Bernard Quiriny, “Vite coniugali”, L’orma editore 2019.
“Non molto tempo fa ho assistito a una competizione davvero singolare, organizzata dal club dei sedentari di Parigi.”
C’è qualcosa di fortemente attrattivo in un incipit ben formato; tanto più in una raccolta di racconti. È un qualcosa che ha a che fare con la possibilità di sentirsi bene nel giorno, nell’ora, in cui accostiamo una pagina che promette di regalare quiete, distensione.
Un incipit semplicemente piano e ben formato rassicura sulla possibilità che il mondo in cui viviamo, dopotutto, mantenga una propria affidabilità. Tanto più se i racconti che stiamo per avvicinare ci faranno accedere, in seguito, a tempi e luoghi segnati dal surreale, in cui avvenimenti straordinari e, a modo loro, credibili al modo del sogno, ci appariranno segnati dal sigillo della realtà.
Certo, se quel libro, di autore ancora a noi sconosciuto, si trova tra le nostre mani, e siamo in libreria, ciò significa che qualcosa aveva già spinto una lettrice* quantomeno ad un’ipotesi di volersene appropriare – un genere, un titolo, un’immagine di copertina, il colore di fondo della stessa; un tema sottinteso (che si rivelerà ampio e multiforme del nostro vivere relazioni sconvolgenti le nostre certezze e, insieme, stranamente plausibile e talora addirittura fonte di sorriso – genere ghigno).
(Nota: *femminile sovraesteso: sto scrivendo io, donna, indirettamente parlando di me e per me, ma nulla vieta che chi mi legge appartenga, come me, alla specie umana, ma nella sua versione maschile. Sono stanca di affaticarmi a trovare soluzioni complesse al problema del maschile sovraesteso. Dunque: per oggi va così, poi si vedrà).
Anche il piccolo logo della Casa Editrice (in questo caso davvero bello, accattivante; come la casa editrice che rappresenta) avrà influito sulla scelta – anzi: sarà stato sicuramente così. La Casa Editrice è, dopotutto, il primo fattore di orientamento nella scelta di un libro.
Ed ecco, un incipit, nulla di più, semplicemente formato da una frase ben costruita, si rivelerà capace di aprire domande, di stimolare curiosità che spingeranno a proseguire la lettura; già lì, in libreria, in piedi, camminando lentamente verso la cassa, a passo sonnambulo.
“Vite coniugali”: Il titolo, del racconto di chiusura (o quasi: trattasi di un libro dalla struttura particolare), riassume il tema conduttore di racconti segnati da un inatteso rapporto con il tempo, variamente declinato, con speciali spazi.
A chiusura del libro, avremo incontrato storie a carattere onirico- fantastico, segnate da un perfetto, pignolesco e assolutamente godibile, radicamento nella realtà.
Sarà difficile, a lettura completata, racconto dopo racconto, intercalati da insoliti paratesti a loro volta in versione racconto, a loro volta fuori luogo, non rimanere quel tanto (non poco) scossi, preda di un filo d’ansia che, tuttavia, una scrittura, uno stile narrativo piano, senza fronzoli, privo di enfasi, di artifici retorici qualsivoglia, avrà ammorbidito nel piacere di una scrittura misurata, attenta al lettore/ascoltatore: chi scrive/parla così non può che conquistare la nostra fiducia e perché mai, dopotutto, dovremmo negarci all’insolito, all’improbabile, che proprio per esser tale merita di venir narrato.
Riprendendo dall’incipit del primo racconto: molte cose, inavvertite ma agenti sulla lettrice, influiranno, a partire da quella falsamente piana frase d’avvio.
Siamo a Parigi, e già così un’atmosfera è costruita; veniamo informati – come di cosa nota e che dunque avrà a che fare con la storia di cui ci prepariamo a godere – dell’esistenza, implicata, di un “Club dei sedentari”; e già una storia si appresta a dipanarsi.
Non solo: trattasi del club dei sedentari “di Parigi”, il che suscita l’ulteriore implicazione per cui tali club saranno/dovrebbero essere presenti anche in altre città, come se la loro esistenza disponesse di una propria intrinseca necessità.
Dopotutto, in questo nostro mondo affannato, dove la necessità, divenuta bisogno, di correre e correre sempre, di qua e di là, senza riposo; dove riposo significa addirittura il suo inverso, muoversi, dedicarsi a viaggiare; dove fermarsi appare socialmente mortificante; in questo nostro mondo affannato, dicevo, ci saranno pure persone che, al solo pensiero di lasciare la propria comfort zone, precipitano in un vero e proprio malessere fisico, in uno stato di panico tale da richiedere intervento medico e un rapido ripristino di uno status di sedentarietà ben localizzato.
“Il circolo riunisce soci accomunati dall’idiosincrasia per i viaggi. Non è una mera questione di gusto: il loro è un odio morboso, patologico, esasperato.” (…)
“Non che i sedentari siano poco curiosi o nemici delle novità. Di mente aperta, non sono affatto immuni al fascino di civiltà esotiche, paesaggi sconosciuti, lingue straniere. Semplicemente, li apprezzano da casa loro, spaparanzati in poltrona”
Direi che, trattandosi di una raccolta di racconti, questo, in apertura, oltre a procurare al lettore un sia pur breve tempo di conciliazione con il proprio mondo, ci induce a pensare che possa esistere, anche per noi, in un ambito dell’ovvio, uno spazio-tempo, se non una vera possibilità, di vita lenta, senza alcun bisogno di abitare a Parigi.
La ville lumière d’antan richiama tuttavia il piacere di un bighellonare senza meta ma pure privo di vera distanza dai propri spazi. Per definizione il flaneur gode di ambienti noti, ripetitivi.
Si legge; ed ecco il desiderio di poter a nostra volta accedere, come possibilità, a un ideale del nostro io avvolto e protetto dalla nostra comfort zone – dalla nostra casa, dai suoi dintorni immediati o giù di lì; libere dal dover ricorrere a mezzi di trasporto per poterci dedicare ad un passeggiare lento, falsamente vagabondo, dentro ad un ambiente di relazioni nostro, identitario.
Cosa potrebbe esserci di meglio, nel nostro agitato e affaticato oggi, se non poter godere di un personale ubi consistam, senza bisogno alcuno di sollevare il mondo; al massimo, ecco, sollevando unicamente le nostre terga divanate per raggiungere delle amiche, degli amici, la confraternita delle nostre simili, al nostro club.
Vedete cosa può fare una frase ben formata? A quanti percorsi porta a volgere il pensiero?
Il club, ci informa l’autore, si appresta a dare il via ad una competizione di cui sappiamo, ad ora, solo trattarsi di cosa “originale”.
Da questo punto in poi, non vi resta che leggere.
Storie seguiranno storie. Da godere, nel piacere di una scrittura, di una voce che narra, per lo più alla prima persona, con tranquilla linearità: cosa? Incontri, relazioni, giorni particolari, convivenze originali, luoghi: momenti in cui le regole condivise – o supposte tali – del nostro spazio-tempo si presenteranno attraverso normalità altre, dislocando la lettrice, letteralmente, fuori-luogo e fuori-tempo.
Va detto, sono storie capaci di provocare un qualche turbamento nella lettrice; storie in cui l’assurdo si fa regola, come potrebbe accadere in un sogno, che qui verrà rappresentato senza uscita: la scrittura, la sua linearità, l’assenza di aggettivazioni superflue, di iperboli o impropri inviti allo stupore assegneranno ad ogni storia, quale lunga, quale breve, un carattere di realtà da cui nessun risveglio sarà ipotizzabile. Al più, la fuga.
Ed ecco “Le Nicole”, racconto di un tale che narrerà un’esperienza vissuta nei lontani ma non troppo anni Sessanta – e la realtà degli accadimenti avrà, nella sua precisa collocazione temporale, una propria certificazione di verità.
“Vorrei rievocare qui un ricordo della mia carriera di maestro elementare. (Io e mia moglie Héloise abbiamo esercitato tale professione dal 1960 al 1969. Dopodiché abbiamo entrambi rassegnato le dimissioni)”.
Non è certo frequente, e tuttavia niente di paradossale, il fatto che, in una classe, si ritrovino due bambini identici; sconosciuti l’uno all’altro; tuttavia indistinguibili. Sappiamo bene che, al mondo, esistono “i sosia”. Certo, se poi accadrà che… le cose si complicheranno.
E che dire di un professore di filosofia le cui lezioni documentavano, a detta di tutti, la totale incapacità dello stesso di svolgere un argomento in modo comprensibile, che peraltro declinava con voce monocorde e soporifera per cui, riferivano le sue allieve,…
“Non appena cominciava a parlare cadevamo preda di un irrefrenabile desiderio di dormire”…
… mentre poi avrebbero superato tutte, brillantemente, gli esami?
Qualche storia induce un punta di ansia nella lettrice. Altre storie susciteranno un sorriso; non del tutto benevolo; con una coloritura sarcastica.
Il narratore riferisce, in tutti i casi, senza chiedere alla lettrice alcuna sospensione dell’incredulità. Saranno storie fantastiche di eventi normali: dunque da accogliere. Dopotutto, le aporie, per non dire i paradossi, sono parte costitutiva della nostra realtà quotidiana. Per lo più, neppure ci facciamo caso. E dunque?
Ecco: la paradossalità delle situazioni narrate non verrà, non del tutto, respinta dal narratore né i racconti verranno accolti dalle lettrici nella categoria del fantastico: in effetti, perché mai dovremmo assumere come invenzioni fantastiche delle esperienze vissute in prima persona da chi narra, o narrate da chi ha potuto conoscerne gli accadimenti, noi che, a ben vedere, assistiamo quotidianamente a teatri dell’assurdo la cui realtà non solo assumiamo, correttamente, come tale ma consideriamo pure, al più, come un’aporia non necessariamente insolubile; non in assoluto inaccettabile dalla ragione. Tipo: Elezioni politiche, guerre, scegliete voi.
Tanto più quando scopriremo, alla lettura, la presenza, centrale, collocata all’interno del corpus dei “Racconti”, di brani aventi una struttura paratestuale; che, come tali, dovrebbero venir collocati all’inizio del volume (Introduzione, Prefazione, Dediche) e in chiusura (Ringraziamenti).
Innanzitutto, troveremo, subito dopo “Le Nicole”, un brano – titolo: “Criteri Editoriali” in cui viene raccontata – o presentata, difficile dirlo – la storia di un’esperienza editoriale molto particolare.
“Dopo aver pubblicato due romanzi André Margin divenne editore.
«Personalmente non ho talento ma sono parecchio bravo a scovare quello degli altri»
Non passò molto tempo prima che si facesse notare nell’ambiente per la sua personalità stravagante e i metodi bislacchi. Possedeva un’immaginazione sconfinata e ideò innumerevoli collane (…)”
Che dire? Occorrerà leggere. Monsieur Margin starà tuttora dando vita a originali collane, dopo averne chiuse, nel caso di grandi fiaschi causati da criteri molto rigidi. In ogni caso, il nostro autore ci esporrà una significativa selezione delle Collane, tipo:
“I soliti noti” (1968 – 1984). Collana riservata a scrittori dal cognome molto diffuso – Dubois, Dupont, Durant, Petit, Legrand, Bonnet eccetera. Annovera almeno otto Martin: Èmile, Jean, Maxime, Gisèle, un altro Jean, Archibald, Aurélien e Just.”
Nel contempo, il nostro ci intratterrà, più o meno a metà volume, con un racconto su, vogliamo definirle Prefazioni originali, particolari, fallaci, contraddittorie, tali per cui, senza relazione con il testo di riferimento, ebbero in sorte di contribuire al successo del libro prefato per cause totalmente irrelate.
Saranno inoltre centrali, nella raccolta, Le Dediche, i Ringraziamenti,
“A tutti quelli che mi hanno aiutato a migliorare questo libro:
T, per avermi persuaso della necessità di rivedere la prima stesura;
C, stando al quale la seconda era troppo lunga;
H, che ha abilmente distrutto la terza;
D, al quale non sono sfuggiti i difetti della quarta;
I, che alla fine mi ha caldamente suggerito di tornare alla prima.”
Per chiudere, occorrerà citare l’invenzione, notevole, da parte di tale C.C., di una “Estroduzione”, quale sostituto dell’Introduzione, il cui scopo sarà “annunciare l’estroduzione che chiude il romanzo”
Cosa dire dell’autore? Poco, occorrerà dirne di più. Un’altra volta.
Belga, quarantacinquenne; le sue opere sono in via di traduzione per la Casa Editrice l’Orma: cui occorrerà esprimere gratitudine. Che dovranno esser lette e godute.
“Vite coniugali” è il suo ultimo libro. “La biblioteca di Gould” è un suggerimento a me stessa.

