“Cause di Morte” – Qualcosa su Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann
Ingeborg Bachmann

Parlare delle opere di Ingeborg Bachmann è arduo se non si è messa a fuoco una storia, un contesto di vita di questa grande scrittrice.

Ma come – mi dico da sola – non basta la sua scrittura a giustificarla?

E mi rispondo, devo rispondermi, che la sua scrittura si giustifica da sé, qualunque sia stata la sua vita, eppure: qualcuno potrebbe immaginare Virginia Woolf senza il Gruppo di Bloomsbury? La vita, per alcune autrici, è un <luogo> della loro arte – ecco, credo valga, in modo particolare, se non solo, per le donne. Dovrei pensarci meglio, ma mi pare sia davvero così. È qualcosa che ha che fare con la loro posizione nella società, con il loro essere ingabbiate in ruoli e status assegnati, per i quali la donna e l’artista, nella stessa persona, richiedono una forma di rottura con il contesto di vita. Qualcosa del genere.

Lo derivo, anche, dal bel libro di Grazia Livi “Le lettere del mio nome”, La Tartaruga Edizioni, 1991, che affronta il tema della scrittura femminile attraverso un percorso nelle vite e nell’opera di grandi scrittrici del nostro tempo. Le lettere de mio nomeNel capitolo dedicato a Ingeborg Bachmann, la Livi riporta le parole dette dalla Bachmann a Uwe Johnson, uno degli scrittori che con lei e con Günter Grass, fece parte del ‘Gruppo 47’[1].

C’è stato un momento che ha distrutto la mia infanzia: l’ingresso delle truppe di Hitler a Klagenfurt. Fu qualcosa di così orribile che i miei ricordi iniziano con questo giorno: con un dolore troppo precoce e con un’intensità che forse in seguito non ho più provato”.

Grazia Livi continua: “Era la primavera del ’38, lei aveva dodici anni. Tutto fino ad ora era stato quieto, soffocato, modesto, rispettabile; il padre era maestro di scuola, la madre era casalinga, la sorella e il fratello facevano i compiti, la soffitta odorava di mele, nel giardinetto era ammassata la legna. D’un tratto un adulto si precipitò a chiudere tutte le imposte (…). In seguito, non dirà a se stessa che marciavano bensì calpestavano: i corpi e il suolo. Quando si ritirò dalla finestra era preda ‘della prima angoscia mortale.’

Nata nel 1926 a Klagenfurt, visse in quella che era una amena cittadina, capoluogo della Carinzia, al tempo circa 25.000 abitanti. Lasciò Klagenfurt al termine della guerra, per frequentare l’università – Innsbruck, Graz e infine Vienna.

Alla sua ‘prima angoscia mortale’ seguirono gli anni della guerra, che stremarono Klagenfurt, pesantemente e ripetutamente bombardata. Sulle macerie del suo mondo, fu impossibile, per Ingeborg bambina, divenuta giovane donna in quegli anni, indebolire il ricordo degli stivaloni che scuotevano il suolo, delle truppe di Hitler che violentavano il suo mondo, che se ne appropriavano per distruggerlo.

Pure, leggendo della sua vita, colpisce come gli anni che seguirono quel ricordo incancellabile – la guerra, le bombe, le macerie, i morti – fossero, per lei, segnati dalle sue letture.

Conquistata dalle parole: dense, multiformi, insidiate da cadenze forestiere, oscure, solari, enigmatiche. Affascinata dalle emozioni che apriva e chiudeva come scrigni. Fin quando i libri presero a sovrapporsi alla realtà occupando ogni luogo: i cassetti del comodino, i ripiani della stufa, le tasche degli abiti, da cui venivano estratti non appena la mamma, finita l’ispezione, diceva ‘Su, dormite ragazzi’ (…) Come poteva addormentarsi se i libri le davano tutti quei brividi: Bellezza, verità, ambiguità? Teneva pronta sotto il cuscino, una lampada tascabile.”[2]

Terminata la guerra, il suo immediato futuro fu, lasciata Klagenfurt, lo studio, appassionato (“L’architettura umana è talmente oscura che solamente lo studio m’aiuta a penetrare certi problemi”)[3] la laurea a pieni voti in Germanistica, come allieva di Viktor Kraft, l’ultimo membro rimasto del ‘Circolo di Vienna[4], scioltosi dopo l’assassinio da parte nazista del suo fondatore, il filosofo e fisico Moritz Schlick, nel 1922; una tesi contro Martin Heidegger; la scelta di un futuro di scrittura; il Gruppo 47; la pubblicazione della sua prima opera di poesia, “Il tempo dilazionato”, seguito da “Invocazione all’Orsa Maggiore”; il lavoro come redattrice radiofonica, la scrittura di radiodrammi; il suo girovagare, di città in città, per l’Europa.

Le opere in prosa, i racconti (“Tre sentieri per il lago”, “Il trentesimo anno”), i romanzi (“Màlina”, gli incompiuti “Il caso Franza” e “Requiem per Fanny Goldmann[5], che dovevano far parte di una trilogia dal titolo “Cause di morte”); le opere di saggistica. E molte altre opere. Una grande produzione, riconosciuta immediatamente, superpremiata; docente nella nuova cattedra di poetica dell’Università di Francoforte (“Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte”).

Tutto vero, tutto bene, Pure. Ingeborg viaggia, gira, non trova il suo <luogo>. Ingeborg sembra, alla fine, trovarlo, in Italia, a Roma dove, dopo aver ancora vagato, resterà, Via Bocca di Leone. Era il 1965 e Ingeborg aveva 39 anni. Giovane. All’apice della, chiamiamola carriera. Fallito il suo bisogno di amore. Ingeborg fuma, troppo, beve troppo, alcool e caffè, si chiude. È vittima della fatica di vivere. La guerra dentro di lei. Le parole che devono uscire, e fanno male.

La guerra, come tema? No, la morte, no, la donna, la guerra, la morte, la donna, la sua infelicità di donna, una sentenza di morte.

Quella guerra annegata nei libri, l’orrore che lo studio forsennato aveva cacciato nel fondo, che nella poesia aveva trovato una voce forte, che sceglierà di tacere, che forse si è spenta (“No, non credo che sia una fonte che si prosciuga. La poesia è un modo di essere, una condizione esistenziale. Non è che da questa condizione si possa uscire…Semplicemente è una condizione che, se è cessata, non si può più riprodurre”)[6]; niente è ora ricacciabile giù, silenziabile, nel fondo; tutto deve essere tradotto, fatto uscire in parole, che fanno male – e lei trova le parole, eccome se le trova, nella sua prosa lucida e allucinata, le parole-dolore che le tolgono la vita, le tolgono l’aria ma le sono necessarie per vivere.

Allora, la guerra non è altro che l’ampliamento di un’altra guerra: quella personale?”

“Certo. Ma su tutto questo si è sempre mantenuto il segreto…Si è puntato sul delitto ovvio, quello che appare sui giornali, o sulla guerra del Vietnam, come se esistessero davvero, come se non fossero la conseguenza di tutti i delitti nascosti…Cosa si dice comunemente? Che uno ha una malattia, che muore di malattia. Non è vero. Questa è la versione ufficiale. In realtà ognuno di noi viene ucciso…è stata, a ucciderlo, la crudeltà dell’altro”

Grazia Livi racconta, era il 15 settembre 1973, a partire da un’intervista a Ingeborg Bachmann di cui, prima che il suo pezzo uscisse sul giornale, dovette ricostruire la ormai prossima morte; l’ospedale, la casa a fuoco mentre dormiva, ustioni tropppo gravi, forse una sigaretta fumata a letto. La scrittrice morì il 17 ottobre 1973. Cause di morte: Incidente. Dinamica: mai chiarita.

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[1] Gruppo 47: Libera associazione di scrittori e critici tedeschi, nata nel 1947 per iniziativa di H.W. Richter, A. Andersch, W. Kolbenhoff e altri. Non si poneva un programma letterario ma, partendo dall’esperienza del nazionalsocialismo e della guerra, rappresentava un’esigenza etica d’intransigente condanna al totalitarismo, ponendo particolarmente l’accento sulla responsabilità dello scrittore nella società. Divenne in breve tempo lo strumento più efficace per far uscire gli scrittori dal loro isolamento e per imporli all’attenzione di critici ed editori, consacrando via via quasi tutti gli scrittori tedeschi e di lingua tedesca sorti nel dopoguerra, tra cui I. Bachmann, H. Bōll, G. Eich, H. M. Herzensberger, G. Grass,, W. Jens, M. Walser – in: http://www.treccani.it/enciclopedia/gruppo-47/

[2] Grazia Livi, “Le lettere del mio nome”, La Tartaruga Edizioni 1991, pag. 178

[3] In Grazia Livi, “Le lettere del mio nome”, La Tartaruga Edizioni 1991, pag. 179

[4] Wiener Kreis – Associazione di filosofi e scienziati che si riunirono attorno a ­Schlick, prof. di filosofia della natura presso l’univ. di Vienna, a partire dal 1924 sino al 1938. Il circolo di V. può essere considerato come il contesto storico-ambientale in cui si sviluppò il positivismo logico Tra i membri principali del circolo vanno ricordati: Schlick, Carnap, Feigl, Frank, K. Gödel, Hahn, V. Kraft, Neurath, Waismann. (…) A seguito dell’ascesa del nazismo molti membri del Circolo di V. si trasferirono negli Stati Uniti, dove continuarono a sviluppare il pensiero neopositivista. In: http://www.treccani.it/enciclopedia/circolo-di-vienna_%28Dizionario_di_filosofia%29/

[5] “Il caso Franza”, Adelphi 1988, forse esaurito.

[6] In Grazia Livi, “Le lettere del mio nome”, La Tartaruga Edizioni 1991, pag. 189