La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
(Fernando Pessoa)
Ed ecco che le cose, che pure erano attese, accadono e, perché attese, ci trovano impreparati.
Qualunque cosa significhi essere preparati all’assenza di una persona che dà forma alla nostra vita, la perdita ci rende irriconoscibili a noi stessi.
Tra chi legge queste pagine alcuni, molti o pochi, conoscono me e hanno conosciuto e amato la mia amica. E io mi trovo a doverne parlare perché, nella sua assenza, dovrò ritrovare una diversa me stessa, facendo in modo che lei mi abbia lasciato solamente nella forma di una diversa quotidianità, e anche no, ecco, anche no.
Poi, certo, se i miei anni continueranno a scorrere, il tempo ci porterà età non condivise, chi resta più giovane e chi invece oltrepassa quel tempo, dentro quel piccolo morire quotidiano che è la vita. E chi ci ha lasciato resterà con noi così come vi resta la nostra giovinezza, come restano gli anni che non sono più, quando le nostre vecchie foto ci restituiscono un io che, se pure conosciamo, e di lui sappiamo molte cose, nulla mai saprà di noi.
Lei, non detta, è sempre stata presente in queste pagine: la mia prima ‘follower’, oggi si dice così, ha molto dibattuto con me le cose che scrivo, portando nella mia e nella sua vita anche gli scontri che segnano le amicizie forti. Io, nel chiudere un pezzo, sempre ho pensato al suo possibile giudizio.
Ancora di recente stavamo dibattendo un tema, tra noi, a spezzoni, nel modo che gli assalti della malattia le consentivano, senza perderne il filo; e il tema, pure se risolto nella sua forma iniziale di domanda, non era giunto a conclusione: continuavamo a cercare il come, il quando, il perché si scelgono certi libri, se ne respingono altri; il come, il quando e il perché, certuni scelgono certi generi e ne respingono altri; o come tali scelte cambino, o non cambino, nelle diverse età della vita adulta.
Parlavamo, nella complessità delle nostre ottiche diverse, forse ma non sempre complementari: io ‘filosofa’, lei psicoterapeuta – incompatibili nei diversi modi del pensiero, e dunque amiche.
La risposta dovrebbe essere facile e scontata: gusti, bisogni, diversi. Ci pareva di aver scoperto che non lo era. Tuttavia, mentre sono certa che non lo è, mi accorgo, sospetto, che parte di questo colloquio, intenso, stringente, al limite dello scontro per via del modo in cui era sorto, è stato in parte un mio soliloquio, con lei come mio alter ego. Perché, diciamolo, il colloquio, stretto, intenso, stringente, tra amiche, non sempre prevede l’ascoltarsi; è frequente che si oda ciò che ci si aspetta di udire, ciò che si vuole sia il pensiero dell’altra, che a sua volta sentirà, dalla nostra voce, unicamente il suo pensiero su di noi.
Ed è persino bello il non capirsi e neppure saperlo se poi, fatica su fatica, seguirà la scoperta – lei mi stava dicendo un’altra cosa, e io non ascoltavo – ora lei ha colto cosa le sto dicendo, ha smesso di incaponirsi e attribuirmi un pensiero non mio.
Poi, la sua malattia ha avuto la meglio, quando mi ha detto, ci ha detto: ‘ora, dovete lasciarmi andare’.
Quel giorno, meno di due settimane fa, le ho detto una bugia, grande. Ho detto che sì, l’avremmo lasciata andare se questo era il suo bisogno, la sua richiesta.
Un bugia: non ho riconosciuto il bivio raggiunto. Ho continuato a parlare con lei, ad ascoltarla, in soliloquio – domandandomi se non fosse ciò che facevo, con lei, di lei, anche nel nostro colloquio, e ciò che lei faceva con me, di me. Un modo forse, di sentire la reciproca vicinanza. Un residuo di adolescenza, quando si equivoca il con-fondersi in un comune pensare con il dialogo, che richiede invece la distanza, un io e un tu, separati.
Ora che la separazione è venuta, ora so di dover trovare il modo, nel soliloquio, di salvare la distanza, riconoscere un tu nel quale proseguire un dialogo che, a poco a poco, lentamente, scivolerà nel suo non sapere della mia nuova età mentre io non so già il suo oggi, e posso solo trattenere il giorno presente e i giorni, gli anni condivisi, recuperare foto, e memoria, e affetto, scontri e risate.
A partire dall’ultimo percorso di dialogo, bello, che ci ha regalato un nuovo pezzo di cammino condiviso e fatto sorridere per la nuova scoperta l’una dell’altra.
È accaduto un po’ di tempo fa: un certo giorno, l’amica mi ha accusato – era proprio arrabbiata – di non leggere e recensire mai i libri che lei mi consigliava. La cosa mi ha divertito, confesso, mentre tralasciavo di farle osservare che ciò di cui mi accusava era reciproco – lei seguiva e commentava, con me, la mia scrittura, ma difficilmente sceglieva di leggere i libri che io proponevo.
Per amicizia si fanno cose, e dunque ho scelto di leggere e, a seguito, di recensire un libro di sua scelta, la cui insistita non lettura da parte mia aveva generato l’apice del confronto/scontro.
Bene: non posso dire che ho stroncato quel libro, non sarebbe vero; è un libro di scrittura pregevolissima, impossibile non gustarlo in questo senso, rimanendo un libro che a me non è piaciuto, e la mia recensione credo lo abbia evidenziato. Il romanzo è “Stoner”, di John E. Williams. La recensione si trova qui.
Al tempo, non l’ha presa benissimo. Ma l’ha presa bene quel tanto che ha consentito il parlarne e concludere – armistizio – che a sua volta lei non amava i libri che amavo io – pace. E avvio di una riflessione condivisa.
Questa evidenza ha portato stupore, che è diventato interesse, curiosità, domanda su cosa contenevano, di ognuna di noi, i libri che io sceglievo/che lei sceglieva. C’è stata, da parte di entrambe, una curiosità gioiosa nella scoperta che, per il tramite dei nostri libri, avremmo potuto trovare aspetti sconosciuti della nostra amicizia datata quarant’anni.
Ne è seguito un colloquio, il cui fulcro non poteva essere risolto nel banale ‘abbiamo gusti diversi’. Sapevamo ambedue che c’era molto di più e molto altro in tutto ciò.
Lei ha iniziato, poco a poco, a provarsi in scelte mie; io ho affrontato un paio di romanzi di suo suggerimento.
Nel corso della sua ultima fase di malattia, abbiamo letto un romanzo di sua scelta, insieme. La mia monotona lettura ad alta voce, conseguente alla sua intervenuta difficoltà a poter leggere, è stata un grande momento di condivisione, e la scoperta, per me, di un modo e un tempo di lettura preziosi.
Ho molto apprezzato un romanzo, da lei scelto, che lei ha invece trovato in parte deludente. Era una storia, che la lettura ad alta voce, necessariamente lenta, allungava, della quale ci intrigava il desiderio di giungere alla fine e vedere come si sarebbe potuta concludere, in un procedere per dettagli di giornate senza accadimenti che potessero indicare un intreccio qualsivoglia, alle prese con una protagonista che risultava (parere di lei, io dissentivo), pagina dopo pagina, priva di profondità, quasi – ecco – “una comparsa”.
Per l’appunto. Abraham B. Yehoshua, “La comparsa”, Einaudi 2014.
Un libro interessante. È qui, sul mio tavolo. Me l’ha prestato, in previsione di una recensione. Dovrò rileggerlo.