Michaël Uras, “Io e Proust”, Voland 2014
Tanto mi è piaciuto questo libro quanto trovo difficile scriverne e il perché è presto detto. Lasciando da parte il fatto, tutt’altro che secondario, del divertimento che si ricava dalla lettura, c’è che ognuno, leggendo questo libro, poi lo riscriverà da sé e per sé.
Da queste pagine è possibile ottenere un buon trattato di pace con i nostri piccoli risentimenti, le piccole storie, i pezzi di adolescenza irrisolta, tutti unici e tutti uguali (la forma delle nostre storie personali, in un certo ambito facile da immaginare, è quella, non ci si scappa). Va anche detto che, se non si è proprio del tutto tetragoni, dei monoliti (trovatemi la parola giusta ma capiamoci), c’è anche poco da ridere: per chiunque, quando ci si è trovato, non è stato uno scherzo, e non è stato (o non è) mai uno scherzo elaborare il tutto e diventare adulti quel tanto che basta. E non è mai facile, neppure da adulti, la relazione tra i sessi, in cui poco o tanto restano impigliati i residui di adolescenza che tutti trasciniamo con noi fino alla morte, suppongo.
La storia? Certo, la storia. Il protagonista, Jacques Bartel, è un quindicenne talmente tipico che non varrebbe la pena parlarne se non fosse per il fatto che, come detto, lo conosciamo bene e ce lo trasciniamo dietro irrisolto mentre qui, attraverso il gioco di quella che viene chiamata una auto-fiction, l’autore, nella veste dell’adulto che Jacques diventerà, è perfettamente in grado di riconoscerlo e restituircelo in chiaro.
Avviene che uno zio regala al giovane protagonista un’edizione economica di “Alla ricerca del tempo perduto“, la grande opera di Marcel Proust che ben pochi leggono: una brutta bronchite, il dover restare a letto per molti giorni, non avendo altro da fare, portano il ragazzo a leggere l’incipit – “Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera…”.
Il dramma si apre. E’ amore, assoluto, poco importa se Jacques non capisce tutto del testo: Proust, le sue vicende, la sua opera diventeranno l’ossessione di una vita.
Quindici anni, il poster di Marcel Proust nella cameretta, i genitori preoccupati, l’amico figlio dell’edicolante che fornisce i giornaletti porno: ci sarà il giorno fatale in cui Jacques, impegnato nell’attività propria dei suoi anni, mentre guardava la foto di una donna che “sembrava cercare qualcosa per terra e che, poveretta, non aveva finito di vestirsi”, viene infastidito da una mosca “a quel punto di non ritorno che gli uomini conoscono bene, oltre il quale nulla può cambiare il corso degli eventi”; un gesto per scacciare la mosca, gli occhi si alzano e si trovano a fissare, sul muro, quelli di Proust. “Venni fissando Marcel”: per Jacques sono preoccupazioni.
La madre entra e finge di non capire cosa era avvenuto “ma per fortuna ignorava che il mio bersaglio spermatico portava un paio di baffi”.
E Proust va benissimo, anzi chi e cos’altro di meglio trattandosi, la storia di questo parla, di un ricerca del tempo perduto e di un avvio della storia che parte dall’età in cui parlano gli ormoni, quando l’orientamento sessuale (oggi si dice così) non tanto è confuso quanto assolutamente secondario rispetto al bisogno e i genitori dei figli maschi si preoccupano, mescolando (sono un po’ confusi anche loro) identità di genere, orientamento sessuale e stereotipi sul maschile le cui giustificazioni a nessuno è dato comprendere.
“I miei genitori si accorsero molto presto dell’ascendente che Proust aveva su di me e cominciarono a preoccuparsi seriamente. (…) Solo oggi, col senno di poi, capisco l’origine dell’angoscia di cui erano preda. Lasciare il proprio figlio con un uomo baffuto e dallo sguardo così strano: c’erano buone ragioni per stare in campana.”
Arriva la prima fidanzatina, la madre si tranquillizza, ma nel frattempo Jacques trova difficile realizzare l’obiettivo-ragazze facendolo convivere con il proprio bisogno di parlare solamente di Proust.
Divenuto adulto, l’uomo Jacques Bartel, che conserva il nome Marcel Proust tatuato sul petto, divenuto “ricercatore proustiano”, vedrà la sua vita, e specialmente la sua relazione con le donne, segnata da grandi difficoltà, insieme alla propria riuscita professionale e alla propria vita sociale. E il libro ci conduce, dentro le peripezie della vita di Jacques Bartel, ma anche dentro la sua capacità di vedere gli altri, vedere se stesso, vedere il se stesso che gli altri vedono fino a che – non dico altro.
Ora dovete leggervi il libro che, recuperando la struttura dell’opera proustiana, ce la restituisce, posso dirlo? nella sua essenzialità, rendendola accessibile (come dire, guardate che è tutto qui, non si tratta di altro, si può benissimo leggere La Recherche, d’accordo è lunga, ma alla fin fine solo di questo si tratta) e, niente paura, non c’è alcun bisogno di averla letta per divertirsi con questo libro e meno che mai di averla letta ‘davvero’ tutta.
Confesso che mi ha fatto venire, anche, una voglia insana di riprendere in mano Proust, cosa che non farò, assolutamente, ma mantenendo il dubbio su una possibile ‘altra’ lettura del nostro. Chissà, dopotutto l’ho letto quando ero davvero troppo giovane e, più che possibile, prendevo troppo sul serio l’attesa di ‘fare cattleya’.
Ma per finire con un minimo di serietà: questo è un bel libro e un libro serio. Ho scritto, anticipando questo post che, per quanto mi riguarda, questo è, in assoluto, il primo libro che presenti una <vera> scrittura maschile. Non è poco, un libro capace di restituire, senza sovrastrutture deformanti, la fatica dell’essere maschio, tranquillamente vedendo le donne dal proprio punto di vista, essendo parte senza che questo comporti una minorità, mostrando il proprio bisogno e ricercando l’incontro con l’altra parte, con fatica. Proust (ma poteva essere qualsiasi altra cosa) non è propriamente un facilitatore.
Ho scritto, all’inizio, che questo è un libro che, leggendo, uno poi riscrive da sé e per sé, come tutti i buoni libri. Questa è la mia riscrittura, almeno una parte. Leggetelo, vi troverete la vostra e, sicuramente, vi divertirete e vi farà bene.