Emmanuel Carrère, «Io sono vivo, voi siete morti», Adelphi 2016
Traduzione di Federica e Lorenza Di Lella
«Difendi la tua privacy. Avete l’impressione che qualcuno si stia sintonizzando sui vostri pensieri? Siete sicuri di essere veramente soli? (…). Forse qualcuno che non avete mai incontrato sta prevedendo le vostre azioni? Date un taglio all’angoscia: contattate la più vicina organizzazione di prudenza; vi dirà subito se siete veramente vittima di intrusioni e poi le neutralizzerà…a un costo accessibile» (Ubik, 1969)
Cosa ci può essere di peggiore dell’essere schiavi e sottomessi a un volere terzo? La risposta di Philip Dick è interessante: esserlo e neppure saperlo.
Oggi leggiamo Philip Dick sentendolo ben presente al nostro tempo. Non c’è dubbio alcuno su questo. Tralasciando gli abbellimenti narrativi che trasfigurano tutto ciò di cui tutti, oggi, sentiamo di dover diffidare, il pezzo sembra scritto per noi, che veniamo accompagnati a conoscere questo autore-guru la cui fama è stata, almeno fin verso la fine prematura della sua vita, tanto limitata quanto osannata dagli appassionati del genere, rimanendo tuttavia circoscritta nell’ambito di una narrativa di nicchia.
Philip Dick è morto per un ictus – era il 1982 e aveva solo cinquantaquattro anni – nel momento in cui la sua fama di scrittore raggiungeva il meritato successo. Stava per uscire un film, «Blade Runner» (“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare…”), tratto dal suo romanzo «Ma gli androidi sognano pecore elettriche?»[i] E Dick non immaginava di morire. O forse sì.
È stato un autore a lungo scarsamente considerato dalla letteratura ufficiale; non casualmente povero, costretto a scrivere e scrivere, a pubblicare in modo forsennato per portare a casa di che mangiare e dar da mangiare alle sue cinque mogli (una alla volta, certo), ai figli e, mettiamoci anche, per un tempo della sua vita, agli amici freak che ne invadevano la casa, per non parlare del bisogno, lungo tutta la sua vita, di pagare lo psichiatra di turno e i medicinali, le anfetamine da cui dipendeva per sostenersi, per reggere ritmi di lavoro allucinanti e fronteggiare i suoi incubi.
È tuttavia un autore da cui è impossibile prescindere, persino, direi, per chi non lo ha mai letto. Basta che ognuno di noi insaporisca il proprio mondo con una qualche dose di paranoia e una qualche spruzzata di teorie complottiste, e difficilmente possiamo dire di non aver incontrato Philip Dick. Il suo immaginario si è infiltrato nella nostra società, dentro ognuno di noi, analfabeti compresi, dando voce e forma a incubi che, frutto della sua immaginazione, delle sue turbe caratteriali e, perché no, di intuizioni che affondavano le radici nella società e negli anni in cui è vissuto, hanno anticipato temi (e miti più o meno fasulli) che oggi permeano la realtà in cui viviamo. Fino a, e compreso il, delirio religioso del Dick degli ultimi anni.
Profeta dunque, Philip Dick? Anche sì, qualora i profeti esistano nella forma di persone capaci di far sintesi degli stimoli che la realtà fornisce loro.
Pazzo, malato di mente? Ci sta, dipende da ciò che inseriamo nel significato delle parole ‘pazzo’, ‘malato di mente’. Neppure la falsa vulgata che lo voleva tossico, strafatto di acido, alla cui diffusione ha peraltro contribuito molto Dick stesso, è mai stata veramente creduta.
Impagabile chiacchierone Philip Dick, su di sé e sulle sue idee. E chi lo ha mai visto un pazzo capace non solo di umorismo ma di autoironia? Capace di demolire ogni volta le proprie tesi se, per caso, trovava qualcuno disposto a crederci e che, dunque, poteva far finire il gioco?
Neppure scriveva in modo eccelso, Philip Dick, a voler essere giusti. Sicuramente non si faceva paranoie a proposito di stile. Troppo occupato a temere di esserlo davvero, paranoico, e a temere di non esserlo, nel qual caso i suoi incubi avrebbero rappresentato il mondo reale. Quale l’opzione peggiore?
Eppure – se vogliamo stare a quanto e a come ce lo racconta Carrère – difficile rappresentarlo come una persona infelice, se non a tratti, come chiunque. Difficile, nonostante i tentati sucidi (effettuati peraltro con annessa organizzazione del salvataggio) non apprezzare il combattente che, vivendo i peggiori incubi, sapeva cercarli, studiarli, chiarirli, quantomeno tentare. Sapeva combattere. Vincere? Non era un obiettivo. Cos’avrebbe potuto fare, dopo?
Ma questo libro è qualcosa di più e di diverso rispetto alla biografia, intensa, coinvolgente, dell’autore di «La svastica sul sole», di «Ubik», di «Ma gli androidi sognano pecore elettriche?», «Follia per sette clan» e di moltissimi altri romanzi. È il racconto di un mondo, e di un tempo.[i]
Carrère non separa la vita di Philip Dick dal mondo che ne ha prodotto, se non le caratteristiche personologiche, sicuramente i modi in cui queste si sono espresse; e ci racconta quegli anni, ad una distanza solo sufficiente ad amarne molte intuizioni e, perché no, ammirarne gli eccessi. Anni profetici? Che sicuramente avevano l’ambizione di esserlo, ma solo per gioco; che lo sono stati, senza volerlo.
Philip Dick, (1928 – 1982): una prima giovinezza a Berkeley, negli anni del maccartismo, velleità di scrittura che, scontrandosi con una personalità istrionica e irregolare, scivolò nella pubblicazione di racconti di fantascienza senza consapevolezza, senza sapere che ne sarebbe rimasto catturato, prigioniero di una produzione letteraria al tempo considerata di serie B, narrativa di consumo.
L’influenza della “rossa” Berkeley di quegli anni, e un carattere per il quale appena quattordicenne aveva incontrato (e manipolato) il suo primo psichiatra, Dick orientò tanto più la propria creatività verso un immaginario di tipo paranoide. Cosa di meglio, per uno di Berkeley, che convincersi di essere sorvegliato dall’FBI? E cosa di meglio della fantascienza per un’immaginazione capace di trasfigurare gli incubi (veri e, anche, ricercati da un incoercibile affabulatore) rendendoli espressivi dell’incubo del proprio tempo? La guerra fredda, la catastrofe atomica imminente, il disfacimento della democrazia e della libertà nell’America del maccartismo.
Ma il mondo stava cambiando. Arrivavano gli anni ’60, una gioventù alternativa avanzava sul proscenio; Timothy Leary aveva inventato l’LSD e ne aveva fatto una bandiera della libertà. «A Berkeley una dose standard da duecentocinquanta microgrammi poteva essere comprata legalmente per dieci dollari»; Bob Dylan cantava «The Times They Are A Changin’». John Kennedy veniva ucciso; pochi anni dopo, sarebbero caduti Malcom X, Bob Kennedy e Martin Luther King.
Carrère descrive così quel mondo e Philip Dick:
“Un sottufficiale che ho conosciuto divideva i soldati di leva, e quindi l’umanità, in due gruppi irrimediabilmente opposti: i bravi ragazzi e le teste di cazzo.» In questo mondo, «gli handicap che, nel suo piccolo, Dick poteva vantare si rivelarono un punto di forza. Non aveva finito gli studi? Tanto meglio, i drop-out, quelli che rifiutavano il sistema e i suoi valori, erano amatissimi. L’FBI lo aveva preso di mira? Era una prova della sua integrità. Scriveva opere che appartenevano ad un genere misconosciuto, proletario? Una scelta encomiabile. (…) Non era riuscito a diventare un bravo ragazzo? Sarebbe stato una testa di cazzo con i fiocchi. (…) Adolescente timido, piccolo borghese insoddisfatto di sé, nel 1964 Dick ebbe la splendida sorpresa di scoprirsi perfettamente in sintonia con lo Zeitgeist»
E tale sintonia lo accompagnò per tutta la vita, che Carrère seguirà avendo quale linea-guida le trame dei suoi romanzi e l’<io> del suo autore trasfigurato nei suoi personaggi – il percorso della scrittura e della vita di un uomo che non conosceva una linea di confine tra sé, il mondo in cui viveva, e la propria immaginazione; uno per il quale lo scrivere significava far sapere, divulgare, in forma di narrazione, fondamentali verità sullo stato di polizia in cui gli U.S.A. si stavano trasformando, sulla manipolazione delle menti in atto, in una società che non chiedeva di meglio che essere asservita, magari senza saperlo; e significava parlare, non essere solo, condividere.
Leggere la storia della vita di Philip Dick, narrata da un Emmanuel Carrère abilissimo conversatore, può costituire una lettura molto interessante. Mentre con Philip Dick si empatizza, necessariamente. Può ben essere il caso, dunque, di leggerne i libri.
E a questo proposito, parlando di oggi: «Avete l’impressione che qualcuno si stia sintonizzando sui vostri pensieri? Siete sicuri di essere veramente soli?»
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[i] Al tempo pubblicato in Italia con il titolo “Il cacciatore di androidi”
[i] Troverete interessanti recensioni qui: https://tommasoaramaico.wordpress.com/tag/dick/