Marco Aime, La macchia della razza. Storie di ordinaria discriminazione, elèuthera 2013. Premessa di Marc Augé. Postfazione di Guido Barbujani
Con questo libro, siamo nei dintorni. L’autore, Marco Aime, è un antropologo, docente di Antropologia culturale all’università di Genova ma soprattutto ricercatore con al suo attivo importanti esperienze e conoscenze in particolare nel Sahel.
Si tratta di un piccolo volume, un centinaio di pagine tutto compreso, che tuttavia, in modo molto chiaro, ci parla del quotidiano razzismo che pervade gesti, parole, pratiche, burocratiche ma non solo, che caratterizzano il nostro rapporto con ‘lo straniero’ che viene in Italia.
Aime utilizza l’espediente delle scrittura di una ipotetica lettera a un ipotetico (ma non molto) bambino straniero (forse rom, slavo, ovviamente immigrato) che deve passare attraverso i procedimenti di identificazione per ottenere i documenti che ne attestino la titolarità ad accedere all’area dei diritti dell’uomo. In questa lunga lettera Aime svolge una disanima drammatica della falsa coscienza con cui noi espelliamo da noi stessi la consapevolezza della nostra storia, nella fatica del raccontarci bugie su noi stessi, che rendano sostenibile ai nostri propri occhi la nostra immagine. Perché “nessun individuo, nessun popolo può sopportare di pensarsi cattivo troppo a lungo.” (p.25)
“Ci hanno nascosto tutto, Dragan, chi sapeva non ha parlato. Chi ha parlato è stato messo a tacere, in un angolo, come un traditore. Sui libri che studiamo a scuola c’è poco spazio, quasi niente sui massacri che noi, brava gente, abbiamo fatto in quelle terre, quando cercavamo un posto al sole” (p. 15)
E Aime racconta a Dragan la storia delle menzogne che noi raccontiamo su chi siamo stati, e delle dimenticanze, su chi siamo stati. E sradica le bugie che ci raccontiamo, mostra a Dragan le paure, le barriere che costruiamo per proteggerci e che finiscono per chiuderci in una gabbia, nell’illusione di proteggerci da noi stessi e dalla nostra falsa coscienza.
Le pagine di Aime si leggono con facilità, il pensiero scorre chiaro e si comunica, senza possibilità di equivoco. Dragan potrà capire ciò che gli succede e questo potrà restituirgli identità e dignità di uomo. A noi resta la possibilità di assumere l’una e l’altra, invece di fingerle e temere l’altro che, inaspettatamente, si rivela uno scomodo specchio per chi non sa di se stesso e teme il guardarsi. E’ un testo breve, che è importante leggere, che – dice Marc Augé nella prefazione – “non perde le speranze di farsi capire”, e che ci riesce.
Il testo è brevemente prefato da Marc Augé, celebre antropologo francese, con il quale Aime condivide la conoscenza e l’attività di ricerca in territorio centrafricano. Teorico dei problemi della complessità nelle società globalizzate, a lui si deve la teoria dei ‘non luoghi’ che hanno sostituito, nella nostra società, i luoghi deputati all’incontro, alla vita civile e sociale: piazze, locali di ritrovo, luoghi che massimizzavano la possibilità di interagire delle persone, spazi che esprimevano appartenenza. Nelle nostre città questi luoghi sono stati sostituiti dai ‘non-luoghi’ (Centri Commerciali, autogrill, metropolitane, ecc.) che, mantenendo la funzione di luoghi dell’interazione, rendono l’incontro anonimo e anomico, privo di necessità dell’interagire, dove questa caratteristica di anomicità è resa visibile anche nella conformazione architettonica. Nei nuovi luoghi del (non) incontro è possibile, è previsto, il rimanere invisibili. Nella piazza di un tempo ciò era impossibile e imprevisto, vedi la locuzione ‘mettere in piazza’ con la quale, ancor oggi, intendiamo il rendere visibile a tutti e da tutti commentabile qualcosa.
Chiude il libro una intervista – “Alla ricerca delle introvabili razze umane: tredici domande e qualche risposta” – a Guido Barbujani, noto genetista, attualmente professore di genetica all’Università di Pavia che, dopo aver insegnato anche in università estere, ha operato soprattutto per la conoscenza dell’evoluzione delle popolazioni umane dal punto di vista del loro patrimonio genetico e delle diversità linguistiche, documentando come l’idea, il concetto stesso, di razza, applicato all’uomo, non sia in grado di dare conto di diversità che, pur presenti, non caratterizzano la nostra appartenenza ad un popolo, ad un’etnia (qualsiasi cosa con tale termine oggi si intenda, il tema è controverso). Barbujani è anche scrittore; al suo attivo opere di narrativa e saggi, tra cui “L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana”, Bompiani 2006.
Dicevo, all’inizio, che comincio dai dintorni: mi par bene partire dalla realtà, quella da cui sorgono le domande che ci caratterizzano da sempre e che hanno documentato, in tutte le epoche e a tutte le latitudini, in ogni società, la comune appartenenza ad un mondo. Tant’è vero che, con il dire la scelta di partire dalla realtà della società in cui viviamo e dalla realtà dell’essere sociale dell’uomo, mi trovo a concatenare necessariamente un’altra domanda, la domanda sulla ‘realtà’.
Ho in mano un piccolo testo di Jean Baudrillard, dal titolo inquietante: “Perché non è già tutto scomparso?”.
In risvolto di copertina la presentazione di questo lavoro inizia con la domanda cui, secondo Leibnitz la metafisica doveva rispondere: Perché esiste qualcosa anziché niente?” Ma Baudrillard cala questa domanda, apparentemente fumosa, nella realtà del nostro mondo, domandandosi perché mai cerchiamo con tanto impegno la nostra distruzione e soprattutto perché mai non ci riusciamo?