“La pietra che ride”

Alfredo Stoppa. “La pietra che ride”,

Sottotitolo: Streghe e orchi, folletti e sirene, nel reame delle fandonie” – Edizioni Siké 2024

In esergo, la dedica a un amico siciliano che

In barba alla distanza ha amato

in punta di cannolo,

le mie storie al sugo di polenta.

Grazie, amico di Sicilia.

Incipit:

Silvano, cosa fai là tutto solo come un peccatore?

“Faccio bosco”

La manera si alzava, lenta e inesorabile, vibrava nel primo sole e calava, impietosa, e metodica, sul bosco. 

La voce narrante di don Tonino introduce storie, introduce altre voci, umane e sovrannaturali.

Il racconto si apre  nel suo incontro con Silvano Montagner, il silenzioso proprietario del ‘Bosc del Puar Diaul’, “un pendio di alberi, arbusti, ortiche ed erba matta”, passato di generazione in generazione, fino ad arrivare a lui, “un povero cristo senza sposa, soldi, sorriso e sogni. Lo sa anche il benestante che la legna è il sole della povera gente. Ah…non lo sa? Fa niente!

Non sprecava una parola, Silvano, né in preghiere e neanche in bestemmie, muto come un lombrico”. 

A seguito si apriranno storie, sul cammino del prete, che incrocerà altri brevi incontri-dialoghi, e altre voci.

Silvano (che non parla con altri ma parla con sé, e con gli abitanti nascosti del bosco), incontrerà lo Sbilfs, che appare-scompare, che sarà difficile dire chi sia.

“Noi Sbilfs siamo simili alle lucciole, ci siamo e zac non ci siamo, troviamo riparo nella cavità di un tronco o se ci va di fare i burloni ci rendiamo invisibili come il dolore o impalpabili come l’amore.”

… e saranno chiacchiere, che il bosco ascolterà e commenterà; chiacchiere dei e sui tempi nostri, perché no, più o meno.

Mi consenta ancora una domanda: (Silvano ha curiosità varie): perché sparite, ve ne andate e tornate. Non è tanto giusto quello che mi fate”.

Mi consenta? Già sentita questa espressione. Negli anni novanta faceva record di ascolti in televisione. Chiedilo a Santoro se ho o non ho ragione.

Perché perché? Perché siamo dei giocherelloni, amiamo per celia fare sgambetti, per burla tirare spintoni, sparare, per beffa, bolle al sapone, ebbene ci piace giocare per finta alla guerra, come hanno fatto da sempre i bambini di tutta la terra. La Guerra quella che t’accoppa per davvero (…) la preparano i Grandi della terra rinchiusi, i Cervelloni, dentro la Stanza dei Bottoni. Che boria, che furia! Da dove vieni tira una gran brutta aria. Hai mai guardato l’aria? Lo sai che l’aria ha tanti colori? Vuoi che te li elenchi? Color ciclamino, color  rosmarino, color genzianella  color nigritella (…).

Avevo già accennato a questo libro; ne avevo proposto un frammento di quarta di copertina che ripropongo perché è un libro che regala molto; capace di restituire a noi adulti un ampliamento di realtà che ci porterà ad ampliarne il godimento, senza alcuna abdicazione al reale – e andrò per assaggi, bocconi di mondi. Non credo di poter far altro.

Alfredo Stoppa, Pordenonelegge 2024

Una storia particolare, narrata da un vecchio prete con la tonaca– dice il risvolto di copertina – 

…(un sopravvissuto, un bastian contrario. Un uomo libero?) che passa i giorni in un borgo di montagna. Qui, fra gli altri, vivono: un boscaiolo duro e taciturno (che viene rapito dagli sbilfs, fantasmagorici folletti nostrani), un sindaco ingegnere dal fare arrogante (che viene rapito da esseri infernali e lasciato nelle mani di una strega), un contadino complottista e poco amante del meridione (che viene rapito da alcuni mostri siciliani), una mesta e modesta “fanciulla” (che viene rapita dalle agane, metà ninfe, metà sirene friulane). Cosa separa la patetica razza umana dal popolo di mostri, orchi e spauracchi? Presto detto: il Confine! Lo scavalchi e sei di là, un passo a ritroso e sei di qua. (…).

Un caso editoriale interessante. Capace di coniugare il Friuli Venezia Giulia con la Sicilia; sottotitolo Streghe e orchi, folletti e sirene nel reame delle fandonie”. 

Storie  incredibili, in tutta normalità. Chi legge vi ritroverà il proprio dialogare, ormai insaputo, con tutti i viventi del proprio mondo; con le fantasie nascoste che ognuno sa e non sa di sé; con le fandonie che aiutano a reggere il reale del quotidiano.

E che devo fare, o dire; finirei per trascrivere il libro intero, parola per parola, pagina per pagina, perché non ce n’è alcuna, né pagina né parola, di troppo – per ricordare, per appropriarmi delle parole, per farle mie; per rubarle, diciamolo pure, a quel tale che le ha scritte; che, per questa via, mai più gli apparterranno: saranno mie, e nessuno me le potrà mai più togliere.

Dovrò trattenermi – non troppo, ecco, non troppo; quel tanto che basti a (speranza) fermare chi legge queste mie righe sbagliate.

Salvo il fatto che, non c’è via di scampo, anche questo è un libro che occorrerà davvero leggere: affascinati, e pure, ecco, forse, dovendo fare un po’ di fatica perché è pure arduo affrontare queste pagine – è doloroso, suscitatore di rimpianti, di nostalgia, di rammarico colpevole per ciò che abbiamo perduto; per affrontare il senso di colpa che ci coglie perché ci abbiamo, tutti, messo del nostro.

E ora come fare, cosa fare delle cose perdute, se non ricordarle, recuperando quel po’ che si potrà della loro-nostra vita ; e chissà. 

Il libro: la voce narrante che lo costruisce appartiene a, o segue i, passi di don Tonino, di professione pievano – vale a dire parroco di una Pieve; termine in disuso, ma non negli antichi borghi di montagna del Friuli. 

Chi legge ne seguirà gli impegni, gli incontri, l’ascolto – i pensieri e le parole.

Don Tonino è voce che incontra i viventi del suo mondo: di stirpe umana; che incontra altri viventi: di razza sovrannaturale. Personaggi che, a loro volta, parleranno; in dialogo con i personaggi umani.

Con la partecipazione straordinaria di La pietra che ride. E un grazie particolare al Vento Matteo.” 

…ma non dovremo aver fretta, siamo dentro pagine in cui ogni frase, ogni parola, sarà una storia.

Don Tonino cammina e pensa.

A sera, stavo accarezzando il pelo del cane, mi è balzata in mente una filastrocca, di colpo sono riaffiorate delle parole. Le ho offerte insieme alle crocchette a Giuda: “Abbiamo parole per piangere, parole per tacere, parole per fare rumore. Andiamo a cercare insieme le parole per parlare. Credo, dalla doppia leccata rifilata alla mia mano, che Giuda abbia apprezzato entrambi i cibi.”

Ogni capitoletto sarà aperto da versi, da filastrocche paesane. Si chiuderà, con la voce del pievano, con un addio (inatteso forse, non imprevisto forse):

Silvano non lo vidi mai più

Marchino non lo vidi mai più

Vincenzo non lo rividi mai più. (…)

Tutto era stato introdotto da  versi di Federico Garcia Lorca (1919, Libro de Poemas).

Alberi 

“Alberi!

Frecce voi siete

dall’azzurro cadute?

Quali tremendi guerrieri vi scagliarono?

Sono state le stelle?

Vengon le vostre musiche

dall’animo degli uccelli, 

dagli occhi di Dio.”

Tutto si chiuderà con il dialogo-pensiero tra don Tonino e La Pietra Che Ride; che già era stata richiamata, negli intrecci delle storie; che verrà introdotta dai versi finali di una bellissima poesia di Wisława Szymborska (1962).

Wislawa Szymborska, Nobel per la letteratura 1996

Forse, la sola possibile chiusura di questo mio tentativo di restituzione di un libro impossibile, che contiene tanti libri e tanta vita, sta in quella grande poesia, da restituire nella sua interezza. Senza commenti.

Conversazione con una pietra

(Da “Sale”, Traduzione di Pietro Marchesani. In: “La gioia di vivere. Tutte le poesie (1945 – 2009) – di Wisława Szymborska, Adelphi 2009)

Busso alla porta della pietra.

Sono io, fammi entrare.

Voglio venirti dentro,

dare un’occhiata,

respirarti come l’aria.

Vattene – dice la pietra –

Sono ermeticamente chiusa.

Anche fatte a pezzi

saremo chiuse ermeticamente.

Anche ridotte in polvere

non faremo entrare nessuno.

Busso alla porta della pietra.

Sono io, fammi entrare.

Vengo per pura curiosità.

La vita è la sua unica occasione.

Vorrei girare per il tuo palazzo,

e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.

Ho poco tempo per farlo.

La mia mortalità dovrebbe commuoverti.

Sono di pietra – dice la pietra –

e devo restare seria per forza.

Vattene via.

Non ho i muscoli per ridere.

Busso alla porta della pietra.

Sono io, fammi entrare,

Dicono che in te ci sono grandi sale vuote, 

mai viste, belle invano,

sorde, senza l’eco di alcun passo.

Ammetti che tu stessa ne sai poco.

Sale grandi e vuote – dice la pietra –

ma in esse non c’è spazio.

Belle, può darsi, ma al di là del gusto

dei tuoi poveri sensi.

Puoi conoscermi, però mai fino in fondo.

Con tutta la superficie mi rivolgo a te,

ma tutto il mio interno è girato altrove.

Busso alla porta della pietra.

Sono io, fammi entrare.

Non cerco in te un rifugio per l’eternità.

Non sono infelice.

Non sono senza casa.

Il mio mondo è degno di ritorno.

Entrerò e uscirò a mani vuote.

E come prova d’esserci davvero stata

porterò solo le parole,

a cui nessuno presterà fede.

Non entrerai – dice la pietra. –

Ti manca il senso del partecipare.

Nessun senso ti sostituirà quello del partecipare.

Anche una vista affilata fino all’onniveggenza

a nulla ti servirà senza il senso del partecipare.

Non entrerai, non hai che un senso di quel senso,

appena un germe, solo una parvenza.

Busso alla porta della pietra.

Sono io, fammi entrare.

Non posso attendere duemila secoli

per entrare sotto il tuo tetto.

Se non mi credi – dice la pietra –

rivolgiti alla foglia, dirà la stessa cosa.

Chiedi a una goccia d’acqua, dirà come la foglia.

Chiedi infine a un capello della tua testa.

Scoppio dal ridere, d’una immensa risata

che non so far scoppiare.

Busso alla porta della pietra.

Sono io, fammi entrare.

Non ho porta – dice la Pietra.