E mentre tutto accade, io leggo i miei libri

Il secolo breveInutile dire che questa ultima non non è stata una settimana qualsiasi per il nostro, limitato, mondo occidentale – per altri mondi a noi vicini, che poi sono sempre il nostro, da ormai troppi anni non esistono settimane qualunque.

Mentre tutto accade, io leggo i miei libri: e penso in che modo il mio leggere abbia a che fare con l’oggi, con le storie degli accadimenti in corso. Leggere, che si tratti di libri di narrativa o altro, significa aver a che fare con la diacronia; quanto meno, non equivale ad un essere in sincronia con ciò che accade nel nostro mondo, che richiede il nostro pensiero e la nostra presenza. Attiva, se possibile. Nella lettura non c’è sincronia con il nostro qui ed ora.

Ciò significa che, leggendo, si abita un altrove rispetto alla vita? Altri tempi e altri mondi? Leggere equivale a “rifugiarsi in un libro”?

Mi interrogo su cosa significhi essere una lettrice, un lettore. Dopotutto, nella nostra società, tutti leggono, anche se le statistiche dicono che non è così.

Leggere è anche studio, ci si sta preparando ad un esame; è occuparsi dei propri interessi privati, si legge con cura un contratto di lavoro, una lettera del commercialista, il verbale di riunione del condominio, il manuale di istruzioni del nuovo aggeggio per la casa; il bugiardino di un medicinale.

Leggere è il quotidiano che ci informa sulla nostra città e sul nostro mondo; in sincronia con ciò che accade. È tante cose, che non sono la stessa cosa. O forse sì.

Tutti noi costruiamo immagini, pensieri, racconti, mondi, fantasie attraverso ciò che leggiamo; anche leggendo la sola bolletta della luce, input sufficiente a far emergere capacità infinite di costruire trame, sicuramente persecutorie ma che attivano pur sempre l’immaginazione, con la capacità di leggere e, per tale via, costruire, la nostra realtà, un suo ampliamento, e un’infinità di mondi paralleli. Più o meno ricchi. Potrà derivarne anche solo una sequela di imprecazioni, che esprimerà tuttavia una nostra personale Weltanschauung.

Poi, ci sono i LIBRI. E ci siamo noi, che li leggiamo; noi, quelli il cui mondo cade se privato di libri e che, nei libri (dicono di noi) “troviamo rifugio”.

Ma la lettura non è questo. Non è un rifugio. E chi legge non abita un tempo fuori dalla realtà. Il lettore e il suo libro abitano il mondo, abitano “tutto ciò che accade”.[i]

Leggere – libri, dico, sprofondando dentro la diacronia, ed è lo stesso se si tratterà di un romanzo, di racconti, di un saggio su un periodo storico, di un testo di filosofia del linguaggio, di una raccolta di poesia, o di fiabe – è la sola possibilità a nostra disposizione per far sì che venga costruito un racconto, un immaginario, che ci porti fuori dall’incubo, che porti tutto il mondo fuori dall’incubo perché, oggi, nel tempo della maggior solitudine individuale e di gruppo che la storia ricordi, siamo totalmente interdipendenti.

Mi trovo, così, proprio perché come tutti, lettori (di libri) e lettori (gli altri), vivo la realtà, a confrontarmi con questo mondo e con quest0 tempo; a cercare: di capire, di contenere le emozioni, di trovare un modo per esprimerle, a me stessa innanzitutto, e consentire loro la parola. Mi trovo a cercare un ‘che fare’ che liberi dall’impotenza, che porta solo rabbia inutile, che soffoca il dolore e disarma.

In nessun luogo, se non nei libri, trovo un modo per capire, da una giusta distanza, e incontrare, attraverso un’emozione differita, o una catena di pensieri, il mondo.

La banalità del maleNei libri si trova un <come>, per fare qualcosa di utile, individuare un sentiero, una traccia, che porti a una qualche comprensione, che consenta di fronteggiare, senza farsene travolgere, la domanda che chiede da dove venga tutto ciò che avviene. La domanda che interroga su di noi, su di loro; siano, questi <loro>, il Terrore di chi crede di lottare, non sapendo più costruire un proprio racconto di futuro; o il malessere profondo di un ragazzino che, disarmato per la vita, si arma; o un capostazione distratto e stanco; o un intreccio di politici e burocrati stupidi la cui cattiveria ha radici che potrei trovare anche in me – la “banalità del male”, che Hannah Arendt ha trovato il coraggio di vedere e dirne, accettando l’aggressione che ne è seguita. E purtroppo l’inutilità delle sue parole non sufficientemente lette.[i]

Sta nei libri, e nelle domande che aiutano a porre, la possibilità di non cadere nella disperazione, nella rabbia, nella violenza propria di chi possiede risposte.

Il mio programma di letture, in questi giorni, è cambiato. Ho lasciato in attesa i libri della mia pila, che ritroverò (e mi daranno risposte, mi consentiranno connessioni, forniranno sentieri per un percorso).

E mi ritrovo a intrecciare letture.

Lilli Gruber, «Prigionieri dell’islam» (posso dire che non mi piace il titolo? Ma confido nell’autrice), Rizzoli, 2016. Fa parte della pila, e forse può dirmi qualcosa. Sottotitolo: «Terrorismo, migrazioni, integrazione: il triangolo che cambia la nostra vita». Una giornalista, un approccio sincronico.

Una rilettura:  Freya Stark, «Lettere dalla Siria», con tutto il suo portato di atmosfera colonialista inconsapevole e orgogliosa di sé, resa da una donna capace, dentro la gabbia del suo mondo, di incontrare l’altro, armata di un identico sguardo, di simpatia e ironia assolutamente feroce, rivolto a chiunque: al Governatore italiano di Rodi (era il 1927, anno VI Era Fascista) che “dice che ha davvero pochi problemi con la gente del posto, e che tra tutti loro i turchi sono quelli con cui è più piacevole aver a che fare, obbedienti, onesti e stupidi (i tre aggettivi usati in senso positivo)”; a M.lle Audi la  padrona di casa francese a Brumana, in Libano, descritta come “una cosina gentile con una sorta di raffinata e sbiadita giovinezza che le si aggrappa ancora addosso”; al suo insegnante siriano di arabo che “si arrabbia così tanto perché faccio domande. (…) Sono la prima studentessa femmina e credo di ispirare in lui la piacevole sofferenza che dà una poderosa strofinata.

Eric Hobsbawm, «Il secolo breve», BUR 2014. In corso di lettura. Lenta. Occcorre pensare. E ricordare: «A una stima approssimativa negli anni tra il 1914 e il 1922 si ebbero dai quattro ai cinque milioni di profughi. Questa prima ondata di relitti umani fu di assai poco conto rispetto a quella che seguì la seconda guerra mondiale, dove i profughi vennero trattati spietatamente. È stato calcolato che nel maggio 1945 c’erano forse in Europa 40,5 milioni di persone sradicate dalla propria terra natale, esclusi i lavoratori non tedeschi impiegati in Germania e i tedeschi che fuggivano di fronte all’avanzare dell’Armata Rossa (Kulischer, 1948, pp.253-273). Circa 13 milioni di tedeschi furono espulsi dalle regioni della Germania annesse dalla Polonia e dall’URSS, dalla Cecoslovacchia e dalle zone dell’Europa sudorientale dove essi si erano sistemati da tempo (Holborn, p. 363). Essi furono accolti dalla nuova Repubblica Federale di Germania, che offrì una patria e una cittadinanza a tutti i tedeschi che vi rientravano, così come il nuovo stato di Israele offrì un “diritto di ritorno” a ogni ebreo. (…) Questi furono solo i profughi dall’Europa. La decolonizzazione dell’India nel 1947 ne creò 15 milioni. (…) La guerra di Corea, un altro derivato della seconda guerra mondiale, produsse forse cinque milioni di profughi coreani». (segue, l’elenco non è completo).

Ho bisogno di pensare, e capire. Non trovo altro da poter fare.

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[i] L. Wttgenstein, Tractatus logico-philosophicus, asserzione 1: Il mondo è tutto ciò che accade; asserzione 2: Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.

[i] Hannah Arendt, «La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme», Feltrinelli