che la funzione dell’editore sia tendenzialmente superflua. (…) Le incessanti diatribe sul self-publishing hanno questo presupposto. Ma come e quando si è creata questa strana situazione?”

Al lettore il seguito. Per una lettura, godibile, ancora oggi accoglibile, pur con eventuali riserve, sempre lecite, sul rischio che corre l’editoria nel mondo della digitalizzazione, del self-publishing: dove la funzione dell’editore sta lasciando il suo carattere fondativo di Marchio che certifica il libro, costituendone non la pubblicità bensì il fattore-scommessa di proposta al lettore sul suo valore.

La copertina, la fisicità del libro, la qualità e, certo, non ultimo, il contenuto; Il Catalogo – e, per l’appunto, il Marchio della Casa Editrice – come forma stanno appannandosi, sbiadendo, dice Calasso, mentre “continua a restringersi il campo di ciò che si ritiene si possa fare.”

«Sarebbe bello ma non si può»: è una frase molto frequente nel mondo editoriale, ovunque. Ma se si torna ai primi anni del Novecento e a quegli editori che si erano formati sulla base di un sentimento di affinità in un piccolo gruppo di amici, è facile osservare che allora, molte volte, con lodevole dissennatezza, quegli stessi editori devono aver detto: «Sarebbe bello, facciamolo.»

Calasso teme che il compito sia, oggi, impari “perché la ressa di ciò che ogni giorno si presenta come disponibile ingombra il campo visivo. E l’editore sa che, se da quel campo scomparisse egli stesso, non molti se ne accorgerebbero.”

Non demorde, tuttavia.

“Quale compito rimane per l’editore? Sussiste tuttora una tribù dispersa di persone alla ricerca di qualcosa che sia letteratura, senza qualificativi, che sia pensiero (…), che sia oro e non tolla, che non abbia l’inconsistenza tipica di questi anni. Faire plaisir era la risposta che Debussy dava a chi chiedeva qual era il fine della sua musica”.

Negli ultimi capitoli di questa sezione, Calasso si apre alla possibilità di una battaglia vittoriosa, alla possibilità che si tratti solo di una causa difficile ma (…) “non più difficile di quanto lo fosse, nel 1499, quando Aldo Manuzio, a Venezia, pubblicò un romanzo di (allora) ignoto autore, scritto in una lingua composita, fatta di italiano latino e greco (… e) si trattava del libro più bello che sia stato stampato sino ad oggi: la Hypnerotomachia Poliphili. Un giorno, qualcuno potrà sempre tentare di uguagliarlo.”

Ho utilizzato molto, forse troppo, le parole di Calasso  – dopo aver cancellato una montagna di inutili e balbettanti parole mie sul tema.

Non ho concluso. Non è il caso. Forse non è possibile, non a me, quantomeno.

Il mese prossimo saranno due anni da quando Giorgio Calasso ci ha lasciati – e Adelphi è ancora e sempre una sicurezza, in un’area data, con un catalogo che seleziona, come giusto, i lettori; che non pretende di essere un abito per tutti: come deve fare una Casa Editrice; che deve orgogliosamente esporre il proprio Marchio; che potrà farlo solo accogliendo il proprio compito: dire di sì e soprattutto, anche a rischio, talvolta, di sbagliare, dire di no.

Il problema resta aperto. 

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  • Ne avevo accennato qui. Il tempo è passato e, forse, qualcosa, oggi, ne mostra gli esiti, con concause, certo. (Qui)