“…o ipocrita lettore, mio simile, mio fratello!

Baudelaire fotografato da Étienne Carjat, circa 1862. Da: Wikipedia

Terminata la lettura di “Il narratore” di Walter Benjamin, mantengo un debito di restituzione di quest’opera sentendo, tuttavia, per un verso di averne già dato un’indicazione e che sarebbe, almeno al momento, inopportuno insistervi mentre, per altro verso, il libro è davvero interessante, denso di contenuti – in aggiunta, ben rilevati e riletti da Alessandro Baricco che, per altro verso ancora (lo dico sommessamente e solo dal mio punto di vista) ridonda e, forse, non sempre è condivisibile.

Insomma: se ha dovuto rinunciare a tenere un lettorato annuale su quest’opera ai suoi studenti, forse non sarà stato a causa di una loro “mutazione antropologica” (qui) ma, più semplicemente, sarebbe bastato, come si dice, stringere un po’. Non vorrei metterci una inopportuna e impropria cattiveria, ma il libro è sufficientemente contenuto, scorrevole, chiaro, prezioso per chi si interessi al tema, e forse non richiede un anno di analisi del testo.

Nel frattempo, frammisto a letture e riletture, diciamolo, meno depressive, ho riiniziato a leggere “Le Benevole” di Jonathan Littell. Qui, un accenno alla storia:

Riprendiamo, dunque con Littell:

“Fratelli umani, lasciate che vi racconti com’è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo. Ed è ben vero che si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale, ve l’assicuro. (…) e poi vedrete che vi riguarda. (…)”

“… se alla fine mi sono deciso a scrivere, è probabilmente per passare il tempo, e anche, se possibile, per chiarire un paio di punti oscuri…Inoltre penso che mi farà bene. È vero che sono d’umore un po’ spento. La stitichezza, probabilmente. Faccenda deprimente e dolorosa…”

“Ancora una volta, siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io l’avreste fatto anche voi. (…) Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie o i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace”

Jonathan Littell. Da Wikipedia

Toccata” la titola l’autore, venticinque pagine in un’opera di quasi mille pagine che l’autore ha indicizzato utilizzando i nomi delle parti, dei tempi di danza, di una Suite di epoca barocca (Toccata, Allemanna I e II, Corrente, Sarabanda, Minuetto (in rondò), Aria, Giga). Pagine che costituiscono una “dichiarazione di intenti”.

Quelle venticinque pagine consegnano la chiave di accesso all’opera, e fanno ciò per mezzo di una excusatio, con funzione di trappola, che dovrebbe porre il lettore in condizioni di disponibilità all’ascolto. Fanno ciò attraverso il trabocchetto dell’indicare allo stesso lettore, da subito, la porta – meglio: l’ampio portone – aperto per andarsene, rifiutando il libro nel caso in cui non venga accolta la (falsa) premessa:

“Ma via, se vi dico che sono come voi!”

Con queste parole si chiude la “Toccata”; e l’aggancio è compiuto, attraverso l’artificio retorico dall’implicazione, sapientemente costruita – l’excusatio (non petita) implica la captatio benevolentiae, anche e soprattutto quando quest’ultima è impossibile. La porta è aperta – altra implicazione – agli ipocriti.

Accoglierà, il lettore, questa diminutio? No: leggerà il libro. Magari lo lascerà, non completandone la lettura, trovandolo insostenibile, avendone tuttavia accolto la premessa.

Sarà necessario parlarne, più avanti; mentre confesso, questa volta credo di aver accolto una scommessa; confesso il tentativo – attraverso l’utilizzo, a mia volta, di un malevolo artificio retorico implicito al fine di disimpegnarmi, che potrebbe essere espresso così.

Ci sto! Vedo! E non cadrò nel tuo trabocchetto. Ti dimostrerò che no, mentre, e va bene, non posso sapere se io, in situazione, non sarei a mia volta caduta, tu, che fingi la tua ammissione di colpevolezza e chiedi la mia complicità, potevi non cadere. Io, nel caso, sarei chiamata a poterlo. Tu lo avresti potuto.

Ecco: in quel <potere> vi è tutta la tua colpevolezza; tutta tua, senza remissione; ed è falsa l’ammissione che ne compi mentre cerchi un’assoluzione per te stesso attraverso l’artificio del tutti colpevoli nessun colpevole.

Ti ascolterò, dunque – per assegnarti la colpa ulteriore del voler pure barare. Trascinando nel baratro noi con te; cercando di ridurci, tutti, a te.

Sono, ancora, giorni speciali, questi che oggi stiamo vivendo noi che ascoltiamo la tua voce; sono giorni che hai vissuto anche tu; sono i giorni maledetti di un <prima> in cui è, ed è stato, possibile, ancora, ogni giorno con più fatica ma ancora, scendendo la china, e ancora e ancora, dire NO.

Li hai avuti anche tu, quei giorni. Hai avuto quel tempo. Non l’hai usato. Hai scelto una parte oppure hai finto l’impossibile non esser parte: di passo in passo, fino a superare il punto di non ritorno.

Vedo il rischio: sto accingendomi a una lettura preconcetta?

Non lo credo. So di dover porre molta attenzione, ma la Toccata l’hai scritta tu. Ed è una dichiarazione di intenti alla quale il lettore è tenuto a credere, mentre non è tenuto, anzi, ad accoglierne la ratio.

Sto leggendo avanti. È presto per parlarne.

Lo step di lettura in corso: Allemanna I e II; trecento pagine.

Una sola cosa ancora. C’è un richiamo, in tutto ciò. C’è quell’incipit: “Fratelli umani…”; c’è una eco…”miei simili….

Inferno, Canto I, Dante incontra la lonza, da un dipinto di Gustave Doré. Wikipedia

Alla memoria riecheggiano dei versi – è stato così anche per te? – un doloroso luogo della parola dove la confessione, e la chiamata in correità, hanno in sé verità, con dolore, e la fatica del fronteggiarli ad occhi aperti. Un luogo dove la possibilità del perdono, dell’abbraccio, può avvenire non venendo attesa, non venendo richiesta.

 

 

Charles Baudelaire,” I fiori del male”, Mondadori 1983

Traduzione di Gesualdo Bufalino

 

                 Al lettore

“La stoltezza, l’errore, l’avarizia, la colpa

Ci occupano l’anima e il corpo ci fan guasto,

e noi ci offriamo ai nostri cari rimorsi in pasto, come il povero sfama le zecche che lo spolpano

 

Siamo incalliti reprobi e penitenti pavidi;

d’ogni nostro confiteor facciam lucro e commercio,

poi torniamo nel fango lietamente a giacerci,

speranzosi che vili lacrime ce ne lavino.

 

Satana Trismegisto lungamente ci culla

Sul cuscino del male lo spirito stregato,

e dei nostri propositi ogni ricco carato

fa con esperte alchimie svaporare nel nulla.

 

È lui che regge i fili dei fantocci che siamo:

ci lasciamo sedurre dall’oggetto più basso,

e ogni giorno all’Inferno senza orrore, d’un passo,

attraverso mefitiche tenebre discendiamo.

 

Come un vizioso povero succhia e copre di baci

Il seno martoriato d’una vecchia sgualdrina,

noi rubiamo una gioia rapida e clandestina,

e tutta la spremiamo, come un’arancia fracida.

 

Compressa, innumerevole, come vermi in fermento,

ci fa baldoria in capo un’orda di Demoni,

e quando respiriamo, la Morte nei polmoni

di nascosto dilaga un confuso lamento.

 

Se lo stupro e l’incendio, il pugnale e il veleno,

di vezzosi ricami non hanno ancor guarnito

dei nostri giorni il grigio miserevole ordito,

è che ogni volta, ahimè, l’animo ci vien meno!

 

Ma frammezzo la lonza, la pantera, la vipera,

lo sciacallo, la scimmia, l’avvoltoio, la biscia,

fra i mostri che grugniscono, latrano, urlano, strisciano

nell’infame serraglio che i nostri vizi stipa,

 

uno ve n’è, più laido, più maligno, più immondo,

che senza grandi gesti, senza grida di guerra,

farebbe di buon grado diroccare la terra,

e in un solo sbadiglio ingoierebbe il mondo:

 

il Tedio! Pregni gli occhi d’un suo pigro rovello,

egli sogna patiboli, fumando il narghilè:

tu questo molle mostro conosci al par di me,

o ipocrita lettore, mio simile, fratello!

Nota: La traduzione di Gesualdo Bufalino, richiama, ovviamente, l’autore, e il da me mai letto (che non so se mai leggerò) “La diceria dell’untore”; una storia che segue alla tempesta – strano, come sempre, e anche no, come i libri si richiamino e ci chiamino nei giusti momenti della vita e della storia – con la, ulteriore, vergogna di questo giorno: chiamare buon esito di una <trattativa diplomatica>, alla Trump,  un’offerta al popolo curdo di resa senza condizioni; e pure con uno Svelti! Via! Subito! con abbandono definitivo della vostra terra e delle armi, per consegnarvi, disarmati pure, alla violenza che seguirà.

In attesa di sentir dire, come per gli Armeni, che un genocidio, un altro, uno dei tanti, non c’è mai stato. Fingendone l’imprevedibilità!

C’è stata “La montagna incantata”, (qui); il tempo che ha preceduto il tutto,  il ciò che sarà.

Richiami. La lettura non ha mai aiutato a fuggire la realtà:  lo si sente dire, molti lo credono. Ma forse non serve. Il ciclo si ripete?

Ad ogni modo – leggo, andando a spulciare qualcosa su Bufalino. Trovo, e mi piace, questo:

“Il traduttore è l’unico autentico lettore d’un testo. Non dico i critici, che non hanno voglia né tempo di cimentarsi in un corpo a corpo altrettanto carnale, ma nemmeno l’autore ne sa, su ciò che ha scritto, più di quanto un traduttore innamorato indovini […]»[i]

Non c’entra, lo so. Ma è <Vero>. C’è tanta poca occasione di verità. Val la pena di raccoglierla.

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[i] In: G. Bufalino, Il malpensante, lunario dell’anno che fu, Bompiani, Milano 1987, p. 55.)