“Tu potrai rispondere loro: noi ricordiamo”

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Ray Bradbury

E’ certo che l’editoria cartacea, oggi, quali che possano essere (nei diversi paesi, ma noi parliamo dell’Italia) le scelte compiute, o di prossimo compimento, sta vivendo un momento di particolare difficoltà.

Questa industria si trova a fronteggiare quella che non è una semplice crisi congiunturale, le difficoltà di un mercato in cui, per cause multiple, la produzione subisce richieste di variazioni, in questo o in quel campo, o il mercato stesso modifica le proprie richieste, cose così.

Anche affermare che la crisi è di tipo strutturale è dir poco, o altro. La locuzione “Crisi Strutturale”, come la sua compagna magica “Riforma Strutturale” sembrano non richiedere, oggi, da parte di chi le usa, la condivisione di un significato univoco.

Qui sta il problema. Nel sapere, vedere, che la cosa non funziona più, nel cercare di risolvere il problema all’interno del sistema di significati tradizionali che usiamo per descrivere il mondo in cui l’attività editoriale si colloca; non avere idea, o non volerla avere, di un nuovo mondo nel quale ci si trova. Non solo per pigrizia mentale o limite dello sguardo, beninteso; perché, per far nascere qualcos’altro, dovremmo forse uccidere qualcosa che ci è caro; o più banalmente lasciar morire, prendere atto della morte, di qualcosa che percepiamo come portatore, per noi, di una rendita di posizione (in tutti i sensi, non tutti malvagi) e preferiamo lasciare ai posteri tutto ciò che seguirà. Nel frattempo, scegliamo di vivacchiare, o fingere che sia possibile farlo. E facciamo continuare il gioco. Gli strumenti sono noti, è un particolare tipo di Monopoli, si compra, si vende, ci si fonde, ci si separa, si fanno cose, si vede gente.

Ma nel frattempo, in luogo di qualcosa che, vitalmente, come ogni cosa, stava cambiando, abbiamo qualcosa che, tenuto artificialmente in vita, comincia a puzzare.

La crisi del settore sta investendo, anzi ha investito per prime, le parole: non tanto i loro significati, il loro mutare, che non è niente di che, anzi, è la norma. Le lingue sono vive e qualsiasi organismo vivente muta. Ciò che è cambiato è la funzione stessa delle parole, il loro veicolare significati.

Frastornati come siamo dall’abitudine invalsa di usare locuzioni di cui non solo non comprendiamo il significato; di più, senza che ci passi per la testa la necessità di tale comprensione; convinti come siamo, implicitamente, che sia sufficiente, come fossero degli abracadabra, ripetere locuzioni, slogan, asserzioni di uso corrente per ottenere che le conversazioni funzionino e, soprattutto, che la propria presa di posizione prevalga, il circolo vizioso ha preso piede: lo scadimento delle parole nella lingua parlata si è trasferito nella lingua scritta che, a sua volta, ne ha formalizzato e con ciò sancito l’impoverimento.

La lingua scritta ha collaborato non solo nel riprodurre la riduzione, l’approssimazione dei significati quanto nel confermare – perché questa è una funzione fondamentale della lingua scritta, affermare e confermare – ciò che sottostà all’impoverimento del linguaggio: l’impoverimento del pensiero, in un circolo perverso di causa effetto.

Ciò che sto provando a descrivere è l’esito di un insieme di cause, del loro fare sistema. Non è certo possibile assegnare a uno dei fattori la responsabilità del tutto, anche se proprio questo risulterebbe coerente con ciò di cui sto parlando: non è forse, oggi, ben accetto, addirittura gradito, richiesto, il pensiero che si esprime attraverso ‘terribili semplificazioni’? Mi approprio di una definizione che era stata data dei maîtres à penser del ’68: “Les térribles semplificateurs”. Oggi ci leccheremmo i baffi incontrando ‘quelle’ semplificazioni che pure, va detto, spesso sono state veramente tali.

Una cosa è tuttavia certa. In qualsivoglia sistema, l’intervento operato su uno qualsiasi degli elementi che lo compongono agirà sul tutto. E dunque, quel sistema nel sistema composto da una classe intellettuale, in tutte le sue componenti, da editori e giornalisti, scrittori e insegnanti, dalla scuola (e non parlo dei governi, delle varie riforme, di tutto l‘ambaradan sul tema) intesa proprio come classe docente, dall’Università (soprattutto) alla scuola dell’infanzia (che in Italia, è bene dircelo, è ancora una grande scuola), giù giù fino a noi lettori, non può non essere chiamato in causa per non aver veduto, per non aver resistito. Per non aver posto attenzione.

E forse, se fossimo stati attenti, se avessimo prestato mente occhi e orecchie al fatto che, piano piano, senza far rumore, le nostre parole se ne andavano; se ci fossimo preoccupati di questo cambiamento, chi lo sa, chi può sapere, e non è né possibile né utile concludere la frase.

Se in Italia lamentiamo la caduta di vendita dei libri e il ridursi dei lettori, ciò che rende il fatto angoscioso non è tanto questo quanto il suo simmetrico – cosa legge chi legge?

I lettori sono la scatola nera, l’indicatore del circolo vizioso per cui, a lettori che parlano, ragionano, si formano concetti per mezzo di slogan e frasi fatte, corrisponderanno scrittori, e un produzione editoriale, fatti per loro – e viceversa. Che li conferma. E’ il mercato, e la moneta cattiva scaccia quella buona: il che non significa che non si possa fronteggiare il problema, che chi è deputato a batter moneta non possa evitare di battere pezzi che suonano chiocci.

L’editoria. Forse la prima industria in ordine di importanza nel mondo attuale, quantomeno se ne vogliamo assumere il senso totale: l’industria, l’organizzazione, l’insieme delle organizzazioni, che sovrintendono ai mezzi di comunicazione, tutti.

Ma, intesa come quel settore industriale che produce libri, giornali e periodici, che distribuisce questi beni, che li commercia e li propone, che ne cura il marketing: avete presente quel vecchio detto (cinese, spacciato per tale, non ha importanza) secondo cui “continuando così finiremo proprio lì dove siamo diretti”?

La difesa del diritto d’autore – sacrosanta, ma non necessariamente nelle forme attuali, che tra l‘altro sono un punto di arrivo, momentaneo, di una storia lunga secoli, che ha visto le più diverse concezioni di volta in volta coerenti con la società che le esprimeva; la centratura ossessiva sul venduto, sul numero di copie che fa aggio sulla qualità del prodotto che, certo, deve anche dar da vivere a chi lo produce, dall’autore all’editore, al distributore, al libraio, ma siamo sicuri che si deve fare così? Come se, prima di questo così, ci fosse stato il nulla? Come se nulla potesse cambiare, dove tutto cambia?

E mentre ci si stracciano le vesti per il cartaceo, si lasciano morire le biblioteche e le librerie e, sul fronte opposto, si lascia mal definito e mal normato il ‘nuovo che avanza’ (le frasi fatte, talvolta, sono una sintesi adeguata, per dire e, nel contempo, lasciar correre) in modo da poter poi piangere lacrime di coccodrillo.

Comitati al lavoro (sento dire, immagino, non mi è chiaro chi abbia incaricato chi in nome di chi e controllato da chi) per tutelare gli interessi rappresentati.

Il tutto mantenendo indefinito il bene che si chiede sia tutelato.

Il libro? Gli autori e gli editori, e la loro libertà di pensiero parola (scritta) e opere? La trasmissione e la conservazione delle opere? Un riscontro economico che renda liberi gli autori di svolgere la loro missione? Gli interessi economici, dentro il grande mondo dell’editoria (a questo punto non più intesa nel senso restrittivo, e in crisi, di produttrice di testi a stampa) in cui i diversi settori si ammazzano tra loro?

Ritorno al messaggio di un grande libro – grande non solo e non tanto per qualità di scrittura, ma per la chiaroveggenza espressa, e per la chiarezza espressa su ciò che dev’essere tutelato.

“E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: Noi ricordiamo”.