Una piccola immortalità si trova seduti su una scaletta

natalia-ginzburgCosì, mentre annaspo tra i miei libri, e abbozzo senza costrutto letture e riletture, ho pensato che la cosa più giusta da fare sia metter mano a un annoso problema di riordino delle librerie di casa, compito di mia esclusiva spettanza (pur potendo usufruire di aiuto manuale) in quanto titolare delle stesse: non che l’altro che divide la vita con me non possieda libri, solo che mi sono, temo, appropriata anche dei suoi, da quasi mezzo secolo; in casa, come dire, i libri appartengono a me – responsabile acquisti e responsabile di gestione.

C’è stato un tempo in cui i libri di casa possedevano un loro ordine; un tempo in cui avrei potuto, a occhi chiusi, sapere dove, in quale scaffalatura, a quale altezza di quale muro, trovare quel libro: non sono tuttavia certa che, quel tempo – mitico – non sia solo un prodotto della mia fantasia desiderante. Se c’è stato, è certo che ora non c’è più, e sempre più spesso mi agito alla ricerca del libro perduto, che passa dinanzi ad occhi che scrutano senza riuscir a vedere. Il ricordo forse è divenuto incerto; la copertina, la dimensione, il colore, la voce di quel preciso libro, che da tempo non frequento, non dice più eccomi; qualcosa del genere.

Così, mentre annego nel compito, scopro (ma non è la prima volta!) che avviare il riordino degli scaffali è una forma di lettura, certo che sì. È come se, prendendo tra le mani libri da tempo lasciati – non dimenticati, mai, ma non presenti al ricordo attivo – riemergessero non solo letture ma tempi di vita, luoghi, fatti, che riconducono ad un’altra persona, ad una me stessa che, certo, volendo dare testimonianza, conosco – certo Vostro Onore, ero io, ma oggi io e quella là abbiamo poco in comune, direi che davvero si tratta di un’omonimia, non posso assumermene alcuna responsabilità – come dice? Che, dunque, io, questa qui, io-oggi, mi sto dichiarando colpevole di non aver mai letto questo libro, che invece ha letto quell’altra? Ha in parte ragione, ma io, io-oggi, ricordo bene questo libro, e ricordo bene anche quell’altra che lo ha letto, e ciò che quel libro le ha dato; ricordo come l’ha aiutata, le ha creato difficoltà, l’ha rallegrata, intimorita, fatta piangere. Io ricordo. Io so. È anche per merito del libro letto allora da quella là che sono oggi chi sta parlando con lei. È per merito anche di quel libro se sono un’altra. E dunque non risponderò per lei. Ma anche sì, certo. Confesso, l’ho pure riletto, io-non proprio oggi, tempo fa.

Se ho udito bene, Lei ha emesso una sentenza: dovrò rileggere ancora e ancora questo libro. Accolgo la sentenza, nessun ricorso, in questo caso. Per l’altro libro invece, no grazie, non se ne fa niente. Oggi, come dire, non trovo abbia nulla a che fare con me. Oggi.

 Dunque, dovrei regalarlo – dice? No, mai, contiene un pezzo di me, è qualcosa come un’urna cineraria. Poi, per il futuro non è detto, potrebbe ritrovare un suo tempo. Un libro, dopotutto, avviene che muoia e rinasca.

Incappo nei doppioni. Vero, non molti. Vero, solitamente non sono neppure veramente tali; ci sono i libri di mamma. Lei non c’è più (opinabile) ma i suoi libri in buona parte sì e, anche se ci stavamo attente, è capitato che acquistassimo lo stesso libro invece di prestarcelo; e anche dire che ce li prestavamo è un’inesattezza, si trattava di due biblioteche casalinghe di continuità, molti miei libri stavano da lei e viceversa. Per non dire del fatto che io ho sempre considerato <miei> tutti i libri che la <sua> casa possedeva al tempo in cui era stata casa <mia>, tutti i libri sui cui ero cresciuta, che mi avevano accompagnato all’uscita – e, al tempo, mi sono sentita derubata per il fatto che i libri fossero rimasti alla casa che lasciavo, non destinati a seguire me.

guerra-e-paceHo risolto continuando a considerare ancora e sempre miei quei libri. Pure, certi sono stati necessariamente riacquistati, anche se la nuova copia non ha mai potuto sostituire quella su cui era avvenuto il primo incontro: uno per tutti: Lev Tolstoj, «Guerra e Pace», Mondadori 1956, traduzione di Erme Cadei, quel bel cofanetto due volumi, dalla copertina in seta beige a fiori, imbottita, che, ragazzina, ho compulsato fino allo sfinimento e che oggi appare incredibilmente integro, non segnato dal tempo se non per una leggera patina, un che di anticato che lo impreziosisce. Sono certa di averci dormito sopra molte notti eppure, oggi, mai leggerei, a letto, <quel> libro, avrei troppo timore di rovinarlo.

Ma come potrò completare il riordino se mi distraggo, in equilibrio sulla scaletta, leggendo un po’ qui un po’ lì, per finire seduta, definitivamente, naso sul libro?

Sarebbe richiesto un meccanismo ferma-tempo; che permetta di farci stare, anche, questa forma bellissima di rilettura che, invece, poiché il tempo scorre, è uno dei fattori decisivi per il fallimento del compito.

Tuttavia: questa volta sono determinata. Nessuno mi deve interrompere. Solo aiutare. Sposta e risposta pacchi di libri le spalle finiscono doloranti, ma il riposo avviene sulla scaletta dove, a rischio equilibrio (l’agilità è quella che è) si rimane a sfogliare quel guarda un po’ questo, non ricordavo, è vero, c’è stato un tempo in cui quest’autore mi appassionava, com’erano belle quelle edizioni, Mailer, Mansfield, Melville, ma quel piccolo Benito Cereno è molto rovinato, Passigli Editore, traduzione Laura della Rosa, 1986 – ma da qualche parte ce ne deve essere un altro, la traduzione di Cesare Pavese! Per la verità non so da dove esca questo, e il nome dell’autore, sul dorso, <Melville>, di fatto non si legge più, c’è un pezzetto di carta rotto, staccato, dovrei farlo aggiustare, no, solo aggiustarlo, faccio io.

In piedi sulla scaletta, ne sbircio le pagine; questo libro, oggi, libro terribile, dovrei rileggerlo, ci vuol poco, ci si siede sul gradino della scaletta; no, ci vuole tempo, pensiero, lentezza. Non ora.

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Ritratto di Herman Melville

Non so se il riordino vedrà una fine – almeno parziale, almeno il completamento di una prima fase che consenta una rintracciabilità migliore dei libri e un sapere dove collocare il nuovo libro in entrata, che gli assicuri un abitare certo, dove possa stabilire relazioni di buon vicinato. Un titolo di residenza che lo renda cittadino.

Ma, nel frattempo, mi sto godendo, qualunque sia l’esito del compito assunto, questo genere particolare di lettura. Qualcosa come leggere l’elenco telefonico, e interrogarsi sui cognomi, le famiglie, le provenienze.  C’è molto da scoprire in un elenco telefonico, davvero; o le lapidi al cimitero, ah vedi un po’ chi c’è, ti ricordi?, quanto tempo è trascorso, ricordo quella volta che; vi va una chiacchierata?, c’è sempre, ancora, qualcosa che ci si può dire, qualcosa da raccontarci, perché no.

O come la visita al cimitero della città altra, a conoscerne la gente, la storia, le ritualità, nomi, titoli, le frasi-ricordo, le date che narrano storie di famiglie; la tomba dimenticata e quella curata, la tomba importante, le foto, le epoche, un presente fermo che si fa denso.

La stessa funzione ferma-tempo dei libri? No, i libri, e il loro tempo, fanno parte dei viventi. E dunque mutano, crescono, e anche, sì, invecchiano. Talvolta ringiovaniscono.

Natalia Ginzburg. Non certo un’autrice dimenticata, no, credo anche di averne parlato, da qualche parte. Certamente lasciata, da tempo. Strano, è un’autrice che ho sempre trovato di buona compagnia. Ed ecco, questo è un suo libro che non ricordavo. «Mai devi domandarmi», Einaudi 2002, anche recente. Comincio a leggere, seduta sulla scaletta. Una raccolta di chiacchierate, genere diario, piccoli saggi, qualcosa di sé.

Per oggi, temo, il riordino subirà un rallentamento. No, non devo distrarmi, ma questo libro lo leggo. Ora. Magari ne scriverò, sono già certa di desiderarlo. Una donna, oltre che una scrittrice, molto interessante, Natalia Ginzburg.