
La maggior parte dei libri che leggiamo, degli autori che apprezziamo, è straniera; così come lo sono la maggior parte dei film che vediamo e della musica che ascoltiamo. Non si tratta, in questo caso, della nota esterofilia italiana: gli autori italiani sono apprezzati, mi pare, dai lettori e tuttavia, in un mondo globalizzato, dove tutti esportano i propri prodotti e il mercato è globale, dove sono globali la comunicazione e il bisogno di conoscere, non può essere che così.
Ed ecco aprirsi il tema della centralità che assume, o dovrebbe assumere, in un mercato di questo tipo, il traduttore letterario.
Se le leggi del libero mercato fossero ciò che pretendono di essere, i traduttori dovrebbero essere una categoria superpagata, nel cui novero è ambito e difficile accedere in base ad una selezione che premia e acquisisce i migliori. Dovrebbero essere una categoria superorganizzata, che tutela i propri membri con la potenza di una lobby e seleziona ferocemente i propri professionisti su base meritocratica.
E dunque, coloro che hanno il compito, eccelso, di abbattere le barriere linguistiche e consentire lo scambio della parola, la conoscenza reciproca tra genti diverse, l’accesso alle diverse letterature con tutto il valore che ne consegue, dovrebbero essere riconosciuti, rappresentati, al pari degli autori.
Le cose non stanno così, quantomeno non nella realtà italiana. Non conosco a sufficienza la situazione degli altri paesi, e mi piacerebbe saperne di più.
In Italia, la legislazione tutela in modo vago la professione, senza veramente definire la specificità, il valore, l’identità professionale del traduttore, e in conseguenza i suoi diritti al riconoscimento, non solo economico; in conseguenza, tale professione si riduce, spesso, ad un lavoro sostenuto solo dalla passione del singolo professionista, che tuttavia in esso impegna una alta (e costosa, in tutti i sensi) professionalità, da costruire e da mantenere.
Lo scarso riconoscimento economico dell’attività di traduzione letteraria è, nella sua ingiustizia, precisamente l’indicatore del suo scarso riconoscimento professionale e sociale. Ciò è tanto vero che difficilmente il traduttore è in grado di sostenersi economicamente su questa sola attività che pure è di grande impegno e richiederebbe di essere svolta in via esclusiva.
Eppure, i traduttori delle opere che leggiamo con passione sono, spesso, anche per noi lettori, degli invisibili: chi, quanti di noi conoscono, con i nomi e la storia degli autori dei nostri libri, i nomi e la storia dei loro traduttori, il cui nome è riportato, quasi nascosto, nella copertina interna e, talvolta, solo nel colofon? Quasi mai è in copertina. Del traduttore non esiste il volto, su tale figura non si hanno informazioni, la sua voce si sente raramente. E quasi mai, se non per opere particolari, è considerato, valutato, dalla critica letteraria: al massimo, lo diviene quando ci sono pecche nel suo lavoro. L’encomio: raro.
Il problema è, in effetti, difficile. Quanti di noi sono in grado di leggere libri in diverse lingue, diciamo più di due e, anche in questo caso, hanno la competenza necessaria a valutare il lavoro del traduttore e la sua qualità? Quanti di noi sono in grado di valutare e discriminare, in conseguenza, non il valore generico ma la specificità, di una traduzione, il suo rispetto per il testo ma, soprattutto, per il mondo dell’autore?
Alcune informazioni, per passare al concreto. L’opera del traduttore è tutelata unicamente dalle legge 22 aprile 1941, n. 633 “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”, con le modifiche apportate dal D.lgs. 21 febbraio 2014, n. 22 e dal D.lgs. 10 novembre 2014, n. 163 dove, all’art. 4, si dice:
“(…) senza pregiudizio dei diritti esistenti sull’opera originaria, sono altresì protette le elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa, quali le traduzioni in altra lingua, le trasformazioni da una in altra forma letteraria od artistica, le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell’opera originaria, gli adattamenti, le riduzioni, i compendi, le variazioni non costituenti opera originale.”
Tutto molto vago e, nella misura in cui la traduzione viene, correttamente, considerata come ‘opera creativa’, lasciato alla indefinitezza che viene sempre associata a tali produzioni: non è possibile, sembra si dica, impegnare, legalmente, un <artista> a esser <preda di ispirazione>.
Ora, mentre la qualità creativa di un’attività quale quella del traduttore non può essere disconosciuta, è altrettanto reale che non può esserlo neppure la professionalità, che dunque dovrebbe incontrarsi con il riconoscimento del suo diritto ad essere tutelata, anche legalmente e contrattualmente.
Questo, dovrebbe, per la verità, valere anche per gli scrittori. Se è possibile commissionare un pezzo musicale, così come una scultura, un affresco, un quadro, senza dover dipendere dal momento di ispirazione dell’artista, lo è anche commissionare un romanzo, per non dire un saggio. Certo, diversamente da come si commissiona una scaffalatura in cui collocare i propri libri: ma non è possibile disconoscere, nel lavoro creativo, la componente di professionalità che lo qualifica (e volendo, in ogni lavoro, la componente di creatività che non manca mai: non esistono lavori che non abbiano, alla base, il pensiero).
Ora, cercando informazioni sul tema, emerge come il lavoro generico di traduzione venga retribuito, di norma, tra gli 8 e i 16 euro a cartella, che arrivano a 20 euro di media per la traduzione letteraria. E possiamo concordare sul fatto che tradurre una cartella (2000 battute, l’equivalente di una pagina a stampa) richieda almeno, e dico almeno, un’ora di lavoro, senza riferimento al <cosa> deve essere tradotto, di quale autore si parla; ci sono pagine che sicuramente, per una cartella, possono richiedere giorni o una intera vita.
Ancora: il traduttore non è mai (immagino ci siano le eccezioni ma nel caso sono da considerarsi numericamente tali) legato alla Casa Editrice da un contratto di lavoro. Egli opera come free lance, in regime cosiddetto agevolato, come gli autori, e dunque non è soggetto a IVA: in conseguenza, ai suoi redditi non corrisponde alcun versamento previdenziale. L’insicurezza e l’invisibilità professionale sono servite.
Ultimo punto: al traduttore, di regola, non vengono riconosciute royalties. Ma come: gli si riconosce il diritto d’autore, ma non si riconosce che, in conseguenza, tale diritto corrisponda, anche per il traduttore, ad un risultato economico sulle vendite?
Il risultato di tutto ciò porta al fatto che l’attività di traduzione venga svolta da professionisti che, non essendovi alcun requisito formale obbligatorio richiesto per esercitarla, possono venir travolti da un meccanismo di concorrenza sleale, che produce l’ingiusto livello della retribuzione esistente e il permanere in uno stato di invisibile insicurezza.
Tutto questo non può non avere ripercussioni pesanti, oltre che sulla qualità di vita del traduttore, anche sui prodotti che l’editoria italiana mette a disposizione dei propri lettori; e dunque ha ripercussioni pesanti sulla nostra vita di lettori che, inavvertitamente, non si impegnano a conoscere adeguatamente questa parte, essenziale, dell’opera che hanno tra le mani e che tanto amano. Se parlo solo per me, per favore, ditelo: ne sarò felice e cercherò di emendarmi. Se invece parlo per molti, se non per tutti, potremmo cominciare a emendarci insieme.
E’ uscito un libro di Massimo Bocchiola[1], “Mai più come ti ho visto. Gli occhi del traduttore e il tempo”, Einaudi 2015. Non l’ho ancora letto, lo farò. Spero sia interessante. E sicuramente, da ora, vergognandomi per il comportamento passato, nonostante il nulla che questo vale, ricorderò di porre, accanto al nome dell’autore straniero che propongo, il nome del traduttore (come persino la bistrattata Amazon fa). Se dimenticherò di farlo, richiamatemi all’ordine.
[1] Di cui segnalo una interessante intervista nel blog ‘Il bloggo di Herr Joe e Ma’am Freida”. Vedi qui