Verso la fine di un viaggio

DavidfosterwallaceBene. Mi mancano circa un centinaio di pagine per finire la prima lettura di “Infinite Jest”. E non riesco a pensare che D. F. W non scriverà più. Non ci riesco. Sento qualcosa del genere ‘devo prendermela con qualcuno, con chi non gli ha voluto abbastanza bene per farlo restare’, un abbastanza che, evidentemente, doveva essere fuori portata per chiunque; sento anche qualcosa che invece dice sì, dopo tutto ciò che ha spremuto di sé, aveva il diritto di dire basta e sì, se si vuole davvero bene a una persona, è anche giusto lasciarla andare.

Non so. Leggere Wallace è decisamente qualcosa di diverso. E sì, forse D. F. W ha scritto tutto; e non ci sarà mai abbastanza tempo per leggere tutto, entrandoci dentro. E dunque. L’arte annulla la freccia del tempo e fa sì che ciò che è stato possa tornare, che ciò che è stato permanga, rinasca, si rinnovi. Sono tutti qui, il loro tempo è il presente, nel quale e del quale parlano.

Ho detto che mi mancano un centinaio di pagine. Non è del tutto vero. Questa ‘prima lettura’ è stata parziale. Ne ho escluso le note, indispensabili, che l’autore ha posto come parte integrante del testo. Non potrò mai sapere se ho fatto bene, che lettura sarebbe stata, affrontata diversamente, più lenta, trattenuta.

Ho scelto così. Ed è stata una decisione in corso d’opera. Credo, nel corso di un primo sentimento di ‘paura’, che, per me, ha segnato il primo tempo di questa lettura: il termine non è giusto ma non ne trovo un altro. E non credo che, parlo per me, avrei potuto fare diversamente. Ora so di avere a disposizione un libro infinito, che dovrò riprendere, cercando di scavarne gli strati; dal quale dovrò anche difendermi per non finire preda del samizdat di cui il libro parla, l’Intrattenimento mortifero.

Ora rimane e cresce un sentimento di grande affetto per tutte le persone incontrate dentro queste pagine, un sentimento forte di infinita tristezza e di riconoscimento per quelle vite faticose: per il loro vomito, per gli intestini che si vuotano nel dolore e nella paura, per gli odori, per il sangue e la fatica, tutto nel segno dell’ordinarietà; per la loro verità che nulla ha a che fare con la distopia-contenitore di una società immaginata, e neanche poi tanto; prefigurata, nel segno del possibile; per la sensazione di poterli, uno ad uno, incontrare nella quotidianità e sapere, nel contempo, che se non li incontro, tutti, uno ad uno, sarà unicamente perché sono cieca, e codarda e sì, perché no, prigioniera della paura che porto con me nel dovermi riconoscere nell’altro. In qualunque altro.

So che, se posterò queste righe, sembreranno incomprensibili per chi non ha letto questo libro, ma sono solo prolegomeni, alla ricerca del poterne parlare. E sostituti di un consiglio, inopportuno, che può solo tradursi in domanda: leggere questo libro?

Scritto nel 1996, Wallace immagina un mondo che, se non si è inverato, non ci risulta tuttavia del tutto strano, con gli U.S.A., il Messico e il Canada divenuti un unico stato (O.N.A.N. – Organization of North American Nations) segnato dalla Grande Concavità, un territorio, tra il Nord degli U.S.A e il Canada, divenuto una discarica delle scorie di impianti di produzione energetica (non ci ho capito molto: ritengo, spero, di non essere la sola, ma soprattutto non credo abbia importanza alcuna), verso cui vengono convogliati tutti i veleni che ammorbano l‘aria e dove nascono, si sviluppano, creature umane mutanti.

Wallace non racconta, in effetti, questa storia. Non davvero. Racconta vite ordinarie, estreme, affaticate dalla sofferenza; racconta persone e destini. Di un domani, desolante, di un oggi, di ieri. E un’altra voce, di un ieri ormai lontano, mi risuona dentro, presente, mentre leggo, mentre il telegiornale parla, in sottofondo e racconta vite, diverse, estreme e anonime. Salgono al ricordo il volto e la chitarra di Joan Baez e una vecchia canzone. Tutt’altro. La stessa cosa.

Le mie ferie-divano stanno finendo. Spero che riuscirò a raccontare gli incontri che le hanno segnate.