Natalia Ginzburg. Donna, Madre, Scrittrice

Di un’autrice, di un autore ciò che di lei, di lui, interessa sta unicamente in ciò che ha scritto: è così e così dev’essere. Ci sono tuttavia autori, artisti, il cui tempo di vita, e la cui storia, gettano luce la-strada-che-va-in-cittasull’opera anche se questa non richiede, per reggersi, altro che se stessa.

Natalia Levi Ginzburg è uno di questi casi, e lo è in modo peculiare: la sua storia di vita, la storia della sua giovinezza, illuminano la sua opera soprattutto per la grande, anomala alterità esistente tra la sua vita e la sua scrittura. Perché esistono tempi, ed esistono vite, da cui non si può prescindere; e in particolare per una donna, in un certo momento storico, è difficile dare vita, anche, e soprattutto, e comunque, ai propri figli e ai propri libri, prescindendone. In modo determinato. Sicuro. Dolcemente cocciuto. Seguendo la propria strada qualsiasi cosa avvenga.

Natalia Levi nasce a Palermo il 14 luglio 1916, quinta figlia di Giuseppe Levi, professore universitario, appartenente a una famiglia ebraica di Trieste, e di Lidia Tanzi, come il marito triestina e di famiglia ebraica.

La famiglia Levi si caratterizzava per una profonda laicità. A casa loro nessuna religione veniva professata e, negli anni dell’infanzia di Natalia, mentre il fascismo avanzava, i Levi si segnalavano socialmente – con discrezione, senza enfasi, come richiesto dal galateo borghese – per il proprio rifiuto ad aderirvi; ed è interessante notare come, da quanto si legge nelle varie biografie, tale atteggiamento, profondamente inculcato nei figli, non derivasse tanto da opposizione ideologica, quanto da una scelta intellettuale, da una opzione della ragione e dell’intelligenza.

Natalia verrà cresciuta in una famiglia che univa, alla modesta condizione economica (dopotutto, il solo reddito di un padre, per quanto buono, non era molto per sostenere, crescere, far studiare cinque figli), uno stile di vita per molti versi privilegiato ma che pure insegnava ferreamente l’immoralità dello spreco. Pur con la doverosa persona di servizio in casa e la figlia piccola fatta studiare in famiglia, con insegnante privata. Così, a undici anni, l’entrata al ginnasio non sarà facile per Natalia ragazzina.

Saranno gli anni in cui i fratelli svilupperanno amicizie interessanti: frequenteranno la loro casa Giancarlo Pajetta, Adriano Olivetti, Vittorio Foa. E un certo Leone Ginzburg, un brutto ragazzo molto intelligente, di famiglia ebraica, originaria di Odessa.

Terminato il liceo, Natalia si iscriverà all’università, facoltà di lettere, senza terminare gli studi. Tra le righe, non detta, si sente l’opzione della non necessità di una laurea per una ragazza il cui destino sarà, primariamente, essere moglie e madre.

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Leone Ginzburg

Natalia sposerà, nel 1938, Leone Ginzburg, giovane professore di letteratura russa: antifascista, tra i primi aderenti al movimento Giustizia e Libertà, egli fu, con Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Cesare Pavese, Carlo Levi, Elio Vittorini, Massimo Mila, tra i primi collaboratori-fondatori della nascente Casa Editrice Einaudi.

È uscito lo scorso anno, finalista al Premio Strega, «Il tempo migliore della nostra vita» di Antonio Scurati, editrice Bompiani, che ne racconta la storia. E potrebbe – potrà – essere interessante proporlo.

Leone, già nel 1934 era stato arrestato e condannato a quattro anni di detenzione, per la sua adesione a Giustizia e Libertà, denunciato da Dino Segre, il giornalista-scrittore – nome d’arte Pitigrilli – membro segreto dell’OVRA[i]. Rilasciato nel 1936 in seguito ad un’amnistia, due anni dopo sposerà Natalia e – le leggi razziali erano già in vigore – nel 1940 sarà inviato al confino a Pizzoli, piccolo paese dell’Abruzzo, dove la moglie, doverosamente, lo seguirà. La coppia aveva già due figli, Carlo, nato nel 1939 e Andrea, da poco nato. La terza figlia, Alessandra, nascerà in quel periodo. Pizzoli, oggi, è uno dei piccoli comuni vittima del terremoto dell’Aquila.

Leone verrà rilasciato dopo l’8 settembre del ’43. Ripresa, a Roma, la sua attività antifascista, come organizzatore della Resistenza, sarà catturato e incarcerato a Regina Coeli, dove morirà sotto tortura, rifiutandosi di denunciare i compagni, nel febbraio del ’44.

Natalia – il cui primo racconto era stato pubblicato in una rivista quando aveva 18 anni; Natalia che, ancora ragazzina, aveva sempre con sé il suo quaderno delle poesie – aveva nel frattempo, negli anni del confino e della nascita della sua terza figlia, pubblicato il suo primo romanzo, «La strada che va in città», con il nome di Alessandra Tornimparte.

Tutto poteva accadere, e tutto stava accadendo, ma la sua scrittura non fu fermata. Era il suo compito al mondo, con ogni evidenza, oltre a quello di essere una moglie e una madre, avendo profondamente introiettato la cultura familiare del tempo.

Dopo la morte di Leone, e dopo una serie di traversie, terminata la guerra, trovò lavoro presso Einaudi e, lentamente, la sua vita ricominciò. Nel 1950 sposò Gabriele Baldini, professore di Letteratura inglese. Firmò tuttavia, sempre, i suoi libri con il cognome del primo marito e dei figli.

La sua fu una vita che vide gli anni della giovinezza provati e stravolti dal passaggio della Storia, in un coinvolgimento duramente pagato al servizio del rispetto di sé e dei propri doveri, e che tuttavia pare non aver avuto riflessi significativi sulla sua scrittura. E la sua vita proseguì, anche nell’impegno politico e sociale – fu Senatore della Repubblica – ma fondamentalmente dedicata al lavoro, alla famiglia e alla scrittura. Fu una vita che portò anche, ancora, difficoltà e dolore: totalmente privati; solo la scrittura fu pubblica.

Morì all’età di settantacinque anni, nel 1991.

Ogni sua opera – ed è davvero difficile sceglierne una – contiene una voce, originale, irripetibile, che ha avviato un genere della scrittura femminile italiana. Una scrittura della memoria. E tuttavia nulla, in lei, ci parla di un’attenzione, selettiva, al femminile; nulla, di lei, ci dice di un’attenzione alla propria collocazione nel mondo che non rispondesse unicamente al dovere di scrivere, esprimendo il proprio mondo interiore, contenuto dalla forma di un’educazione familiare e alla famiglia, figlie di un tempo e, in certo qual modo, senza tempo.

Natalia Levi ha scritto, nel corso della sua giovinezza, lasciando che la sua scrittura scorresse mentre la Storia travolgeva lei, la sua famiglia, i suoi affetti più cari; mentre metteva al mondo figli e seguiva il marito al confino, per poi perderlo; nelle difficoltà economiche, nel non sapere dove andare, senza che, di tutto questo, la sua scrittura risentisse, neppure attraverso una messa a tema.

E quando la Storia e la vita hanno ripreso il loro corso, ha continuato a scrivere, senza mutare voce. Senza che, nell’autobiografismo che è fonte di molta sua scrittura, nulla di lei trapeli veramente, così da rendere le sue parole capaci di attingere quell’universale che cancella il limite della privatezza e del tempo dei fatti narrati, destinandole alla durata.

Non per niente, leggendola, ci si ritrova, oggi come ieri, nelle sue parole; si ritrovano esperienze, emozioni, sentimenti, che hanno la nostra voce – di ieri e di oggi. E leggerla è partecipare a una buona conversazione a due, e con se stessi; opportunamente trattenuta, in omaggio ad una educazione scevra da sentimentalismi, che da questo controllo trae una potenza ineguagliabile.

E comprendo ora, scrivendone, perché la sua figura mi ha riportato alla mente – accostandole nella loro totale diversità – Ivy Compton-Burnett, e comprendo bene come Natalia Ginzburg sapesse cogliere la presenza della poesia (qui) nella scrittura, essenziale fino a una divertente brutalità, di quella signorina inglese, appartenente ad un altro mondo e ad un’altra generazione.

 

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[i] Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo, con compiti di spionaggio, controspionaggio e Polizia Politica. Tuttavia, l’acronimo ha avuto altre definizioni, in diversi momenti della sua storia.